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N. 16 - Aprile 2009 (XLVII)

L’AFFAIRE DREYFUS
La spaccatura dei chierici - parte IV

di Giuseppe Tramontana

 

“Ho spesso pensato che l’affare sia stato una fortuna per gli uomini della mia generazione (…) raramente ci sono offerte simili occasioni di compiere scelte nette, sulla soglia della vita, tra due fondamenti etici, e di venire a sapere immediatamente chi siamo” (Benda, 1936, p. 204).

 

Così scrive Julien Benda, autore del famoso La trahison des clercs (1927), nelle memorie – pubblicate col titolo La jeunesse d’un clerc - cui si dedicò quand’era ormai prossimo ai settant’anni.

 

Secondo Benda l’affaire giocò un “ruolo sovrano”, come egli stesso dice in un altro passo delle medesime memorie. “Esso fu una sorta di paradigma in cui io ho fatto rientrare tutti i grandi conflitti morali di cui fui dopo testimone.” (Benda, 1936, pp. 119-120).

 

Quindi il caso Dreyfus impresse una svolta decisiva alla sua vita: gli permise, come ammette, di comprendere chi fosse. E lo stesso accadde con molti dei protagonisti della lotta intellettuale di quel periodo. Non è un caso, infatti che, Hannah Arendt, scriva a proposito di due ebrei, Bernard lazare, difensore di Dreyfus, e Theodor Herzl, fondatore del moderno Sionismo ed autore del Der Judenstaat (1896), che l’antisemitismo scatenato dall’affaire “li trasformò entrambi da uomini in ebrei. Nessuno dei due cercò di nasconderlo. Entrambi si rendevano conto, proprio a causa del grado di ‘assimilazione’, di poter condurre una vita normale solo a condizione che la loro emancipazione non rimanesse lettera morta, pur sapendo che, in realtà, l’ebreo era divenuto il pariah del mondo moderno”(Arendt, 2001, pp. 28-29).


L’obiettivo di coloro che, all’indomani della pubblicazione del J’accuse di Zola, saranno chiamati “intellettuali” da Georges Clemenceau, era difendere la Repubblica dalle forze che la minacciavano pericolosamente: “il militarismo, antilibertario e anti-individualista, tendenzialmente depredatore, foyer d’obscurantisme; e il nazionalismo, con la sua ossessione della sicurezza delle frontiere e della révanche; il clericalismo, infine, ideologicamente e politicamente propenso a ogni legittimazione dello Stato forte”(Teroni, 1988, p. 363).


La mobilitazione spontanea degli uomini di cultura, la loro discesa in campo (in entrambi le parti del campo) è uno degli effetti più rilevanti dell’affaire.


Quegli intellettuali, sui quali ricadeva il disprezzo e l’ironia degli anti-dreyfusardi88, che ritroveremo a combattere più avanti sulla sponda dell’antifascismo, gli stessi che – come raccontò Mathieu Dreyfus – vennero definiti dal procuratore Jean-Pierre Manau “gli uomini più intelligenti che onorano il Paese” (Dreyfus, 1988, p. 119), rappresentarono la coscienza francese che anelava alla libertà e, ancor di più, alla giustizia sociale. “Io mi auguro mille volte l’impunità per un traditore, piuttosto che la sua punizione ottenuta storpiando la giustizia” scrisse Benda (Benda citato da Teroni, 1988, p. 364). E questo potrebbe essere uno dei principi-cardine dell’impegno degli intellettuali durante l’affaire.


Quello che accadde con la vicenda che vide la condanna e la persecuzione dello sfortunato capitano ebreo fu non solo il risveglio di una classe intellettuali, ma, come afferma Christopher Charle, “l’invenzione di un nuovo rapporto con la politica, del tutto diverso da quello consueto, e testimonia della rivendicazione di un’autonomia degli intellettuali negli obiettivi e nei modi d’intervento e di mobilitazione.”


Questa “guerra civile borghese”, come la chiamò Guesde, unì, in un crogiolo in cui si giocava l’avvenire della Terza repubblica, numerose questioni: questioni internazionali, questioni di regime e di articolazione dello stesso, questione scolastica, religiosa, sociale, economica. Provocò, al di là delle divisioni sociali, nuove divisioni ideologiche, giungendo a quella “cristallizzazione” tra opposti schieramenti che porterà ad una rottura clamorosa, in forza della quale “una battaglia intellettuale diventa una vera e propria battaglia politica, scuotendo la classe dirigente, gran parte dell’opinione pubblica e le grandi istituzioni dello Stato (la giustizia, l’esercito).” (Charle, 2002, p. 259).


Senza l’intervento degli intellettuali (un intervento massiccio e concertato), l’affaire non avrebbe assunto le dimensioni di una crisi nazionale.


