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N. 15 - Marzo 2009 (XLVI)

L’AFFAIRE DREYFUS
La revisione, la riabilitazione, l’antisemitismo permanente - parte III

di Giuseppe Tramontana

 

Il 3 settembre, il presidente del Consiglio, Brisson, invitò ufficiosamente i famigliari di Dreyfus a presentare una domanda di revisione del processo del 1894. Immediatamente Cavaignac rassegnò le dimissioni. Venne sostituito dal generale Zurlinden che sembrava, se non favorevole, almeno non fanaticamente contrario alla revisione. Subito i giornali di destra lo attaccarono: “Alla fine, l’hanno trovato il generale disposto a tradire le Forze Armate!” (Rochefort su L’Intransigeant dell’8 settembre).

 

Zurlinden inaugurò il suo ministero colpendo Du Paty, che il 12 venne emesso a riposo per gravi colpe in servizio, e Picquart, denunciato quale falsario del petit bleu.


Il 17 settembre il governo trasmise alla Commissione consultiva la domanda di revisione del processo. Immediatamente Zurlinden si dimise per protesta. Assieme a lui si dimise anche il ministro dei Lavoro Pubblici Tillaye. Zurlinden tornò al governatorato militare di Parigi. Il suo posto a capo del ministero della Guerra venne preso dal generale Chanoine.


Il Paese stava attraversando un periodo di profonda crisi e le voci di possibili colpi di stato si moltiplicavano. “La situazione diviene veramente tragica – scrive Baumont – alla fine di settembre 1898. La repubblica, trascinata da un nuovo boulangerismo, ‘un boulangerismo senza Boulanger’, sembra che vada verso il precipizio” (Baumont, 1959, p. 220).


Il presidente Brisson era deciso ad aprire il procedimento di revisione del processo. La magistratura era divisa, la Commissione del ministero della Giustizia si era spaccata in due fazioni, la fazione che si opponeva e quella favorevole alla revisione.
La Commissione consultiva si pronunciò, infine, contro la revisione poiché non erano emersi fatti nuovi in grado di stabilire l’innocenza del condannato (21 settembre).
Il governo appariva in estremo imbarazzo. Per sua fortuna, a toglierlo dall’imbroglio ci pensò una notizia apparsa sul giornale londinese “The Observer” del 24 settembre, che pubblicava la prima di una lunga serie di confidenze e ammissioni di Esterhazy. Il fuggiasco avrebbe rivelato che il famoso bordereau l’aveva scritto proprio lui, ma dietro dettatura di Sandherr (che era morto). All’Ufficio Statistica – aggiungeva – c’erano più che altro prove morali del tradimento di Dreyfus, ma, purtroppo, nessuna prova materiale. Allora, chiosava, i “capi” avevano approfittato della somiglianza delle due calligrafie per “incastrare” il capitano ebreo. Tuttavia, in serata, Esterhazy smentirà l’articolo del giornale inglese e farà causa allo stesso.


Ma, intanto, qualcosa, si era rimessa in moto. Così il 26 settembre, dopo una seduta tempestosa, con 6 voti contro 4 il Consiglio dei ministri decise di trasmettere la domanda di Lucie Dreyfus alla Corte di Cassazione. Lo stesso giorno, un dispaccio dell’ambasciata tedesca a Roma parlava di un colpo di stato in preparazione da parte di Cavaignac o di un triumvirato di generali.


Il Procuratore Generale presso la Corte – scrive Armand Charpentier – era Manau. Egli, stimando che fosse impossibile che i giudici del 1894 avessero condannato Dreyfus solo sulla base del bordereau, chiese la ministero della Guerra il dossier segreto, ma Chanoine rifiutò di consegnarlo. Di fronte a questo rifiuto – continua Charpentier – Manau basò la sua requisitoria introduttiva unicamente sui due fatti nuovi allegati dalla Mme Dreyfys: la contraddizione degli esperti sulla scrittura del bordereau e i falsi di Henry.” (Charpentier, 1933, p. 186).


Così, il 15 ottobre, il Procuratore Manau dichiarava ricevibile il ricorso, e lo trasmetteva per l’esame di merito alla Camera Criminale, una delle tre sezioni della Corte di Cassazione, presieduta dall’alsaziano Loew. E, come ricorda Revel, la “Libre Parole”, “giocando sul nome” di quest’ultimo, “alsaziano e protestante, riprendeva a discorrere del complotto semita.” Il presidente Loew in poco tempo si trovò al centro della tempesta. Soprattutto allorché accentuò gli sforzi perché la petizione fosse esaminata oggettivamente. Fu coperto di ingiurie e calunnie. Ma non recedette. Incaricò uno dei giudici, Alphonse Bard, di preparare una valutazione dell’appello e, il 29 ottobre, con voto di maggioranza, la sezione penale approvò in effetti la raccomandazione di Bard, che invitava la Corte ad avviare un’inchiesta sul caso Dreyfus. Ciòaccese ulteriormente gli animi degli antidreyfusardi, i quali si misero in moto per sottrarre l’appello alla giurisdizione dei giudici, adducendo il noto motivo del complotto ebraico. Successivamente, proprio mentre la sezione penale terminava la sua inchiesta (9 febbraio 1899), e poco prima che votasse l’ammissione di un nuovo processo a carico di Dreyfus, la Camera dei deputati ed il Senato, ancora a maggioranza antidreyfusarda, stavano discutendo una legge in base alla quale l’inchiesta avrebbe dovuto essere condotta non dalla sola sezione panale, ma da tutt’e tre le sezioni della Corte di Cassazione. Questa proposta sarebbe diventata legge il 1 marzo 1899 ed avrebbe vanificato tutto il lavoro della sezione penale. L’inchiesta così dovette riprendere dall’inizio e questa volta davanti a ben quarantanove giudici, come si vedrà (Martin, 1994, p. 189).


Quella che ebbe inizio il 15 ottobre fu una settimana di fuoco. Si era sparsa la voce di un colpo di stato. I socialisti Jaurès e Guesde ne denunciarono pubblicamente il pericolo e costituirono un Comitato Permanente di Vigilanza, che avrebbe dovuto bloccare qualsiasi cospirazione militarista, “chiudendo le strade alla reazione e alla sua violenza”.


Il 25 ottobre, in un’atmosfera incandescente, si svolse la cerimonia di riapertura delle Camere. Intorno al Parlamento bivaccavano migliaia di dimostranti capeggiati dall’antisemita Guérin. Erano state presentate ben diciotto interpellanze contro il governo, quasi tutte sul caso Dreyfus.


“Déroulède iniziò l’attacco alla prima seduta della Camera accusando il ministero di essersi venduto ai dreyfusardi e urlando che bisognava sbarazzarsene a ogni costo, compreso il ministro della Guerra” (Charpentier, 1933, p. 199).


A questo punto, improvvisamente, si alzò il ministro della Guerra, Chanoine e dichiarò perentoriamente che la sua convinzione era conforme a quella dei suoi predecessori. Per la salvezza dell’onore dell’esercito, dava le dimissioni. Brisson, di fronte all’aperta insurrezione del suo ministro, prese la parola e dichiarò che avrebbe garantito la supremazia del potere civile su quello militare e chiese la sospensione per sentire il presidente della Repubblica. Ma ormai gli eventi precipitavano. Su interpellanza dell’opposizione, che chiedeva cosa intendesse fare il governo per prevenire gli attacchi alle Forze Armate, il ministero Brisson – 274 voti contro 261 – cadde.
Tuttavia, la marcia della revisione non si arrestò. Il 29 ottobre la Camera Criminale della Corte di Cassazione, con 10 voti contro 4, dichiarò ricevibile la domanda di revisione, fissando all’8 novembre la prima udienza.


Dopo la caduta di Brisson, il 31 ottobre, si formò un nuovo governo di “concentrazione repubblicana” con a capo Charles Dupuy (già capo del governo nel 1894) e con il civile Charles Freycinet, un altro antidreyfusardo convinto, al ministero della Guerra.
L’8 novembre ebbe inizio l’inchiesta da parte della Corte di Cassazione. Vennero interrogati 90 testimoni, tra cui anche cinque ministri della Guerra (Mercier, Billot, Cavaignac, Zurlinden e Chanoine). Un’atra trentina di testi vennero interrogati mediante commissione rogatoria. Dalle prime notizie sembrava che i giudici fossero favorevoli alla concessione della revisione. I giornali di destra si scatenarono contro i “bricconi asserviti all’ebreo”. Le aggressioni raddoppiarono dall’8 dicembre allorché la Corte decise di richiedere gli incartamenti dei due processi contro Picquart. Si raggiunse il parossismo quando venne richiesto al ministero della Guerra anche il dossier Dreyfus. Fu in questo clima che maturò l’idea di togliere alla Corte la causa di revisione ed affidarla alla Corte di Cassazione a Sezioni Riunite. Cosa che, come si è visto in nota 36, fu ottenuta con legge del 1 marzo 1899.


Questa richiesta di ampliamento della Corte venne proposta improvvisamente dal presidente della Camera Civile, Quesnay de Beaurepaire, che depose anche una denuncia di collusione tra il giudice Bard e Picquart. Il presidente della Corte di cassazione, Mazau, su richiesta del ministro di Giustizia, ordinò un’immediata indagine, che rivelò ‘assoluta infondatezza dell’accusa (7-10 gennaio 1899). Ma de Beaurepaire non ‘arrese. Il 16 gennaio presentò un secondo esposto contro i colleghi ‘disertori’, ma venne respinto. Allora, si dimise ed iniziò una collaborazione con L’Echo de Paris a colpi di velenosi articoli contro gli ex colleghi.


Il 25 gennaio interrogarono Esterhazy, giunto appositamente dall’Inghilterra. Continuò a negare di avere scritto il bordereau. Per quanto riguardava i suoi rapporti con Schwartzkoppen, dichiarò di averli intrattenuti per ordine dello Stato Maggiore.
Il 16 febbraio un grave fatto sconvolse la Francia. Colpito da emorragia cerebrale, moriva il presidente della Repubblica Faure. Ufficialmente, al momento del malore, era da solo. Si scoprirà poi che si trovava in compagnia della sua amante, Mme Steinheil, moglie di un pittore. Naturalmente, i giornali di destra ne approfittarono per paventare la mano del ‘Sindacato’ dreyfusardo nella morte del presidente. Pare però che, prima di chiudersi in salotto con Mme Steinheil, Faure avesse ricevuto il principe di Monaco, il quale, di ritorno dalla Germania, dove aveva incontrato il kaiser Guglielmo II, gli aveva comunicato categoricamente che Dreyfus non aveva mai avuto rapporti con l’ambasciata tedesca e pertanto era da considerarsi innocente a tutti gli effetti. Faure si era ritirato con la signora in preda ad una visibile inquietudine.


Due giorni dopo, a Versailles, con i voti dei dreyfusardi, venne eletto presidente della Repubblica Emile Loubet, di cui si conoscevano le opinioni favorevoli alla revisione. La sera stessa massicce manifestazioni nazionaliste e antisemite si svolsero in tutto il Paese.
Cinque giorni dopo, il 21 febbraio, durante i funerali di Faure, la destra tentò un putsch militare. Déroulède, Barrès e altri fanatici avevano chiesto al generale de Pellieux di condurre le sue truppe all’assalto dell’Eliseo, di ritorno dal funerale, per rovesciare il regime corrotto. Ma, all’ultimo momento, de Pellieux aveva chiesto al comandante della piazza di Parigi di essere sostituito. Così Déroulède si affidò al generale Roget. Quest’ultimo sembrò, in un primo tempo, di accogliere le richieste dei golpisti, ma giunto alla caserma di Reuilly, fece rientrare le truppe e diede l’ordine di arrestare Déroulède. In questo modo fallì il colpo di stato.


Il 31 marzo si aprirono le udienze presso la Corte di cassazione. Venne ordinato un supplemento di indagine. Dopo due mesi di lavori, interrogatori, udienze, confronti ed esami, il 3 giugno la Corte pronunciò il verdetto di annullamento del verdetto contro Dreyfus e rinviava l’accusato davanti al Consiglio di guerra di Rennes.
La reazione degli antidreyfusardi fu immediata. Il giorno dopo, 4 giugno, alle corse dei cavalli di Auteil il presidente della Repubblica venne aggredito e bastonato dal barione Christiani, senza che l’esercito muovesse un dito per impedire il fatto. Quesnay de Beaurepaire dichiarò che ci sarebbe voluto l’arrivo “di una brigada che spazzi via tutti quei giudici infami!”. Si sentiva di nuovo odore di colpo di stato. Ma questa volta scesero in campo anche i partiti di sinistra.


L’11 giugno si svolse l’altra grande manifestazione ippica parigina, il Gran Premio di Longchamp nel Bois de Boulogne. Attorno al famoso campo di corse si radunò una folla insolita. Ma questa volta non erano né borghesi né aristocratici, ma gente che proveniva dalla banlieu. “L’aggressione a Loubet – scrive Coen – aveva spinto i capi socialisti a scendere in piazza per una manifestazione massiccia di segno contrario. Per molto tempo la sinistra socialista era rimasta indifferente di fronte al caso Dreyfus. In definitiva (…) non c’erano ragioni ‘marxiste’ per difendere quel ricco capitano ebreo che, innocente o no, era un esponente di quella classe contro la quale i socialisti erano impegnati a lottare. Senonché col tempo ci si accorse che nell’Affaire erano in gioco due principi fondamentali: uno etico, il trionfo della giustizia; l’altro politico, la sopravvivenza del regime repubblicano”(Coen, 1994, p. 92).


Alla Camera si formò un Comitato di Salute Pubblica. Il 12 giugno il deputato Ruau presentò un ordine del giorno in cui si affermava che “la volontà della Camera era quella di sostenere solo e unicamente un governo deciso a difendere con energia le istituzioni repubblicane e ad assicurare l’ordine pubblico” (Coen, 1994, p. 93). Il governo Dupuy, privato della fiducia, cadde. La crisi ministeriale si rivelò subito di difficile soluzione. Rifiutarono l’incarico Deschanel, Léon Bourgeois, Poincaré, Barthou. Infine, il 22 giugno l’incarico venne accettato da Waldeck-Rousseau, che costituì un proprio “ministero da combattimento”, dove per la prima volta trovò posto un esponente socialista, Millerand al Commercio. Al ministero della Guerra andò a sorpresa il generale de Gallifet, un settantenne aristocratico, adorato dalla destra e dagli ambienti militari e odiatissimo a sinistra perché responsabile dei massacri della “settimana rossa” della Comune di Parigi del 1871. De Gallifet era l’unico che poteva imporsi ai generali e costringerli al rispetto delle decisioni del governo. La presentazione alle Camere del governo si svolse in un clima da bagarre. La sinistra si lanciò in furiosi insulti contro de Gallifet (“Assassino, presente!”).

 

Il governo stava per essere battuto quando andò alla tribuna l’ex presidente del Consiglio Brisson, il quale, pregò i deputati a votare non per il governo, ma per la repubblica. Con una maggioranza risicata di 25 voti il governo Waldeck-Rousseau venne varato. Immediatamente si presentò come più energico dei precedenti. Tra l’atro, trasferì molti giudici compromessi con il caso Dreyfus, spedì Roget a Belfort e mandò molti colonnelli in guarnigioni diverse da quelle in cui avevano servito fino a quel momento. Inoltre, decise di non interferire minimamente nel processo di Rennes. Si limitò a chiedere soltanto che tutti i documenti dichiarati falsi o contraffatti dalla Corte di cassazione non venissero più presentati come prove a carico di Dreyfus. Intanto, la notte tra il 4 e il 5 giugno Zola tornava dall’Inghilterra, lo stesso 5 giugno in Parlamento veniva richiesta l’incriminazione del generale Mercier per la presentazione irregolare del dossier segreto del 1894 (la richiesta verrà sospesa fino alla sentenza di Rennes). