N. 15 - Marzo 2009
(XLVI)
L’AFFAIRE
DREYFUS
La revisione, la
riabilitazione,
l’antisemitismo
permanente - parte
III
di Giuseppe
Tramontana
Il 3 settembre, il
presidente del Consiglio, Brisson, invitò ufficiosamente
i famigliari di Dreyfus a presentare una domanda di
revisione del processo del 1894. Immediatamente
Cavaignac rassegnò le dimissioni. Venne sostituito dal
generale Zurlinden che sembrava, se non favorevole,
almeno non fanaticamente contrario alla revisione.
Subito i giornali di destra lo attaccarono: “Alla fine,
l’hanno trovato il generale disposto a tradire le Forze
Armate!” (Rochefort su L’Intransigeant dell’8
settembre).
Zurlinden inaugurò il suo ministero colpendo
Du Paty, che il 12 venne emesso a riposo per gravi colpe
in servizio, e Picquart, denunciato quale falsario del
petit bleu.
Il 17 settembre il governo trasmise alla Commissione
consultiva la domanda di revisione del processo.
Immediatamente Zurlinden si dimise per protesta. Assieme
a lui si dimise anche il ministro dei Lavoro Pubblici
Tillaye. Zurlinden tornò al governatorato militare di
Parigi. Il suo posto a capo del ministero della Guerra
venne preso dal generale Chanoine.
Il Paese stava attraversando un periodo di profonda
crisi e le voci di possibili colpi di stato si
moltiplicavano. “La situazione diviene veramente tragica
– scrive Baumont – alla fine di settembre 1898. La
repubblica, trascinata da un nuovo boulangerismo, ‘un
boulangerismo senza Boulanger’, sembra che vada verso il
precipizio” (Baumont, 1959, p. 220).
Il presidente Brisson era deciso ad aprire il
procedimento di revisione del processo. La magistratura
era divisa, la Commissione del ministero della Giustizia
si era spaccata in due fazioni, la fazione che si
opponeva e quella favorevole alla revisione.
La Commissione consultiva si pronunciò, infine, contro
la revisione poiché non erano emersi fatti nuovi in
grado di stabilire l’innocenza del condannato (21
settembre).
Il governo appariva in estremo imbarazzo. Per sua
fortuna, a toglierlo dall’imbroglio ci pensò una notizia
apparsa sul giornale londinese “The Observer” del 24
settembre, che pubblicava la prima di una lunga serie di
confidenze e ammissioni di Esterhazy. Il fuggiasco
avrebbe rivelato che il famoso bordereau l’aveva scritto
proprio lui, ma dietro dettatura di Sandherr (che era
morto). All’Ufficio Statistica – aggiungeva – c’erano
più che altro prove morali del tradimento di Dreyfus,
ma, purtroppo, nessuna prova materiale. Allora,
chiosava, i “capi” avevano approfittato della
somiglianza delle due calligrafie per “incastrare” il
capitano ebreo. Tuttavia, in serata, Esterhazy smentirà
l’articolo del giornale inglese e farà causa allo
stesso.
Ma, intanto, qualcosa, si era rimessa in moto. Così il
26 settembre, dopo una seduta tempestosa, con 6 voti
contro 4 il Consiglio dei ministri decise di trasmettere
la domanda di Lucie Dreyfus alla Corte di Cassazione. Lo
stesso giorno, un dispaccio dell’ambasciata tedesca a
Roma parlava di un colpo di stato in preparazione da
parte di Cavaignac o di un triumvirato di generali.
Il Procuratore Generale presso la Corte – scrive Armand
Charpentier – era Manau. Egli, stimando che fosse
impossibile che i giudici del 1894 avessero condannato
Dreyfus solo sulla base del bordereau, chiese la
ministero della Guerra il dossier segreto, ma Chanoine
rifiutò di consegnarlo. Di fronte a questo rifiuto –
continua Charpentier – Manau basò la sua requisitoria
introduttiva unicamente sui due fatti nuovi allegati
dalla Mme Dreyfys: la contraddizione degli esperti sulla
scrittura del bordereau e i falsi di Henry.” (Charpentier,
1933, p. 186).
Così, il 15 ottobre, il Procuratore Manau dichiarava
ricevibile il ricorso, e lo trasmetteva per l’esame di
merito alla Camera Criminale, una delle tre sezioni
della Corte di Cassazione, presieduta dall’alsaziano
Loew. E, come ricorda Revel, la “Libre Parole”,
“giocando sul nome” di quest’ultimo, “alsaziano e
protestante, riprendeva a discorrere del complotto
semita.” Il presidente Loew in poco tempo si trovò al
centro della tempesta. Soprattutto allorché accentuò gli
sforzi perché la petizione fosse esaminata
oggettivamente. Fu coperto di ingiurie e calunnie. Ma
non recedette. Incaricò uno dei giudici, Alphonse Bard,
di preparare una valutazione dell’appello e, il 29
ottobre, con voto di maggioranza, la sezione penale
approvò in effetti la raccomandazione di Bard, che
invitava la Corte ad avviare un’inchiesta sul caso
Dreyfus. Ciòaccese ulteriormente gli animi degli
antidreyfusardi, i quali si misero in moto per sottrarre
l’appello alla giurisdizione dei giudici, adducendo il
noto motivo del complotto ebraico. Successivamente,
proprio mentre la sezione penale terminava la sua
inchiesta (9 febbraio 1899), e poco prima che votasse
l’ammissione di un nuovo processo a carico di Dreyfus,
la Camera dei deputati ed il Senato, ancora a
maggioranza antidreyfusarda, stavano discutendo una
legge in base alla quale l’inchiesta avrebbe dovuto
essere condotta non dalla sola sezione panale, ma da
tutt’e tre le sezioni della Corte di Cassazione. Questa
proposta sarebbe diventata legge il 1 marzo 1899 ed
avrebbe vanificato tutto il lavoro della sezione penale.
L’inchiesta così dovette riprendere dall’inizio e questa
volta davanti a ben quarantanove giudici, come si vedrà
(Martin, 1994, p. 189).
Quella che ebbe inizio il 15 ottobre fu una settimana di
fuoco. Si era sparsa la voce di un colpo di stato. I
socialisti Jaurès e Guesde ne denunciarono pubblicamente
il pericolo e costituirono un Comitato Permanente di
Vigilanza, che avrebbe dovuto bloccare qualsiasi
cospirazione militarista, “chiudendo le strade alla
reazione e alla sua violenza”.
Il 25 ottobre, in un’atmosfera incandescente, si svolse
la cerimonia di riapertura delle Camere. Intorno al
Parlamento bivaccavano migliaia di dimostranti
capeggiati dall’antisemita Guérin. Erano state
presentate ben diciotto interpellanze contro il governo,
quasi tutte sul caso Dreyfus.
“Déroulède iniziò l’attacco alla prima seduta della
Camera accusando il ministero di essersi venduto ai
dreyfusardi e urlando che bisognava sbarazzarsene a ogni
costo, compreso il ministro della Guerra” (Charpentier,
1933, p. 199).
A questo punto, improvvisamente, si alzò il ministro
della Guerra, Chanoine e dichiarò perentoriamente che la
sua convinzione era conforme a quella dei suoi
predecessori. Per la salvezza dell’onore dell’esercito,
dava le dimissioni. Brisson, di fronte all’aperta
insurrezione del suo ministro, prese la parola e
dichiarò che avrebbe garantito la supremazia del potere
civile su quello militare e chiese la sospensione per
sentire il presidente della Repubblica. Ma ormai gli
eventi precipitavano. Su interpellanza dell’opposizione,
che chiedeva cosa intendesse fare il governo per
prevenire gli attacchi alle Forze Armate, il ministero
Brisson – 274 voti contro 261 – cadde.
Tuttavia, la marcia della revisione non si arrestò. Il
29 ottobre la Camera Criminale della Corte di
Cassazione, con 10 voti contro 4, dichiarò ricevibile la
domanda di revisione, fissando all’8 novembre la prima
udienza.
Dopo la caduta di Brisson, il 31 ottobre, si formò un
nuovo governo di “concentrazione repubblicana” con a
capo Charles Dupuy (già capo del governo nel 1894) e con
il civile Charles Freycinet, un altro antidreyfusardo
convinto, al ministero della Guerra.
L’8 novembre ebbe inizio l’inchiesta da parte della
Corte di Cassazione. Vennero interrogati 90 testimoni,
tra cui anche cinque ministri della Guerra (Mercier,
Billot, Cavaignac, Zurlinden e Chanoine). Un’atra
trentina di testi vennero interrogati mediante
commissione rogatoria. Dalle prime notizie sembrava che
i giudici fossero favorevoli alla concessione della
revisione. I giornali di destra si scatenarono contro i
“bricconi asserviti all’ebreo”. Le aggressioni
raddoppiarono dall’8 dicembre allorché la Corte decise
di richiedere gli incartamenti dei due processi contro
Picquart. Si raggiunse il parossismo quando venne
richiesto al ministero della Guerra anche il dossier
Dreyfus. Fu in questo clima che maturò l’idea di
togliere alla Corte la causa di revisione ed affidarla
alla Corte di Cassazione a Sezioni Riunite. Cosa che,
come si è visto in nota 36, fu ottenuta con legge del 1
marzo 1899.
Questa richiesta di ampliamento della Corte venne
proposta improvvisamente dal presidente della Camera
Civile, Quesnay de Beaurepaire, che depose anche una
denuncia di collusione tra il giudice Bard e Picquart.
Il presidente della Corte di cassazione, Mazau, su
richiesta del ministro di Giustizia, ordinò un’immediata
indagine, che rivelò ‘assoluta infondatezza dell’accusa
(7-10 gennaio 1899). Ma de Beaurepaire non ‘arrese. Il
16 gennaio presentò un secondo esposto contro i colleghi
‘disertori’, ma venne respinto. Allora, si dimise ed
iniziò una collaborazione con L’Echo de Paris a colpi di
velenosi articoli contro gli ex colleghi.
Il 25 gennaio interrogarono Esterhazy, giunto
appositamente dall’Inghilterra. Continuò a negare di
avere scritto il bordereau. Per quanto riguardava i suoi
rapporti con Schwartzkoppen, dichiarò di averli
intrattenuti per ordine dello Stato Maggiore.
Il 16 febbraio un grave fatto sconvolse la Francia.
Colpito da emorragia cerebrale, moriva il presidente
della Repubblica Faure. Ufficialmente, al momento del
malore, era da solo. Si scoprirà poi che si trovava in
compagnia della sua amante, Mme Steinheil, moglie di un
pittore. Naturalmente, i giornali di destra ne
approfittarono per paventare la mano del ‘Sindacato’
dreyfusardo nella morte del presidente. Pare però che,
prima di chiudersi in salotto con Mme Steinheil, Faure
avesse ricevuto il principe di Monaco, il quale, di
ritorno dalla Germania, dove aveva incontrato il kaiser
Guglielmo II, gli aveva comunicato categoricamente che
Dreyfus non aveva mai avuto rapporti con l’ambasciata
tedesca e pertanto era da considerarsi innocente a tutti
gli effetti. Faure si era ritirato con la signora in
preda ad una visibile inquietudine.
Due giorni dopo, a Versailles, con i voti dei
dreyfusardi, venne eletto presidente della Repubblica
Emile Loubet, di cui si conoscevano le opinioni
favorevoli alla revisione. La sera stessa massicce
manifestazioni nazionaliste e antisemite si svolsero in
tutto il Paese.
Cinque giorni dopo, il 21 febbraio, durante i funerali
di Faure, la destra tentò un putsch militare. Déroulède,
Barrès e altri fanatici avevano chiesto al generale de
Pellieux di condurre le sue truppe all’assalto dell’Eliseo,
di ritorno dal funerale, per rovesciare il regime
corrotto. Ma, all’ultimo momento, de Pellieux aveva
chiesto al comandante della piazza di Parigi di essere
sostituito. Così Déroulède si affidò al generale Roget.
Quest’ultimo sembrò, in un primo tempo, di accogliere le
richieste dei golpisti, ma giunto alla caserma di
Reuilly, fece rientrare le truppe e diede l’ordine di
arrestare Déroulède. In questo modo fallì il colpo di
stato.
Il 31 marzo si aprirono le udienze presso la Corte di
cassazione. Venne ordinato un supplemento di indagine.
Dopo due mesi di lavori, interrogatori, udienze,
confronti ed esami, il 3 giugno la Corte pronunciò il
verdetto di annullamento del verdetto contro Dreyfus e
rinviava l’accusato davanti al Consiglio di guerra di
Rennes.
La reazione degli antidreyfusardi fu immediata. Il
giorno dopo, 4 giugno, alle corse dei cavalli di Auteil
il presidente della Repubblica venne aggredito e
bastonato dal barione Christiani, senza che l’esercito
muovesse un dito per impedire il fatto. Quesnay de
Beaurepaire dichiarò che ci sarebbe voluto l’arrivo “di
una brigada che spazzi via tutti quei giudici infami!”.
Si sentiva di nuovo odore di colpo di stato. Ma questa
volta scesero in campo anche i partiti di sinistra.
L’11 giugno si svolse l’altra grande manifestazione
ippica parigina, il Gran Premio di Longchamp nel Bois de
Boulogne. Attorno al famoso campo di corse si radunò una
folla insolita. Ma questa volta non erano né borghesi né
aristocratici, ma gente che proveniva dalla banlieu.
“L’aggressione a Loubet – scrive Coen – aveva spinto i
capi socialisti a scendere in piazza per una
manifestazione massiccia di segno contrario. Per molto
tempo la sinistra socialista era rimasta indifferente di
fronte al caso Dreyfus. In definitiva (…) non c’erano
ragioni ‘marxiste’ per difendere quel ricco capitano
ebreo che, innocente o no, era un esponente di quella
classe contro la quale i socialisti erano impegnati a
lottare. Senonché col tempo ci si accorse che
nell’Affaire erano in gioco due principi fondamentali:
uno etico, il trionfo della giustizia; l’altro politico,
la sopravvivenza del regime repubblicano”(Coen, 1994, p.
92).
Alla Camera si formò un Comitato di Salute Pubblica. Il
12 giugno il deputato Ruau presentò un ordine del giorno
in cui si affermava che “la volontà della Camera era
quella di sostenere solo e unicamente un governo deciso
a difendere con energia le istituzioni repubblicane e ad
assicurare l’ordine pubblico” (Coen, 1994, p. 93). Il
governo Dupuy, privato della fiducia, cadde. La crisi
ministeriale si rivelò subito di difficile soluzione.
Rifiutarono l’incarico Deschanel, Léon Bourgeois,
Poincaré, Barthou. Infine, il 22 giugno l’incarico venne
accettato da Waldeck-Rousseau, che costituì un proprio
“ministero da combattimento”, dove per la prima volta
trovò posto un esponente socialista, Millerand al
Commercio. Al ministero della Guerra andò a sorpresa il
generale de Gallifet, un settantenne aristocratico,
adorato dalla destra e dagli ambienti militari e
odiatissimo a sinistra perché responsabile dei massacri
della “settimana rossa” della Comune di Parigi del 1871.
De Gallifet era l’unico che poteva imporsi ai generali e
costringerli al rispetto delle decisioni del governo. La
presentazione alle Camere del governo si svolse in un
clima da bagarre. La sinistra si lanciò in furiosi
insulti contro de Gallifet (“Assassino, presente!”).
Il
governo stava per essere battuto quando andò alla
tribuna l’ex presidente del Consiglio Brisson, il quale,
pregò i deputati a votare non per il governo, ma per la
repubblica. Con una maggioranza risicata di 25 voti il
governo Waldeck-Rousseau venne varato. Immediatamente si
presentò come più energico dei precedenti. Tra l’atro,
trasferì molti giudici compromessi con il caso Dreyfus,
spedì Roget a Belfort e mandò molti colonnelli in
guarnigioni diverse da quelle in cui avevano servito
fino a quel momento. Inoltre, decise di non interferire
minimamente nel processo di Rennes. Si limitò a chiedere
soltanto che tutti i documenti dichiarati falsi o
contraffatti dalla Corte di cassazione non venissero più
presentati come prove a carico di Dreyfus. Intanto, la
notte tra il 4 e il 5 giugno Zola tornava
dall’Inghilterra, lo stesso 5 giugno in Parlamento
veniva richiesta l’incriminazione del generale Mercier
per la presentazione irregolare del dossier segreto del
1894 (la richiesta verrà sospesa fino alla sentenza di
Rennes). Il 9 giugno, dopo 1545 giorni passati all’Isola
del Diavolo, Alfred Dreyfus, tornato capitano, venne
imbarcato sull’incrociatore Sfax per essere riportato in
Francia. Il 13 giugno veniva rilasciato Picquart. Il 30
giugno Dreyfus era in Francia. Sbarcò nottetempo, per
paura che la folla lo aggredisse. Il giorno seguente
incontrò la moglie. Non sa quasi parlare, dopo quasi tre
anni passati da solo.
Il 18 luglio, Esterhazy, in una clamorosa intervista a
Le Matin, riconosceva di essere stato l’autore del
bordereau, ma insisteva sulla versione già diffusa dall’Observer:
l’aveva scritto dietro l’ordine di Sandherr ed Henry
(entrambi ormai morti) per costituire una prova
materiale contro Dreyfus, di cui si aveva la certezza
morale del tradimento.
In attesa dell’apertura del processo di Rennes, la
stampa nazionalista si fece portavoce ufficiale dei
generali e scatenò la sua ultima battaglia. A darle il
via fu il generale Mercier (che da un’eventuale
assoluzione di Dreyfus aveva tutto da perdere). Egli
immediatamente dichiarò che Dreyfus sarebbe stato di
certo condannato nuovamente. E avvertiva che a Rennes
avrebbe detto tutto ciò di cui era a conoscenza. Tutti
pensarono al bordereau originale (cioè quello – in
realtà inesistente - scritto effettivamente da Dreyfus
ed annotato dal kaiser Guglielmo II, non la ‘copia’ di
Esterhazy). Prima di restituire il bordereau
all’ambasciatore tedesco, durante la ‘notte terribile’
del 6 gennaio 1895, Mercier l’avrebbe fatto fotografare
e sarebbe stato così il solo a detenere la prova
decisiva contro Dreyfus.
Ma, come scrivono sia Gianni Rizzoni che Pierre Miquel,
anche l’eventualità della constatazione dell’innocenza
di Dreyfus non avrebbe spostato per niente i termini
della questione (Rizzoni, 1973, p. 98; Miquel, 1959, p.
117).
I giornali realisti, cattolici e reazionari si
scatenarono. Il cattolico La Croix scriveva che “non ci
si chiede più: Dreyfus è innocente o colpevole? Ci si
domanda chi la vincerà tra i nemici della patria e delle
Forze Armate e i loro amici”. E Georges Thiébaud,
ricorda Rizzoni, su L’Eclair scriveva senza mezzi
termini: “ In questo preteso processo non si tratta di
sapere se il miserabile individuo che è stato
rimpatriato dalla Guiana per le necessità della
messinscena è innocente o colpevole: si tratta di sapere
se gli ebrei e i protestanti, avanguardia della Germania
e dell’Inghilterra e dei loro alleati, sono o non sono
padroni del nostro paese”. E Barrès gli faceva eco: “Si
tratta di scegliere: Dreyfus o i grandi capi.” Déroulède
era ancora più categorico: “ Se fosse dimostrata
l’innocenza di Dreyfus – scriveva – non ci sarebbero
castighi abbastanza terribili per i ministri che hanno
accusato o lasciato accusare l’ebreo. Tutte le
rappresaglie sarebbero scusabili… Se Dreyfus è
innocente, i generali sono degli scellerati!” (Rizzoni,
1973, p. 98).
Da Rennes alla riabilitazione
Il 7 agosto 1899, alle ore 7,10 del mattino, si aprì il
processo di revisione a Dreyfus. Il prigioniero
rispondeva a monosillabi, era come stordito. “Furono
tutti sorpresi e colpiti.” scrive Fausto Coen “E
soprattutto delusi. Si aspettavano uno sguardo fiero e
accusatore, si aspettavano la ribellione e invece
assistevano a una composta remissione. Era chiaro che
Dreyfus si controllava, voleva comportarsi come sempre
da ufficiale rispettoso della Legge, dell’Autorità,
della Corte”(Coen, 1994, pp. 96-97). La stessa
descrizione la fornisce anche Armand Charpentier,
parlando di un Dreyfus “dignitoso, rigido, pronto a
ricercare la giustizia dei suoi pari più che l’appoggio
dei suoi partigiani.” (Charpentier, 1933, p. 209). E
purtroppo per lui, sarà questo un atteggiamento che non
gli gioverà.
Il 14 agosto, l’avvocato Labori, che con il vecchio
Demange assicurava la difesa dell’accusato, venne ferito
da un colpo di pistola sparato alla schiena un giovane
esaltato che fuggì gridando: “Ho ammazzato un Dreyfus!”.
Durante il dibattimento, sfilarono davanti ai giudici
ben 100 testimoni militari e 20 civili. Tra i testi vi
furono un ex presidente della Repubblica (Casimir-Perier),
cinque ex ministri della Guerra, quattro ex ministri
civili, un ex capo di Stato Maggiore, innumerevoli
generali, maggiori, capitani. Tutte le vecchie prove
vennero ripresentate come prove sicure a carico di
Dreyfus. Anche se la Corte di cassazione le aveva
riconosciute come false e il governo aveva dato ordine
di non tenerne conto. Il personaggio-chiave del nuovo
attacco a Dreyfus era l’ex ministro della Guerra Mercier
il quale, ad un certo punto si lasciò sfuggire la
seguente considerazione, riportata da Gianni Rizzoni:
“Continuo a credere che il bordereau è stato scritto da
Dreyfus; ma non annetto molta importanza a questo
problema, perché anche se il bordereau fosse stato
scritto da un altro, il suo esame criptografico
dimostrerebbe chiaramente che non ha potuto essere
scritto se non per ispirazione di Dreyfus” (Rizzoni,
1973, p. 103). Le principali novità emerse al processo
furono la testimonianza di Casimir-Perier a nome della
difesa e di Mercier per l’accusa, e l’intervento di un
avventuriero austriaco di nome Cernuski, la cui storia
relativa a quanto gli era stato confidato da un
funzionario austriaco circa l’ammissione da parte di un
ufficiale tedesco dell’esistenza di rapporti tra
Germania e Dreyfus, non era che una riproposizione dei
falsi di Henry. Gli antirevisionisti riponevano la loro
fiducia in Mercier.
La sua prova avrebbe dovuto essere
conclusiva e determinante, perché si era asserito
incautamente che avrebbe esibito una fotografia del
documento incriminato, il famoso bordereau annotato.
Secondo la versione classica di questa storia, il
bordereau era stato scritto da Dreyfus su carta spessa e
tracciato da Esterhazy su carta sottile. L’originale
infamante non poteva essere mostrato perché recava le
annotazioni – sempre smentite dall’interessato – di
pugno dell’imperatore Guglielmo II, che commentava
aspramente l’avidità di Dreyfus. Si era asserito che,
per evitare la pubblicazione di tale prova, che
coinvolgeva addirittura il kaiser, l’ambasciatore
tedesco Munster avesse consegnato un ultimatum al
Governo francese nel 1894. Sotto la minaccia di
scatenare una guerra, Mercier aveva discusso la
situazione, nella “notte tragica” del 6 gennaio 1895,
con l’allora presidente della Repubblica Casimir-Perier.
L’ex ministro continuava ad affermare che quella notte
si era stati ad un passo dalla guerra con la Germania,
ma l’ex presidente della Repubblica aveva smentito
categoricamente sia tale fatto sia l’insieme degli
eventi – compreso il borderau originale annotato da
Guglielmo II e fotografato da Mercier – che stavano a
monte della crisi. Casimir-Perier sostenne di non sapere
nulla del bordereau originale e di non aver vissuto i
momenti frenetici in attesa dei telegrammi
dell’Imperatore tedesco all’ambasciatore Munster che
avrebbero deciso la guerra o la pace. Disse chiaramente
che si trattava di invenzioni di Mercier.
Infine, il 9 settembre, dopo l’ultima arringa
dell’anziano Demange (mentre il giovane e focoso Labori,
per espressa richiesta di Mathieu Dreyfus, aveva
rinunciato a pronunciare la sua) e dopo un’ora di camera
di consiglio, il presidente della corte Jouast lesse il
verdetto. La Corte, con una maggioranza di cinque a due,
stabilì che Dreyfus era il traditore, seppure con la con
le attenuanti: la sentenza di carcere a vita venne
ridotta a dieci anni, metà dei quali erano stati già
scontati.
Questa sentenza era palesemente assurda (“grottesca”
l’hanno definita sia Benjamin Marin che Fausto Coen).
Infatti, spiega Martin, “il tradimento non può avere
circostanze attenuanti. Quello che la Corte marziale
aveva tentato di fare – continua lo storico francese -
era un compromesso: arrivare cioè al limite massimo
consentito ai militari nell’ammettere che forse un
errore era stato veramente commesso. Fino a dichiarare
Dreyfus innocente la Corte chiaramente non si sarebbe
mai spinta, quale che fosse il parere di qualsiasi altro
tribunale. I militari sapevano che questa era la loro
ultima occasione.” (Martin, 1994, p. 90).
La sentenza venne accolta con soddisfazione dagli
ambienti nazionalisti e antisemiti, con costernazione da
quelli dreyfusardi. Tra i primi a manifestare la sua
indignazione, il 12 settembre, ci fu Zola, ritornato in
Francia, che si sfogò contro i giudici che avevano
commesso l’ennesima ingiustizia.
In tutto il mondo si propagò l’eco della nuova condanna.
Cortei e manifestazioni si verificarono in tutta Europa.
A Londra, Anversa, Milano, Napoli, Bruxelles, New York e
Indianapolis gruppi di manifestanti tentarono di
assaltare le ambasciate francesi, dopo aver bruciato il
tricolore.
Come nota Baumont, l’ambasciatore tedesco scrisse a
Guglielmo II che con quel verdetto la Francia si era
posta al di fuori del consesso delle nazioni civili
(Baumont, 1959, p. 264).
La regina Vittoria, sovrana inglese, telegrafò a Charles
Russell of Killowell, Lord Chief justice d’Inghilterra,
che si era recato a Rennes per seguire il processo,
sostenendo di avere appreso con “stupore lo spaventoso
verdetto” ed augurandosi che “il povero martire possa
appellarsi a dei giudici migliori”. In molti Paesi si
incominciò a parlare di boicottare la grandiosa
Esposizione Universale di Parigi del 1900.
Ciò nonostante, nel governo orami dominava una
maggioranza assolutamente favorevole alla innocenza di
Dreyfus. Il governo, in realtà, si aspettava anch’esso
l’assoluzione del capitano, ma fu colto di contropiede.
La prima reazione fu quella del ministro della Giustizia
Ernest Monis, deciso a deferire la sentenza di Rennes
alla Corte di Cassazione. E il governo sembrava solidale
con lui. Eccetto de Gallifet, il quale, dopo aver
paventato il rischio che si sarebbe corso
nell’esasperare ulteriormente l’esercito, chiosò: “Non
dobbiamo dimenticare che la Francia è nella sua
maggioranza antisemita.”(Coen, 1994, p. 107).
Che fare, dunque? L’unica via rimasta aperta per tirar
fuori dal carcere un Dreyfus ormai al limite di ogni
sopportazione pareva la richiesta di grazia.
Il 10 settembre Mathieu Dreyfus andò a trovare il
fratello in carcere: era prostrato, incapace di reagire.
Si convinse che non poteva restare oltre in galera.
Anche i suoi avvocati si resero conto che era in una
situazione di totale disperazione. Si erano recati da
lui per fargli firmare un nuovo ricorso, ma il ricorso
poteva essere fatto solo per vizi di forma e andava
rivolto ad un Consiglio di revisione militare: non c’era
granché da sperare, invero. Gli avvocati propendevano
per la grazia. Waldeck-Rousseau fece immediatamente
sapere che il governo era favorevole a concederla. Ma le
difficoltà sorsero nel campo dei dreyfusardi. Il
cosiddetto “Sindacato” si riunì nel gabinetto del
ministro del Commercio, il socialista Millerand. C’erano
tutti: Clemenceau, Ranc, Jaurès, Mathieu Dreyfus,
Picquart, Lazare, Labori. Mancava solo Scheurer-Kestner,
che stava morendo nella sua villa alsaziana.
“La grazia – scrive cinicamente Revel – significava la
fine dell’Affare. Alfred Dreyfus, graziato, non era più
la nobile vittima, l’innocente martirizzato dell’ovvia
litografia dreyfusiana, ma un disgraziato dannato a
nascondersi agli occhi di tutti la sua colpa, o la sua
debolezza. Né poteva più servire da vessillo per
continuare la lotta politica. Non era più né bandiera né
simbolo. Il miserabile residuo di una battaglia generosa
e finita.” (Revel, 1936, p. 321).
Contrari alla grazia si pronunciarono Clemenceau, Jaurès
e Peguy, al quale si attribuì la famosa, ingenerosa,
frase “Saremmo morti per Dreyfus, ma Dreyfus non è morto
per Dreyfus”.
Favorevoli alla soluzione proposta dal governo si
dimostrarono Ranc, Lazare e Labori. Estremamente
combattuto appariva Mathieu Dreyfus, diviso tra
l’esigenza della ricerca della giustizia fino in fondo e
la pietà per il fratello. In un primo momento anche il
diretto interessato era contrario, ma poi il fratello
gli fece cambiare idea.
Infine, la grazia venne accettata ed il 19 settembre, su
proposta del ministro della Guerra, il presidente della
Repubblica firmò il decreto di concessione della misura
di clemenza: “Viene accordata a Dreyfus Alfred la
remissione del resto della pena di dieci anni di
detenzione inflittagli dal Consiglio di Guerra di
Rennes, come pure della degradazione militare. Loubet.”
Lo stesso giorno Dreyfus uscì dal carcere.
Immediatamente fece pubblicare una nota su un
quotidiano: riconosceva di essere stato graziato, ma
prometteva di incominciare una lotta per la
riabilitazione totale affinché gli venisse restituito
l’onore.
Restavano ancora i procedimenti contro gli altri
personaggi coinvolti nell’affaire. Il 17 novembre 1900
Waldeck-Rousseau presentò un progetto di legge di
amnistia per tutti costoro. Anche questo progetto ebbe
degli oppositori tra i quali si segnalava Zola, secondo
il quale esso era solo un mezzo per chiudere la bocca
agli assertori della verità. Dreyfus, da parte sua,
deciso a perseguire la strada della completa
riabilitazione, ottenne – per il tramite del fratello
Mathieu – di essere escluso dal progetto di legge.
Tutto sembrava essere stato messo a tacere. L’incidente
(cioè l’affaire) – come aveva detto de Gallifet subito
dopo la concessione della grazia – era (o sembrava)
chiuso. Ma Dreyfus voleva piena giustizia. E per
ottenerla sarebbe occorso un nuovo processo, che si
sarebbe potuto tenere solo davanti alla comparsa di un
“fatto nuovo”.
Tre anni dopo, nel 1903, il ministro della Guerra Louis
André (che aveva sostituito il dimissionario de
Gallifet), in seguito ad un appassionato intervento di
Jaurès, decise di riaprire la strada giudiziaria al caso
Dreyfus. Nell’aprile di quell’anno, infatti, il nuovo
ministro della Guerra del gabinetto Combes intraprese
una revisione completa di tutta la documentazione
relativa a Dreyfus e a Esterhazy esistente negli archivi
della sezione statistica. Il 19 ottobre presentava a
Combes un rapporto in cui veniva dimostrata in modo
definitivo come la maggior parte dei fatti sottoposti al
Consiglio di Guerra di Rennes non fossero per nulla
collegati a Dreyfus o fossero stati manipolati per farli
apparire tali.
Dreyfus, messo al corrente dei nuovi sviluppi, inoltrò
formale richiesta di revisione al ministro della
Giustizia Ernest Vallé. Quest’ultimo investì della
questione la Corte di Cassazione. La sezione penale
della Suprema Corte, presieduta da Jean-Antoine
Chambareaud, succeduto a Loew, si riunì il 3 marzo 1904
e votò la riapertura di una nuova inchiesta, portata a
termine il 19 novembre dopo quasi nove mesi di
deposizioni e testimonianze, le quali, tuttavia,
stabilirono al di là di qualsiasi ragionevole dubbio la
validità del rapporto André. In base alla legge del
1899, la Corte di Cassazione avrebbe dovuto riunirsi in
seduta plenaria per deliberare in merito alla richiesta
di revisione, ma si dovette attendere per ben diciannove
mesi. Come spiega Martin, “le cause del ritardo erano da
ricercare principalmente nei molti rovesci politici
sofferti dalla maggioranza dreyfusarda: la caduta in
disgrazia di André per aver fatto uso della massoneria
nei suoi rapporti sulle pratiche religiose degli
ufficiali cattolici; le dimissioni di Combes che
seguirono a breve distanza; la prima crisi marocchina
con la Germania; le violente dimostrazioni scatenate
dall’entrata in vigore della legge sulla separazione di
Stato e Chiesa; e infine le elezioni politiche del
maggio 1906.” (Martin, 1994, p. 92).
Il 15 giugno finalmente la Corte di Cassazione si riunì
per deliberare sulla richiesta. La riunione terminò il
12 luglio. Il riesame aveva fatto luce sugli
innumerevoli fatti nuovi che giustificavano la
“cassazione con rinvio” della sentenza di Rennes. Ma,
questa pronuncia avrebbe portato al rinvio ad un terzo
Consiglio di guerra, “il che – scrive ancora Martin –
avrebbe dato ai militari la possibilità di scelta: o
pronunciare un altro verdetto di colpevolezza, o
ammettere pubblicamente, e questa volta in forma
definitiva, che nel 1894 era stato commesso un errore e
che questo errore era stato ripetuto nel 1899” (Martin,
1994, p. 92). I giudici vollero evitare ogni rischio.
Con un votazione a maggioranza annullarono la sentenza
di colpevolezza e con una seconda votazione
pronunciarono l’innocenza di Dreyfus. Giustizia era
fatta. Almeno con riguardo al capitano. Ma chi era stato
il traditore? Chi aveva scritto davvero il bordereau? La
persona a cui era indirizzato il petit bleu, Esterhazy,
era lei la traditrice? E il petit bleu era vero o
falsificato ad arte? A tutte queste domande la sentenza
della Corte di cassazione non rispondeva. Tutte le prove
dell’avvenuto tradimento venivano ignorate. “La legge
era stata piegata ancora una volta alla necessità della
politica.
Emanata la sentenza di assoluzione, Camera e Senato
approvano con una maggioranza di oltre 400 voti i
progetti di reintegrazione nell’esercito di Picquart col
grado di generale e di Dreyfus col grado di maggiore (ma
lui reclamerà quello di colonnello…). Il 20 luglio 1906,
nel cortile della Scuola di Guerra dove dodici anni
prima si era svolta la parata di degradazione, alla
presenza del generale Picquart (che da lì a poco
diventerà ministro della Guerra) Dreyfus venne nominato
Cavaliere della Legion d’honneur.
“L’Affare – ha scritto Revel - finiva come nelle favole.
Quando l’incantesimo maligno cessa, ecco, tutti si
svegliano nel bel mezzo di una giornata che si è rifatta
mirabilmente serena, più ricchi e felici di prima. Sui
reprobi di pochi anni avanti, fioccavano ora le
promozioni e le onorificenze.” (Revel, 1933, p. 368).
Eppure non tutto sarebbe andato così pacificamente negli
anni successivi. Per gli antidreyfusardi l’affaire
sarebbe rimasta a lungo una ferita aperta ed, anche a
distanza di anni, alcuni avrebbero espresso in vari modi
il loro livore.
Il 4 giugno 1908 le ceneri di Zola (morto il 5 ottobre
1905 per asfissia a causa di una stufa malfunzionante,
secondo alcuni addirittura appositamente manomessa)
vennero traslate al Pantheon. Dreyfus, che assisteva
alla cerimonia, venne ferito in un attentato.
Incredibilmente il tribunale della Senna pronunciò una
sentenza di assoluzione nei confronti dell’attentatore.
Dreyfus morì l’11 luglio 1935, settantaseienne, nella
sua casa parigina.
A questo punto, sembrava che tutto fosse finito. Durante
il periodo dell’affaire, “due France si erano
fronteggiate – afferma Marc Ferro -, come due ‘cori
tragici’ impegnati a scagliarsi reciprocamente ingiurie,
e gran parte del paese aveva preso parte alla disputa,
tra il progressivo infoltirsi dell’ala dreyfusarda. Una
caricatura di Caran d’Ache – prosegue lo storico
transalpino -, uscita nel 1898 su “Le Figaro”, illustra
questo clima. Due vignette presentano una cena di
famiglia. ‘Non parliamo della faccenda Dreyfus’
raccomanda il padrone di casa mentre il cameriere porta
la minestra. Poco dopo, tavola e sedie sono a pezzi, i
commensali se le stanno dando di santa ragione. ‘Ne
hanno parlato’”(Ferro, 2002, p. 378).
Tuttavia, l’onda lunga dell’affaire non finì con la
morte del suo protagonista principale. Cinque anni dopo,
nel 1940, ad invasione nazista ultimata, un nuovo
Statuto per gli ebrei li escluderà da qualsiasi impiego
pubblico e da numerose professioni. Dopo verranno le
deportazioni. Una nipote di Dreyfus, Madeleine,
schierata con la resistenza francese, verrà deportata e
uccisa ad Auschwitz.
Ad esemplificare quale sia “la memoria lunga”
dell’affaire bastano poi alcuni fatti.
Il 27 gennaio 1945, la Corte di Giustizia di Lione
riconobbe Charles Maurras, uno dei più attivi
antidreyfusardi, nonché fondatore del movimento
antisemita e filonazista L’Action Française, colpevole
di “intelligenza con il nemico” sotto il regime di
Vichy, condannandolo alla “degradazione nazionale e alla
detenzione a vita”. Alla lettura del verdetto esclamò:
“E’ la vendetta di Dreyfus!”
Ma anche in epoca più vicina a noi sono accaduti dei
fatti che fanno ben comprendere come l’affaire sia
probabilmente ancora una questione aperta. Almeno per
alcuni settori dell’ambiente militare francese. Nel 1985
il ministro socialista della Cultura, Jack Lang, volle
piazzare un monumento a Dreyfus nel cortile della Scuola
Militare di Parigi, ma i militari posero il veto: la
statua è ora visibile alle Tuileries
Solo nel settembre 1995, l’esercito francese, a nome
dello storico ufficiale dell’esercito, Jean-Louis
Mourrut, ha ammesso definitivamente l’innocenza di
Dreyfus, dopo aver sostenuto fino ad allora che “nessuno
è in grado di dire se Dreyfus fosse una vittima
cosciente o incosciente”. Tuttavia, il ministro della
Difesa, Francois Léotard, subito dopo fu costretto a
licenziare in tronco il capitano Paul Gauyac,
responsabile del servizio storico dell’esercito, perché
aveva fatto pubblicare nel settimanale dell’esercito,
Sipra Actualités, un testo antidreyfusardo. In base a
tutto ciò, allora, sembra avere ragione chi ha affermato
che “alle estreme propaggini del secolo, la Francia è
innanzitutto l'affare Dreyfus” (Réberioux, 1981, p.
202).
Come si è visto, l’affaire Dreyfus fu caratterizzato da
un’eplosione senza precdenti (almeno per la Francia) di
antisemitismo. Tuttavia, questo divampare razzista non
fu certo del tutto improvviso: fu, in realtà, il punto
di arrivo di una lunga campagna contro la comunità
ebraica condotta dagli elementi più retrivi della destra
francese. Come sottolinea Anna Foa, in Francia il
movimento antisemita assume grande consistenza agli
inizi degli anni Ottanta del secolo, nel clima di
conflitto tra i liberali della Terza Repubblica e le
forze antidemocratiche e reazionarie (Foa, 1999, p.
248).
Dello stesso avviso sono Fausto Coen e Michael Marrus, i
quali affermano che fu intorno al 1880 che
l’antisemitismo uscì dalla ristretta cerchia di alcune
élites intellettuali, divenendo un fenomeno popolare
(Coen, 1994, p. 102; Marrus, 1994, p. 94). “Soltanto nel
1880 – scrive Marrus – i più accesi antisemiti francesi
scoprirono che la diffidenza e il risentimento verso gli
ebrei avrebbero potuto suscitare un cospicuo consenso
popolare.” (Marrus, 1994, p. 95).
Prima dello scoppio di questo periodo – ossia prima
degli scandali dell’Union Générale e della Compagnia del
canale di Panama - , la pubblicistica antisemita aveva
attirato l’attenzione di pochi intellettuali, e le sue
tesi non trovavano adeguata collocazione nel dibattito
politico nazionale. Questi intellettuali, in genere,
erano vicino alla sinistra ed all’ideologia socialista e
davano all’antisemitismo una valenza “di classe”.
Infatti, poiché tra i principali attori della società
borghese apparivano gli ebrei, spesso commercianti,
imprenditori, che una certa tradizione dipingeva come
facoltosi, oltre che abili negli affari. Sicché la lotta
contro la borghesia ed il sistema capitalistico divenne,
a torto o a ragione, anche la lotta contro coloro che,
in un certo senso, erano tra i suoi maggiori
rappresentanti, specie se erano influenti nel capo
economico e o culturale. In questo modo, man mano che
gli ebrei crescevano per ricchezza, influenza e
prestigio nella società francese, coloro i quali avevano
nostalgie e velleità preindustriali (“piccolo-borghesi”
le avrebbe definite Karl Marx) e premoderne iniziarono a
considerare gli ebrei – come gruppo omogeneo e compatto
(da qui nasceranno poi le varie teorie del complotto) –
come nemici intelligenti, preparati, ma perennemente
dediti a tramare nell’ombra, inaffidabili e
profittatori.
In relazione all’antisemitismo, il più importante fu
Alphonse Toussenel, giornalista e seguace di Fourier, il
cui libro recava il titolo Les juifs, rois de l’époque.
Tuttavia già sedici anni prima dello scoppio
dell’affaire, erano apparsi in Francia due giornali di
chiara tendenza antisemita L’antijuif e L’antisemitisme
che rappresentavano la bandiera della reazione e del
‘revanchismo”. In effetti, dopo la sconfitta del 1870,
tutte le forze che tenevano ad una rivincita
attribuivano la sconfitta medesima non alla debolezza ed
alla disorganizzazione dell’esercito, ma al tradimento,
alle oscure manovre di una “quinta colonna” di cui,
naturalmente, nerbo essenziale era – secondo loro
-l’elemento ebraico, ossia i rinnegati senza patria.
Peraltro, occorre ricordare che il termine stesso
antisemitismo non aveva vita lunga. Era comparso per la
prima volta, nel 1873, nel libro La vittoria del
giudaismo sul germanesimo dello scrittore tedesco
Wilhelm Marr. Fino ad allora, infatti, non si può
parlare nemmeno di antisemitismo, ma più correttamente
di antiebraismo, in base al quale “l’identità dell’ebreo
era (…) connotata essenzialmente da un dato religiosi.
(…) Da ciò il carattere speciale e unico del fatto di
essere ebrei: l’identità religiosa ne implicava
necessariamente altre, venendo ereditata di padre in
figlio e costituendo il legame necessario e la barriera
distintiva rispetto agli altri.” (Prosperi, Introduzione
a Lutero, 2000, p. XV).
Con la nascita dell’antisemitismo moderno, invece,
l’ebreo viene colpito non in quanto esponente di una
determinata dottrina religiosa, ma in quanto tale, ossia
per il fatto di essere geneticamente quello che è, “per
seme, sangue e razza.”
L’antisemitismo diffuso su base popolare aveva radici
antiche nelle regioni orientali francesi, in particolare
in Alsazia e Lorena, dove da più tempo risiedevano
comunità ebraiche. Come conferma Marrus, tuttavia, tale
antisemitismo era amministrato dai tradizionali leader
d’opinioni locale, per lo più notabili e possidenti
rurali, “molto diversi dai demagoghi urbani che
avrebbero debuttato da lì a poco.” (Marrus, 1994, p.
96).
A dare slancio alla pubblicistica antisemita, nel 1882,
fu il primo grande crac finanziario della Terza
Repubblica. In quell’anno, l’Union Générale, una banca
molto importante fondata da finanziari cattolici con lo
scopo deliberato di rompere il monopolio ebraico e
protestante nell’esercizio del credito, dovette chiudere
i battenti. Essa raccoglieva i depositi di famiglie
cattoliche benestanti e di decine di migliaia di piccoli
risparmiatori.
Il fallimento della banca generò onde d’urto antisemite
che si propagarono in tutta la Francia. Il crac era
dipeso, in realtà, a gravi errori di gestione. Ma quando
si verificò giornalisti senza scrupoli, spesso vicini o
omogenei ad ambienti cattolici, lo attribuirono alle
macchinazioni di gruppi economici ebrei e della famiglia
Rotschild in particolare, descritti come personaggi
inquietanti e avidi decisi a dare l’assalto agli
interessi nazionali francesi. Come ricorda Marrus, a tal
proposito sintomatico fu il breve epitaffio scritto per
l’Union Générale dall’ambasciatore francese a
Pietroburgo, il visconte de Vogue: “Assassinata dagli
ebrei!” (Marrus, 1994, p. 97).Da quel momento tutti i
giornali a forte diffusione, destinati ad un pubblico
avido di notizie sensazionalistiche, montarono il caso,
infiammando gli animi, soprattutto dei piccoli
risparmiatori colpiti in prima persona dal crollo della
banca.
Dieci anni dopo, nel 1892, si verificò l’altro grande
scandalo della Terza Repubblica: il crack della
Compagnia del Canale di panama, costituita
originariamente dall’ideatore del Canale di Suez,
Ferdinand de Lesseps. Anche in questo caso la stampa
ebbe un ruolo determinante. Nella ricostruzione della
vicenda, fece emergere due figure con tratti decisamente
grotteschi: il barone Jacques de Reinach, che si suicidò
mentre infuriava lo scandalo, e Cornelius Herz, entrambi
ebrei. E questo fatto dell’appartenenza religiosa venne
ingigantito e sviscerato a tal punto che divenne il tema
attorno a cui ruotarono tutti i tentativi di attribuire
le colpe per il disastro della Compagnia, dimenticando
naturalmente che la maggior parte dei soci erano
cattolici e che, comunque, nella vicenda
economico-finanziaria dello scandalo nessun rilievo
avevano il credo religioso o la provenienza culturale.
“Nessuno seppe sfruttare quegli scandali con più abilità
di Edouard Drumont, un pubblicista schivo e introverso,
ma a suo modo geniale; non sembra eccessivo affermare
che egli divenne il miglior propagandista antisemita
della storia francese.” (Marrus, 1994, p. 98). Capacità
giornalistica e sfruttamento editoriale a parte, Drumont
era fanaticamente convinto delle sue teorie antisemite e
razziste e proprio dalla sua esaltazione promanava una
nefasta forza di persuasione e coinvolgimento. Nel suo
La France juive (1886), di cui si vendettero più di un
milione di copie, egli diffuse l’annuncio che i
responsabili dell’attuale stato di degenerazione
nazionale e sociale erano gli ebrei, trafficanti, avidi,
orditori di trame segrete e scaltri. Anche il quotidiano
da lui fondato, La libre parole, e gli altri suoi
quattordici libri ebbero una vasta circolazione; in più
Drumont non si stancò mai di fondare leghe e
associazioni antisemite, stringendo alleanze con
chiunque la pensasse come lui e rivolgendosi agli operai
ed alle classi più umili per convincerli della giustezza
delle sue teorie. Secondo quanto sostiene George L.
Mosse, egli “credeva che la questione ebraica fosse la
chiave di volta della storia francese e invocò la
rivolta delle masse contro l’oppressore ebreo; ‘Libre
parole’ si compiaceva di dare descrizioni commosse della
miseria delle classi lavoratrici. L’espulsione degli
ebrei dalla Francia avrebbe instaurato la giustizia
sociale, perché attuando questa misura le loro proprietà
sarebbero state confiscate e distribuite tra tutti
coloro che avevano partecipato alla lotta.”(Mosse, 1978,
p. 168). Drumont non voleva proclamare la ‘guerra santa’
contro gli ebrei né attaccare la loro fede religiosa, ma
– in una maniera ‘moderna’, secondo il modello dei Marr,
dei Gobineau, dei Chamberlain – li colpiva in ebrei,
esponenti di una razza da condannare in quanto tale.
Nel 1890 Drumont fondò “La ligue anti-sémite” che
sosteneva la tesi che bisognasse creare nuovi sindacati
capaci di porsi l’obiettivo di espropriare i monopoli
finanziari e chiedeva la concessione di crediti senza
interessi. “Ma questa e tutte le altre leghe da lui
fondate – scrive ancora Mosse – ebbero dimensioni molto
modeste e furono prive di importanza: fu solo grazie a
un’autorità da lui esercitata che Drumont riuscì
finalmente a entrare in contatto con un movimento più
vasto”68, ossia il sindacato denominato “Les jaunes”,
fondato nel 1900 e che, tra il 1903 – quando Drumont ne
divenne segretario – e il 1908 vide l’adesione di almeno
100.000 persone.
Ma le associazioni fondate da Drumont non furono le
uniche. Nel 1889, infatti, era nata la Ligue Nationale
Antisémitique de France, un gruppo eterogeneo sorto
grazie al finanziamento del marchese de Morès, ex
ufficiale, uomo dalla vita avventurosa e dalle
molteplici e azzardate iniziative. Capo di questa Lega
fu Paul Deroulède, deputato della destra, già fondatore,
nel 1882 della Ligue des Patriotes. L’antisemitismo di
cui si facevano portatrici queste due Leghe era
strettamente collegato, sia per la rilevanza delle
persone che vi aderivano sia per le spiccate
connotazioni ideologiche di destra, al boulangerismo,
“sfida radicale tanto al socialismo organizzato e
partitico quanto alle istituzioni della Terza
Repubblica.” (Mosse, 1978, pp. 169-170).
L’antisemitismo popolare, come lo chiama Marrus, si
collegò ben presto ad altri movimenti di opinione. Nel
1897, un altro notissimo antisemita, Jules Guérin,
discepolo sia di de Morès che di Drumont, fondò la Ligue
Antisémitique Francaise. Questa Lega raggiunse migliaia
di iscritti e, nonostante avesse delle connotazioni
boulangeriste, la sua vocazione era di “sinistra”. I
suoi membri si dichiaravano “socialisti” e contro gli
oligopoli e le altre forze di sfruttamento dell’uomo, i
quali naturalmente erano in mano ebraiche… Jules Guérin
era dell’avviso, infatti, che le logge massoniche
servissero a mascherare le cospirazioni ebraiche e per
sconfiggere gli ebrei e i massoni con le loro stesse
armi fondò il “Grande Oriente”, antiebraico e
antirepubblicano: nella sua sede, in rue Chabrol, Guérin
raccolse armi per un colpo di stato e nel 1899 sostenne
per parecchi giorni un assedio dalla polizia. Fu questo
un episodio – denominato fort Chabrol – che per
settimane rappresentò l’evento sensazionale di Parigi e
che successivamente sarebbe servito per indicare
genericamente le rivoluzioni inutili e velleitarie
(Gramsci, 1960, pp. 118, 154).
A questi movimenti non mancarono appoggi finanziari. A
Guérin gli aiuti giunsero soprattutto dall’Algeria. Come
dice Marrus, i francesi d’Algeria erano propensi a
pensare che gli ebrei fossero fautori di governi
liberali centralizzati, incuranti delle realtà locali.
In Algeria, l’elemento di spicco del movimento
antisemita era Max Régis, la cui retorica infuocata
faceva impallidire quella di un Drumont o di un Guérin.
Ed il primo, nell’aprile del 1898, nel pieno
dell’affaire Dreyfus, ricorse all’aiuto di Régis per
farsi eleggere deputato nel collegio algerino. Qualche
mese dopo lo stesso Régis venne eletto sindaco di Algeri
Ciò che rendeva popolare l’antisemitismo e la sua
mitologia erano vari fattori profondamente collegati tra
di loro. Uno primo importante elemento era costituito da
una paura diffusa dei mutamenti, un’angoscia profonda di
fronte a quelle forze che stavano trasformando la
società. Come nota M. Marrus, in realtà l’ondata di
antisemitismo che si scatenò in Francia in questo
periodo “aveva ben poco da fare con gli ebrei in carne
ed ossa; questi ultimi non erano che un simbolo,
efficace e a portata di mano, della minaccia insita nei
mutamenti in corso.” (Marrus, 1994, p. 101). A comporre
e sostenere l’antisemitismo concorsero soprattutto tre
filoni, ognuno dei quali contribuì alla creazione della
nuova immagine mitica dell’ebreo.
Il primo e il più antico era quello legato al
tradizionale antisemitismo di stampo cattolico. Esso
consisteva nel dipingere l’ebreo come un temibile
antagonista della Chiesa e della brava gente timorata di
Dio. Qui trovavano spazio i classici temi dell’ebreo
“deicida”, “cieco” e “ottuso” nei confronti della vera
fede, ostinato, carnale e perverso. In tal modo, si
sostenne che l’odio moderno degli ebrei verso Cristo e
la sua Chiesa avrebbe assunto la forma di un lento
lavorio finalizzato all’abbattimento dei pilastri del
Cristianesimo francese. Tali temi venivano ovviamente
affrontati, sviluppati e propagandati dalla stampa
cattolica. Il quotidiano che in questo contesto brillava
per il suo violento antisemitismo era indubbiamente
l’organo della Confraternita Assunzionista La Croix, il
quale - come ricorda Giovanni Miccoli – aveva dato di se
stesso la definizione di “le journal le plus antijuif de
France, celui que porte le Christ, signe d’horreur aux
juifs” (Miccoli, 1996, p. 1481). Questo giornale
raggiunse una diffusione enorme al tempo dell’affaire.
Era portatore di un antisemitismo fanatico, capace di
descrivere gli ebrei come i veri padroni della
Repubblica, oltre che gli inventori del socialismo, del
materialismo e dell’anticlericalismo, strumenti
ideologici approntati per propagandare
l’anticristianesimo. “Violento e razzista – scrive
Marrus – il giornale lasciava ben poco all’immaginazione
quanto ai misfatti che il giudaismo avrebbe compiuto o
si sarebbe apprestato a compiere. In pratica, tutte le
difficoltà e contraddizioni della società moderna
venivano collegate alla cospirazione ebraica volta a
distruggere la Francia e il cristianesimo in generale.”
(Marrus, 1994, p. 104).
Giovanni Miccoli, peraltro, aggiunge che, in ogni caso,
“alcuni dei più violenti trattati e libelli antisemiti,
che ripetevano tutti i luoghi comuni della polemica
antica e recente contro gli ebrei, erano opera di
ecclesiastici”. Inoltre, generalmente il mondo cattolico
era pressoché compatto nell’abbracciare e fomentare
l’ondata di antiebraismo e “non si può certo dire che su
questi temi vi fosse discussione o emergessero dissensi
pubblici tra i cattolici francesi, che pur non si
tiravano indietro di fronte ai litigi di famiglia.
Certamente anche tra vescovi e clero non mancava chi
avvertiva fastidio e diffidenza per tali tematiche. Ma
erano sentimenti che non pare si credesse possibile o
opportuno manifestare pubblicamente.” (Miccoli, 1996, p.
1481).
Questo tipo di antisemitismo mirava a legittimare
l’influenza della Chiesa cattolica nella società
francese, attraverso la centralità della discussione e
dell’azione religiose. In questo quadro, allora, l’ebreo
assunse un ruolo simbolico, l’incarnazione di tutti i
mali, le angosce e le paure che ribollivano nella
società francese. E tale messaggio arrivò ai cittadini
attraverso una stampa che imbastì su questo argomento
delle vere e proprie campagne di demonizzazione.
Il secondo filone dell’antisemitismo era quello di
stampo “socialista” e antioligopolista e
anti-capitalista, già analizzato. Era questa una
corrente che nasceva da un desiderio premoderno di
ritorno all’economia rurale, descritta romanticamente
come un’epoca di idillio e giustizia sociale. Come
abbiamo visto i vari Drumont, Rochefort, Deroulède,
Guérin e Régis avevano questo tipo di retaggio
culturale. Questo “socialismo” antisemita derivava da
quella corrente militaristico-autoritaria nota come
boulangerismo. Tuttavia esso persistette anche dopo il
tramonto di quest’ultimo movimento, permeando i vari
contesti politici e più di un partito protagonista
dell’infuocato dibattito politico. A tal proposito,
peraltro, val la pena ricordare che spesso – anche in
autori e politici al di sopra di ogni sospetto
razzistico come Jean Jaurès – il termine “ebreo” era
sinonimo di “borghese” ed era utilizzato in questo senso
anche da alcuni padri fondatori del cosiddetto
“socialismo utopistico” come Proudhon e Fourier.
La terza corrente è quello che si riscontra nel
nazionalismo. Come sottolinea Victor Nguyen,
innanzitutto con si pervenne ad una sorta di “transfert
di valori, dalla cultura alla politica, segnatamente per
il tramite delle coscienze artistiche divenute coscienze
intellettuali. Questa mutazione – continua lo studioso
francese – chiariva le divisioni della borghesia
proiettata dal caso Dreyfus in alleanze contraddittorie,
socialiste da un lato, cattoliche dall’altro, e
costretta, per mantenere la sua egemonia, ad accelerare
ancor di più quel processo di nazionalizzazione della
nazione che essa conduceva da dopo la Rivoluzione.”
(Nguyen, 1981, p. 145). E tale processo di
nazionalizzazione che, anticipando la “rottura col
secolo dei Lumi, anticipava la tragedia del nuovo
secolo”, si ritrova esplicitato nella parabola
dell’Action Française, organizzazione fondata da Charles
Maurras proprio nel 1899, che si farà portatrice di un
nazionalismo reazionario moderno, in cui, “grazie
all’impiego ed al ruolo nuovo degli
intellettuali-forgiatori di coscienze, si mescolavano
ragione e violenza”, dando luogo ad un organismo
caratterizzato da un “imperialismo promosso
organizzatore” tipico (su grande scala) dei partiti
totalitari del Novecento (Nguyen, 1981, p. 145).
In questo senso, il razzismo antisemita rappresentò un
“nazionalismo ‘integrale’, che ha senso solo se si fonda
sull’integrità della nazione, verso l’esterno e verso
l’interno”. In tal modo il razzismo “induce
permanentemente, rispetto alla nazione, un eccesso di
‘purimo’: per essere se stessa, deve essere razzialmente
e culturalmente pura.” (Balibar, 1990, p. 71).
In verità, come sottolinea J. W. Burrow, teorie di
stampo razzistico erano diffuse un po’ ovunque alla fine
del XIX secolo. L’antisemitismo, in particolare, prsee
toni che non erano mai stati tanto accesi e si diffuse
in una misura quale mai si era data, venendo ad assumere
anche una coloritura politica. “In Francia – insiste
Burrow – l’antisemitismo era in misura principale un
aspetto del nazionalismo esacerbato e una forma di
retorica anticapitalista.” (Burrow, 2002, p. 165).
Il nazionalismo, naturalmente veniva alimentato da un
esercito i cui più alti ufficiali erano ancora uomini
del Secondo Impero, “che –come sottolinea Wolfgang J.
Mommsen – reclutava le sue nuove leve ricorrendo quasi
esclusivamente alla cooptazione, simpatizzava in
particolar modo con le concezioni antisemite. Essi –
aggiunge lo storico tedesco – disprezzavano la Terza
Repubblica come espressione di una borghesia finanziaria
materialista e preoccupata soltanto di fare buoni
affari, e anche degli ebrei, poiché all’interno della
vita economica francese questi controllavano un numero
elevatissimo di posizioni-chiave. L’agitazione
antisemita contro il traditore Dreyfus fu legata
pertanto fin dall’inizio ai problemi della costituzione
politica e sociale della Francia.” (Mommsen, 2001, p.
126).
In effetti, i nazionalisti antisemiti, la cui punta di
diamante era indubbiamente rappresentata da buona parte
delle alte gerarchie militari, si distinsero perché si
mostravano abitualmente più preoccupati dei presunti
nemici interni che degli avversari esterni del paese.
“Sembravano ossessionati dal timore che forze corrosive
minassero le fondamenta della società francese,
rendendola debole e demoralizzata.” (Marrus, 1994, p.
105).
Per costoro, gli ebrei erano gente senza radici e senza
legami storici col paese in cui vivevano, estranei e
spesso contrari agli interessi della nazione che li
ospitava.
Questo filone, come si è accennato sopra, sopravviverà
fino alla seconda guerra mondiale attraverso l’Action
Française di Charles Maurras. D’altronde, la filosofia
del nazionalismo antisemita, era stata espressa con
molta chiarezza da Maurice Barrès, il quale, a proposito
di Dreyfus, aveva affermato: “Non ho proprio bisogno che
qualcuno mi venga a spiegare perché Dreyfus avrebbe
commesso un tradimento. Che Dreyfus sia capace di
tradimento io lo deduco dalla sua razza!” (Marrus, 1994,
p. 105; Coen, 1994, p. 133).
Notevole poi fu il ruolo della stampa nella diffusione
di questo antisemitismo popolare (Gozzini, 2001, pp.
176-179; Miquel, 1959, pp. 71-82). Gli ebrei, che in
virtù della loro “diversità” ed “unicità” erano bersagli
piuttosto facili da colpire, divennero il catalizzatore
di tutte le frustrazioni e le angosce sociali che
attanagliavano alcuni gruppi sociali, segnatamente i
militari e la classe media, commercianti, bottegai,
artigiani, piccoli imprenditori, scontenti di ogni
genere. L’antisemitismo forniva una spiegazione mitica
di tutti i complessi fenomeni che travagliavano ed
agitavano la realtà francese. Ed era una spiegazione
semplice da recepire e comprendere, lontana dalle
complicate analisi socio-economiche avanzate dal
socialismo o dal liberalismo. Questo razzismo creò un
rifugio immaginario per coloro i quali erano impauriti
da una modernità che non riuscivano né a comprendere né
a contrastare.
In conclusione, val la pena ricordare, che fu proprio
nel bel mezzo dell’affaire che emerse, come reazione
all’antisemitismo, la prima forte risposta al problema
della ‘salvezza’ degli ebrei dispersi nel modo. Essa fu
espressa da un ebreo ungherese, corrispondente a Parigi
per il giornale viennese “Neue Frei Presse” durante
l’affaire Dreyfus, Theodor Herzl. Secondo Herzl,
l’emancipazione era un fallimento e l’antisemitismo una
costante indelebile della società moderna. L’unica
strada percorribile per salvarsi era la creazione di uno
Stato ebraico che accogliesse tutti gli ebrei della
diaspora. Nel 1896, la pubblicazione del libro di Herzl,
“Lo Stato ebraico”, e poi il primo Congresso sionista a
Basilea nel novembre del 1897, contribuirono in maniera
determinante a dare corpo al progetto politico del
sionismo.
D’altra parte, tuttavia, non bisogna dimenticare che fu
nel clima dell’affaire, a cavallo tra il 1897 e il 1898,
che venne forgiato uno degli strumenti propagandistici
più tristemente efficaci contro gli ebrei, che avrebbe
assunto un peso rilevantissimo negli anni successivi. Si
tratta del famoso libro, opera di scrittori antisemiti
francesi e pagato dall’Okrana, i servizi segreti
zaristi, che, apparso sotto il titolo di Protocolli dei
savi di Sion, pretendeva di essere la raccolta degli
appunti, ritrovati casualmente e pubblicati, di una
riunione segreta di fantomatici Savi, capi dell’ebraismo
mondiale, per presentare un piano di conquista del monda
da parte degli stessi ebrei, o meglio delle élites
ebraiche, grandi capitalisti, finanzieri, faccendieri,
politici. Questo libro, che sarebbe divenuto uno dei
testi prediletti da Hitler, era giocato su alcuni
elementi che avrebbero trovato grande fortuna: il
progetto ebraico di distruzione della civiltà cristiana
e il complotto contro i sistemi politici ed economici
della società moderna.
In definitiva, possiamo affermare che l’humus antisemita
su cui si innestò il caso Dreyfus, connesso alla
permanenza, anche dopo l’esaurirsi del medesimo affaire,
di una cultura di destra violentemente antisemita,
capace addirittura di penetrare nella grande
letteratura, e sopravvissuta fino alla seconda guerra
mondiale e al regime collaborazionista di Vichy, hanno
portato qualche storico (Sternhell, 1997, p. 303) a
valutare la Francia, e non la Germania, come la vera
patria d’origine dell’ideologia che darà vita alla
Shoah.
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