“L’impegno degli intellettuali – scrive Michel Winock – poteva prendre forme differenti: essi potevano mettere tutto il loro prestigio e il loro talento al servizio di un’etica e di una morale universale, difendendo soprattutto i valori di verità e giustizia; oppure, disprezzando i valori universali, potevano mobilitarsi in nome della coesione sociale, e della difesa particolaristica della nazione considerata come un tutto organico, senza riguardi per gli interessi dell’individuo” (Winock, 1988, pp. 148-150).


L’affaire, insomma, fu la prima circostanza in cui gli intellettuali agirono come “gruppo cosciente della propria identità sociale, tentando come gruppo di influenzare gli eventi.” Certo interventi di uomini di cultura nella sfera politica ce n’erano stati anche in passato, bastai pensare ai vari Chateaubriand, Lamartine o Benjamin Constant; a Victor Hugo, che, da deputato alla Camera dei Pari, andò in esilio per protestare contro il colpo di stato di Luigi Napoleone del 2 dicembre 1852; a Jules Vallès, membro della Comune, fuggito per evitare la condanna a morte. E ancora, un secolo prima, Voltaire che aveva preso posizione nel “caso Calas” Rousseau ispiratore della Rivoluzione. Ma, come giustanmente osserva Susan Rubin Suleiman, questi erano casi individuali in cui ognuno aveva agito a titolo personale, non come gruppo di intellettuali organizzato (Suleiman, 1994, p.189).


All’inizio i portatori di questa nuova “coscienza collettiva” furono gli intellettuali dreyfusardi, di fronte ai quali gli antidreyfusardi reagirono con la derisione ed il disprezzo. Tuttavia, man mano che il rosario di personalità e titoli accademici si allungava, anche gli intellettuali di destra sentirono il bisogno di cominciare ad usare le armi degli avversari. Anche loro creano una lega, la Ligue de la Patrie Française, da contrapporre alla Ligue des droits de l’homme et du citoyen, fondata dai dreyfusardi, anche loro lanciano petizioni e fanno sfoggio di titoli accademici e meriti letterari.

 

E se i principi ispiratori della condotta e dell’impegno degli intellettuali schierati con Dreyfus erano i concetti di giustizia e libertà, in base ai quali plasmare la Repubblica francese, quelli che guidano l’impegno degli antidreyfusardi erano i riferimenti alla Patria e al “petit peuple”, visto- come dice Zvi Sternhell – come il detentore autentico della verità francese” (Sternhell, 1981, p. 131). Se, ad esempio, da un lato per Barrès l’affaire era una questione di vita o di morte della nazione, dall’atro rappresentava l’occasione unica per imporre la sua visione del primato del gruppo-nazione. La solidarietà con il gruppo nazionale – scrive Sternhell – guidò le sue scelte politiche e sociali. Come lo stesso Barrès annotò, la battaglia antidreyfusista dimostrava il valore del nazionalismo come “metodo per segnare gli interessi materiali nel paese.” (Sternhell, 1981, p. 133). Naturalmente strettamente connesso al nazionalismo si ritrova l’antisemitismo, che riveste – secondo Sternhell – una funzione di integrazione e mobilitazione contro la democrazia liberale. “Per Barrès, Rochefort o Drumont – sottolinea lo stesso autore - (…) l’antisemitismo rappresenta una ideologia nella misura in cui fornisce al movimento di rivolta contro l’ordine stabilito un contenuto popolare, una densità sociologica e, infine, una concettualizzazione di quello che può essere l’anti-società liberale.”(Sternhell, 1981, p. 134).


Dello stesso tenore il punto di vista di Winock, il quale, nel ricordare come anche il termine nazionalismo si fosse diffuso all’epoca dell’affaire, pone l’accento sulla radicalizzazione che tale nazionalismo subì nel corso dello sviluppo della vicenda Dreyfus: “Il nazionalismo propriamente detto – afferma lo storico francese – è nato intorno al 1886 e si è imposto come una nuova forza politica nel corso dell’affare Dreyfus: la sua incubazione si è svolta dalla crisi boulangerista a quella dreyfusarda” (Winock, 1988, p. 129).


Emerse così con forza quella visione stereoptipata della “razza francese”, nei confronti della quale le altre razze”, soprattutto quella ebraica, sarebbero state dei pericolosi corpi estranei, dei bacilli infettivi da eliminare ad ogni costo dall’organismo della nazione. “L’antisemitismo – dice Winock – sarebbe diventata una dottrina tuttofare, che dava ai finanzieri ebrei la colpa della miseria operaia, attribuiva le disgrazie della Chiesa a un complotto giudaico-massonico e spiegava la divisione dei francesi con la ‘conquista ebraica’.” (Winock, 1988, p. 132).


Questi temi, li ritroveremo, praticamente immutati, nelle opere di intellettuali che si schiereranno con il fascismo e il nazismo, da Brasillach a Drieu La Rochelle, fino alle posizioni dei razzisti a noi contemporanei.


Infine, non meno importante fu l’affaire per la creazione e la sperimentazione da parte degli uomini di cultura di nuovi strumenti comunicativi utili ad incidere nella realtà. Gli intellettuali infatti, durante la vicenda Dreyfus, affilarono le loro armi individuali e collettive e misero a punto un insieme di interventi pubblici tuttora vivi e vitali: dalla lettera aperta alla petizione, dalla testimonianza davanti ai tribunali per la loro attività di impegno pubblico all’intervento a convegni e meeting, dalla partecipazione alle manifestazioni di strada all’appello alle autorità.


Un ruolo eccezionale fu quello della stampa. Senza giornali il caso Dreyfus non sarebbe nato. La diffusione rapida dei quotidiani nella provincia fece conoscere tutti o quasi i risvolti, le opinioni, gli schieramenti alla provincia. Incitando, demonizzando, assumendo, soprattutto la stampa antisemita e antidreyfusarda, toni terroristici, esasperando gli animi e incitando alla violenza. Essa contribuì massicciamente a rendere “l’affaire (…) une guerre biologique”, come si espresse Benda, cioè a “ridurre la vita politica e psichica a prodotto della vita organica (…)”. E “l’ostinata ricerca delle cause in direzione unitaria, il bisogno di spiegazioni totalizzanti, l’ambizione di sistemazione teorica, hanno aiutato a compierlo.” (Teroni, 1988, p. 375).

La polarizzazione inevitabile

Come si è visto, iniziò con l’affaire l’impegno politico dei gruppi intellettuali, mentre si operò la congiunzione sotto una singola designazione (“intellettuali”) di categorie eterogenee: scrittori, giornalisti, professori universitari, artisti vari…


Indubbiamente il più efficace contributo venne fornito da Emile Zola. Giovani scrittori come Benda, Lazare, gli Halévy, Proust, Gide, Mirbeau, Blum, Renard avvicinarono Anatole France alla causa dreyfusista, ma fallirono, come si è visto, con Barrès. Vi si associarono poi alcuni intellettuali anarchici come Faure e la maggioranza del movimento simbolista: Zola avrà la simpatia di Mallarmé, dei poeti e dei pittori d’avanguardia come Saint-Pol Roux, Bonnard, Pissarro, Signac.


L’università si schierò nel campo dreyfusardo con una parte dell’Institut Pasteur, dell’Ecole des hautes études, del Collège de France, e una forte minoranza della Sorbona.


All’Ecole Normale, il bibliotecario, Lucien Herr, diede impulso a un gruppo di giovani intellettuali socialisti: Lavengin, Mathiez, Charles Peguy che, tra l’altro, sarà il principale fondatore della libreria Bellais, centro della propaganda dreyfusista nel Quartiere Latino.


Schierati con Dreyfus sono anche uomini politici come Jean Jaurès e Guesde, Scheurer-Kestner e Clemenceau (notissimo anche come giornalista e direttore de l’Aurore).
Nel campo opposto si ritrovarono scrittori affermati come Léon Daudet, Coppée, Gyp (alias la contessa de Martel), Lorrain, Maurras, Verne, la metà dell’Institut e dei professori della Sorbona. Tra i due campi contrapposti vi è anche una massa attendista come Boutroux e Lavisse che lanciano invano appelli per la riconcialiazione.
Furono anni di polemiche e duelli, ingiurie e minacce.

 

Si crearono nuove amicizie e solidarietà e se ne incrinarono di antiche e apparentemente solide. Léon Blum non rivolse più la parola a d un vecchio amico schieratosi dalla parte antidreyfusarda. Proust, come raccolta egli stesso nelle Lettere, ebbe vivaci discussioni con il padre, convinto antidreyfusardo, e per otto giorni i due non si parlarono. Su ruppe la salda amicizia tra i pittori Degas e Pissarro, tanto che, in un’occasione, il primo rifiuto di esporre i suoi quadri accanto a quelli “dell’ebreo Pissarro”. In campo dreyfusrado si schierarono anche i pittori Monet, Cassatt e Veuillard, contro Renoir e Cézanne. Ma il più fanatico fu Degas il quel, oltre a rompere con Pissarro, voltò le spalle agli Halévy, suoi mecenati ed amici da decenni.


Tra tutti costoro, tuttavia, un posto a parte merita Romain Rolland, romanziere di successo, nonché biografo di grandi musicisti e Premio Nobel per la Letteratura nel 1919.


Rolland si era rifiutato di sottoscrivere le petizioni a favore di Dreyfus e, benché avesse sposato una ricchissima ebrea, Clotilde Bréal, era un antisemita. Tuttavia, come già Picquart, pur essendo antisemita, poiché “la sua coscienza reclama la giustizia” (Diuchatelet, 1981, p. 288), non chiuse gli occhi di fronte alle macchinazioni contro un uomo innocente.. Però prese le distanze dal movimento dreyfusista perché gli ripugnava “parteciper aux passiones enrangées”, come scrisse in una nota del 21 aprile 1898 (Diuchatelet, 1981, p. 288, n. 6).


Ma proprio in quell’anno, quasi in contemporanea con il processo di Rennes, venne rappresentato un suo lavoro teatrale – Les Loups – che si svolge negli anni della Rivoluzione francese. In quest’opera il protagonista è un ufficiale ingiustamente accusato. In realtà, come scrive lo stesso Rolland, citato da Duchatelet, egli voleva “fissare questo duello eroico di due fedi nemiche (la Giustizia e la Patria) e, mettendole l’una di fronte all’altra, (…) ispirare a ciascuno il rispetto dell’avversario” (Diuchatelet, 1981, p. 288, n. 7).

 

A dispetto delle attese di Rolland, Les Loups fu accolto come una chiara difesa di Dreyfus e molto applaudito dal pubblico dreyfusardo, con grande disappunto dell’autore. “Egli si rivelava dreyfusardo di fatto – chiosa Duchatelet -, ma rifiutava di arruolarsi nel partito dreyfusardo, desideroso di collocarsi altrove.” (Diuchatelet, 1981, p. 289).


Oltre al caso di Rolland, la letteratura francese non si occupò in misura massiccia dell’affaire. Certo vennero prodotte un certo numero di trasposizioni o “allegorizzazioni” (Abraham-Desné, 1985, III, p. 19), ma, al cospetto dell’importanza dell’evento, pochi sono stati i romanzi e le commedie in cui la vicenda del capitano Dreyfus hanno trovato risalto.


Naturalmente si possono citare A la recheche du temps perdu e la precedente opera incompiuta di Proust, Jean Santeuil. Notevole poi è il romanzo Jean Barois di Roger Martin du Gard, pubblicato “in ritardo”, ossia nel 1913, in quanto, essendo nato nel 1881, lo scrittore era ancora troppo giovane per schierarsi in prima persona durante lo svolgersi dell’affaire. Tuttavia, riuscì a recuperare ‘l’assenza’ con questo romanzo, scritto dietro la diretta influenza di Marcel Proust, suo grande amico, e più grande di dieci anni.


Altre due opere rilevanti a nostro riguardo sono quelle di Anatole France, L’Ile de pingouins e Monsieur Bergeret à Paris. Infine vi è l’ultima fatica di Zola, Vérité.


Accanto a queste opere più famose, possiamo collocare i lavori meno noti, di autori ormai pressoché dimenticati. E’ questo il caso di Les Dupont-Leterrier di André Beaunier, che reca il sottotitolo “Histoire d’une fameille pendant l’Affaire”, Elie Greuze di Gabriel Trarieux, biografia immaginaria di un intellettuale dell’epoca dell’affaire. Infine delle tre opere di Jean-Richard Bloch dedicate all’affaire, solo la breve novella Levy è una “rappresentazione letteraria diretta” della vicenda, mentre La nuit kurde e …et C. ne danno un riferimento “mediato” (Abertini, 1981, p. 245).


Infine, val la pena riportare quanto sostiene Susan Rubin Suleiman, seconda la quale anche l’affaire ebbe la sua chiara allegoria trasparente, un po’ come la Rivoluzione Russa e lo stalinismo con The animal farm di Orwell. Tale opera allegorica la ritrova ne L’Ile des pingouins di Anatole France. Qui, l’autore parla della storia della “Pingouinie” (la Francia), dai tempi lontani in cui gli abitanti erano uccelli dalla goffa andatura, alla loro miracolosa trasformazione in esseri umani, fino al futuro pregno di un’utopia capitalistica negativa in cui un’esplosione artificiale precipiterà la società all’età della pietra.

 

Durante la narrazione, France parla di un ufficiale ebreo – Pyrot – accusato ingiustamente di avere rubato ottomila balle di fieno. Condannato, viene deportato in un’isola deserta, nonostante le sue proteste.

 

Nell’esercito i generali Greatuk e Panther (Mercier e Boisdeffre) provvedono a fabbricare prove false e ne costruiranno così tante che, alla fine, occuperanno due piani del ministero della Guerra. I pavimenti però cedono sotto il peso delle prove e seppelliscono quattordici persone. Intanto, il prode colonnello Hastaing (Picquart) scopre il ero colpevole: Maubec (Esterhazy), mentre uno scrittore, Colomban (Zola), pubblica un articolo in cui dimostra la calunnia e l’ingiustizia… (Suleiman, 1994, pp. 200-201).

In Italia

Dal processo ad Esterhazy in poi l’interesse per l’affaire dilagò in tutta Europa e varcò l’oceano. La certezza dell’innocenza di Dreyfus era quasi assoluta dappertutto, tranne che in Francia.

 

Le critiche dei giornali stranieri per come era stato condotto l’affare erano severe. Naturalmente, la stampa francese antidreyfusarda tentava di screditare tali critiche con argomenti che rinviavano ad oscure trame e meschini complotti dell’ebraismo internazionale, il quale di volta in volta assumeva i connotati del socialismo (Winling, 1981, pp. 65-73) o del liberalismo, dell’anticlericalismo o del livore protestante. Ma i rapporti riservati che giungevano dal 1898 a Parigi dalle ambasciate e dai consolati di mezza Europa e dell’America non lasciavano adito a dubbi: l’affaire aveva prodotto una pessima impressione e la Francia veniva indicata come un paese in cui il diritto non trovava più cittadinanza.


Anche in Italia, la maggioranza dell’opinione pubblica era dreyfusarda e questo per più motivi. Tra essi – come nota Mario Toscano – vanno annoverati la reazione alle polemiche francesi nei confronti dell’addetto militare italiano a Parigi e i timori che tra le conseguenze dell’affaire potesse rientrare un cambiamento di regime in Francia suscettibile di riaprire la questione romana.” (Toscano, 2003, p. 38).


Tra gli intellettuali italiani, Giuseppe Verdi aveva inviato per primo a Zola un telegramma di consenso per il suo intervento su L’Aurore. Giosué Carducci in un messaggio a nome degli italiani scrisse che con quel nobile gesto Zola coronava la propria fama letteraria per affermare la giustizia, propugnare la fratellanza e difendere l’umanità intera.

 

D’altra parte vi è da ricordare, con Fausto Coen, che l’onda antisemita che si scatenò in Francia, in Italia non trovò terreno fertile in quanto “l’Italia, divisa per secoli in tanti stati, terra di conquista, miscuglio di popolazioni e di lingue, considerava il ‘diverso’ come una presenza consueta e generalmente accettata.” (Coen, 1994, p. 214). Ed a questo proposito, Coen, oltre alla figura di Daniele Manin, cita i casi di Isacco Artom (segretario e consigliere di Cavour) e Ernesto Nathan (sindaco di Roma), di Luigi Luzzatti (ministro delle Finanze e poi primo ministro) e Giuseppe Ottolenghi (prima generale, poi senatore e ministro della Guerra e, infine, istruttore del giovane Vittorio Emanuele III).


In ogni caso, il processo e le accuse al capitano francese “rappresentarono (…) un’occasione per manifestare pubblicamente i propri sentimenti verso gli ebrei.” (Catalan, 1997, p. 1268).


Il veicolo di diffusione di tale interesse fu la stampa, la quale riportava le notizie provenenti dalla Francia conquistando e incuriosendo il pubblico italiano. Come ricorda Toscano, l’opinione pubblica fu spinta ad “appassionarsi per la causa di Dreyfus e a prendere posizione contro il ‘gesuitismo’ e il ‘militarismo’ che sembravano sommergere la Repubblica francese attraverso il coinvolgimento e la presa di posizione di Zola, quale difensore degli ideali della democrazia, simbolo della Francia dell’89.” (Toscano, 2003, p. 38).


Tra i giornali italiani più attivi sul fronte dell’informazione vi erano La Tribuna di Roma, di cui rea direttore Attilio Luzzatto, e Il Corriere della Sera di Milano, soprattutto sotto l’egida di Luigi Albertini.


La Tribuna assunse immediatamente una linea dreyfusarda, in cui i richiami al senso di moderazione e di giustizia si mescolavano all’esaltazione di Zola e degli intellettuali pro-Dreyfus e ad un, nemmeno tanto velato, anticlericalismo, il quale - memori del ruolo del generale Oudinot nell’abbattimento della Repubblica Romana del 1849 - ben si sposava con un notevole antifrancesismo. Quest’ultimo – come ricorda Charle – mirava soprattutto a “screditare la Francia, tradizionale avversaria dello statista siciliano, tanto che un uomo come Cavallotti”, fiero oppositore di Crispi, “rifiutò ogni coinvolgimento nella campagna per Dreyfus.” (Charle, 2002, p. 340).


Altro quotidiano vicino alla posizioni dreyfusarde era “Il Resto del carlino”, il quale il 6 febbario 1898 ospitò una nota dal titolo A Emilio Zola, scritta da Giosué Carducci e recanti le firme di numerosi artisti, letterati e scienziati, tra i quali Antonio Fogazzaro, Giuseppe Giacosa, Gaetano Negri, Pasquale Villari, Cesare Lombroso, Michele Pantaleoni e Vilfredo Pareto.


Il Corriere della Sera, invece, fu conquistato lentamente alla causa dreyfusarda. Il 26 dicembre 1894, all’indomani della condanna di Dreyfus, il corrispondente da Parigi scriveva che, pur avendo nutrito dei dubbi sulla colpevolezza del capitano, doveva inchinarsi al verdetto unanime del Consiglio di Guerra.


Il 6 gennaio 1895 la cronaca della degradazione fu puntuale ed esaustiva, non priva di accenti di rispetto per il condannato.


Dopo Rennes, poi, vari intellettuali scrissero le loro impressioni sul Corriere. Tra costoro degni di nota gli interventi di Enrico Panzacchi con un articolo intitolato Una visita a Dreyfus, in cui, sul filo di una triste consapevolezza, immagina di far visita al condannato e di trovarlo in balìa di una sofferenza pari soltanto all’ingiustizia patita. Un altro intellettuale che intervenne sulle pagine del Corriere fu Giuseppe Giacosa, con un articolo dal titolo Spirito pubblico in Francia, in cui, dopo aver analizzato i risvolti inquietanti dello stato d’animo dei francesi, invitava pacatamente a non mettere sullo stesso piano tutti i francesi. Tra di loro, infatti, ve ne erano alcuni, come Scheurer-Kestner o Zola, meritevoli del più alto rispetto per l’impegno profuso non solo a favore dello sfortunato capitano ebreo, ma a beneficio dell’umanità e della giustizia.


Fu invece dagli ambienti cattolici e reazionari che vennero in prevalenza gli attacchi antisemiti a Dreyfus.


In verità, fino alla fine del 1897, per il Vaticano non esisteva nessun affaire Dreyfus. “Del tutto inaspettatamente – ricorda Miccoli – la Santa Sede fu chiamata a misurare la linea politica proposta ai cattolici francesi con la drastica e violenta contrapposizione determinatasi nel paese.” (Miccoli, 1997, p. 1494).


Facendo propria la lettura dei fatti avanzata dalla “Croix”, i giornali vicini alla Chiesa come “La Civiltà Cattolica”, “Osservatorio cattolico”, la “Voce della Verità”, l’ “Osservatorio Romano”, l’ “Unità cattolica”, non esitano – come ha dimostrato Annalisa Di Fant – a rispolverare tutto il bagaglio dell’antisemitismo e dell’antiebraismo classico: dall’omicidio rituale, al deicidio, al complotto giudaico-massonico. L’affaire Dreyfus veniva presentato, nella maggior parte dei casi, come una “ ‘macchinazione montata dalla massoneria coll’oro del ghetto, a fine di persecuzione religiosa e di demolizione sociale’ così come, alla base di tutto, è sempre ‘l’audacia degli ebrei nel chiedere la servitù delle anime cristiane alla loro sinagoga.’” (Di Fant, 2002, p. 162)


Tra tutti i giornali cattolici, il più diffuso era La Civiltà Cattolica, organo dei gesuiti. Tale rivista, si rivolgeva ad un pubblico colto, che difficilmente poteva avere accesso ad altri mezzi di comunicazione, così come ad un pubblico selezionato di preti, monache, dame di carità, avvocati e nobili di provincia, ponendosi come la più efficace strumento di diffusione delle opinioni e della cultura cattoliche. Come ricorda Antonio Prontera, una delle caratteristiche della Civiltà Cattolica era la presenza costante della rubrica “Cronaca Contemporanea” in cui si commentavano e analizzavano i fatti e gli avvenimenti di cronaca, dandone, naturalmente, una lettura in linea con le tendenze della rivista. Bene, fu in questa rubrica che, dal 1895 al 1900, venne trattato, analizzato il caso Dreyfus. In questo lasso di tempo la rivista fornì una “presa di posizione esplicita in due articoli calibrati in termini teorici, filosofici e politici che, nel situare l’affaire, offrono le chiavi esplicative utilizzati nelle notizie e nei loro commenti rispettivi.” (Prontera, 1981, pp. 58-59).


Il primo di questi due articoli dal titolo “Il caso di Alfredo Dreyfus”, pubblicato il 5 febbraio 1898, sul n. 1143, dava per legittima la sentenza di condanna del capitano. Egli era di “razza ebraica” ed era una “persona importante della Massoneria”, la quale si è appropriata della Repubblica, tanto che quest’ultima si può dire “ebraica più che francese”, offendendo lo spirito patriottico ed il sacrosanto “onore dell’esercito” con infamanti insinuazioni. Fu l’occasione per mettere in guardia dal pericolo giudeo” (Prontera, 1981, p. 59) giacché l’affaire non era altro che una congiura di interessi anticattolici e antifrancesi. Poi, nello stesso numero, prendeva di mira Zola, sottoposto a giudizio. Contro di lui, scrive Prontera, “la rivista lancia un duro attacco per screditarlo agli occhi dell’uomo medio, sottolineando la natura dei suoi difensori.” (Prontera, 1981, p. 61).

 

E così vennero messi nello stesso calderone i protestanti e gli ebrei, i socialisti, gli anarchici, i radicali, giornali come “L’Aurore”, “La Lumière”, “Le Siècle”, “Le Rappel”, “La Lanterne” e altri ancora. Tutti in mano agli ebrei ed ai socialisti atei e perciò anticattolici e amici dei traditori.


La Civiltà continuò a pubblicare notizie sull’affaire, ma limitandosi alla mera cronaca. Tuttavia, intorno alla seconda metà del 1899 qualcosa cambiò. Probabilmente a causa delle critiche piovutale addosso da parte dei cattolici di mezza Europa, la rivista assunse un taglio più moderato, già nel n. 1183 del 7 ottobre 1899. Cercò di promuovere “l’immagine di una Chiesa vittima dell’anticlericalismo e vuole ridurre l’affaire a un fatto di pura e semplice ‘opinione’. Esso non è stato un fatto ‘a valore universale’, non ha avuto niente della lotta di religione nonostante ‘la comparazione blasfema tra il condannato all’Isola del Diavolo e il Crocifisso del Golgota.’” (Prontera, 1981, p. 63).


Va sottolineato, peraltro, che il cambiamento di atteggiamento della “Civilta Cattolica” fu in sintonia con un mutamento di toni avvenuto in tutta la Chiesa. Ciò accadde dapprima in seguito alle lezioni del giugno 1898, vera delusione per la Santa Sede, e successivamente in forza della nomina di Waldeck-Rousseau a presidente del Consiglio, sostenuto da una maggioranza dreyfusarda.

 

Così si giunse al faticoso ralliement. Infatti, tra la fine del 1897 e l’inizio del 1898 “il giudizio politico che Leone XIII e la Segreteria di Stato formularono sulle vicende francesi (…)” era ancora all’insegna di un duro antisemitismo, incarnante ormai il momento unificante della politica di cristianizzazione della Francia contro radicali, socialisti e antimilitaristi (oltre che contro i soliti ebrei e protestanti). In quel frangente i ministri antidreyfusardi del governo Mèline erano stati accolti con piena soddisfazione ed in essi il Vaticano riponeva grandiosi e malcelati propositi di riarticolazione della Repubblica in chiave reazionaria.


All’inizio, dopo la vittoria radicale alle elezioni del giugno 1898, la speranza della Chiesa era quella che il fronte antidreyfusardo potesse riagglutinarsi, tanto che Mons. Clari, nunzio apostolico in Francia, sperava in una forte ripresa del fronte schieratosi contro il capitano ebreo per veder la caduta di Waldeck-Rousseau. Ma ormai, l’opinione pubblica aveva decisamente cambiato corrente.

 

Non solo. Di fronte, alle proposte di legge “eversive” come quella sulla separazione tra Stato e Chiesa, quella sulle scuole pubbliche sottratte all’influenza ecclesiastica e quella sulla sottoposizione ad autorizzazione statale delle associazioni, tutte leggi che danneggiavano enormemente il monopolio in campo educativo della Chiesa, quest’ultima decise di assumere un atteggiamento più defilato.

 

In questo modo alla “correzione di rotta” di cui parla Giovanni Miccoli ed alla conseguente riduzione dell’affaire a mero affare giudiziario, svuotandolo così di ogni valenza “universale” antisemita. E le linee-guida per la nuova posizione della Chiesa sull’argomento vennero fornite da Leone XIII in persona nel corso di un’intervista a Le Figaro del 15 marzo 1899. In tale intervento il Papa non si pronunciò più sulla innocenza o colpevolezza di Dreyfus: dovevano essere i giudici a decidere. E poi fa delle riflessioni in cui accomuna il capitano ai martiri cristiani e prima di tutti al Cristo, vittima innocente per antonomasia. “Leone- scrive Miccoli – con quel richiamo alla passione di Cristo e alle persecuzioni antiche, intende spiegare perché non si può fare di ‘questo affare una questione di religione’. La Chiesa, infatti, per le sue radici e la sua storia non avrebbe potuto che salutare con gioia la condizione di una vittima innocente, e quindi i cattolici non avrebbero potuto avere nulla da ridire se Dreyfus fosse stato riconosciuto tale dai suoi giudici.

 

Era – conclude Miccoli – un modo per bloccare eventuali future polemiche, suggerendo al contempo stesso un atteggiamento di tranquilla attesa per la sentenza del tribunale, non per pronunciarsi più o meno indirettamente sulla realtà delle cose.” (Miccoli, 1997, p. 1516).


Da questo momento in poi, dietro indicazione esplicita del Papa, l’atteggiamento della Chiesa mutò. Quella dichiarazione fu l’indicazione ai cattolici francesi che l’utilizzo che fino ad allora avevano fatto dell’affaire avrebbero dovuto cessare. Ne andavano di mezzo le relazioni Santa Sede-Francia e la supremazia religiosa della Chiesa Cattolica Romana in Francia e in Europa.

Conclusioni

L’affaire Dreyfus può essere visto come la lotta della giovane Repubblica francese, sorta dalla sconfitta di Sedan, contro le ultime forze reazionarie e monarchiche, che tentavano di delegittimarla e cancellarla.


Da questo punto di vista, la posta in gioco fu altissima. Il primo nodo che si presentò in maniera drammatica fu lo scontro tra il potere civile e quello militare. Quest’ultimo, non accettando la sottomissione, tentò fino all’ultimo di proporsi come forza separata, portatrice di una integra morale di corpo, baluardo contro la rilassatezza dei costumi, la corruzione e la decadenza dell’ambito politico e, soprattutto, unica istituzione che conservata vivi i rapporti con la società e sapeva farsi portatrice dei valori eterni ed immutabili della Patria e della francesità.


Le forze armate trovarono un’ottima alleata nella Chiesa cattolica, la quale temeva fortemente un’estromissione dal ponte di comando della politica francese, a beneficio delle forze laiche e progressiste, primi tra tutti i radicali, ma anche il nascente movimento operaio, il quale, nel frattempo, lasciando la strada delle mere rivendicazioni salariali e delle critiche astratte al sistema, abbracciava il programma della difesa delle libertà civili calpestate.


L’affaire, peraltro, permetterà al blocco delle sinistre di detenere il potere politico per venti anni. Non solo. Come ha rilevato giustamente Michel Winock, se, da un lato, l’affaire fece emergere, con il nazionalismo antidreyfusardo, la diffusione dell’antisemitismo nel paese, portando al costituirsi dell’intreccio tra i rami dell’antisemitismo cattolico, di quello primitivo anticapitalista e di quello nazionalista, dall’altro, con il dreyfusismo, denunciò “l’orrore degli odi razziali”.

 

Si pervenne, dunque, ad una “scrematura sulla sinistra perché, facendo apparire l’antisemitismo come il denominatore comune del nazionalismo, lo escluderà dalle manifestazioni ufficiali dei ‘repubblicani’. (…) Dopo l’affare Dreyfus – conclude lo storico transalpino – un uomo di sinistra non poteva più essere antisemita e contravvenire a tale legge – e vi fu chi contravvenne – significava esporsi all’accusa di razzismo e autoescludersi dalla propria famiglia politica.” (Winock, 1988, p. 149).


L’ingiusta condanna del capitano di origine ebraica spalancò un nuovo mondo davanti agli occhi dei francesi e degli europei. Sorgerà un movimento di intellettuali organicamente impegnati nella lotta politica e sociale, un movimento solido, che opererà in profondità nella coscienza della Francia, ma nascerà anche il moderno concetto di democrazia intesa come affermazione di un ‘quarto potere’: la stampa, che creerà l’opinione pubblica.

 

L’affaire fu la prima grande battaglia politica condotta attraverso i mass-media. Altre ne seguiranno nei decenni successivi: il caso Sacco e Vanzetti, il caso dei coniugi Rosenberg, per finire con la discussa vicenda Sofri. Ma il primo fu Dreyfus ed il mondo conobbe il potere persuasivo e pervasivo dei mezzi di comunicazione di massa.


Ma si affermerà anche il moderno concetto di ‘diritti umani’: una persona non poteva essere sacrificata sull’altare della ragion di Stato né dei barbari pregiudizi. Il caso Dreyfus fu anche la lotta collettiva contro l’antisemitismo, il razzismo, il progetto di uno status separato (come propose la cattolicissima rivista italiana Civiltà Cattolica) per alcuni cittadini, che in forza della loro discendenza ‘razziale’ si sarebbero dovuti considerare non-cittadini. Per affermare tale principio di uguaglianza sorse la Lega dei diritti dell’uomo. In sintonia con questo spirito di tolleranza, si affermò anche una corrente di pensiero fondata sul relativismo storico, contraria al rozzo nazionalismo.


Sull’altra sponda, la destra assumerà posizioni sempre più aggressive, al punto che l’Action Française fornirà un modello politico-culturale per il fascismo italiano. E nell’antisemitismo di Vichy e nella feroce opposizione all’indipendenza algerina troveremo il marchio di quella lugubre genesi mortifera. La Francia -. Terra di contraddizioni e di battaglie ideali – sarà anche la culla culturale dell’antisemitismo del fascismo.


In Italia solo la stampa cattolica oltranzista sostenne la colpevolezza di Dreyfus, con accenti più o meno marcati di antisemitismo, che si intrecciavano con la classica vulgata antiebraica frutto della millenaria avversione contro il popolo ‘deicida’. Primeggiava, per la durezza dei toni, la rivista gesuita La Civiltà cattolica, che – come si è detto - poneva come rimedio al potere ebraico una legge che li considerasse alla stregua di “stranieri ospiti non cittadini”.

 

Purtroppo, un quarantennio dopo, quando sembrava che ogni eco di Dreyfus e delle sue peripezie si fosse definitivamente spenta, qualcuno penserà bene di ripescare ed attuare quell’infame proposta.

 

 

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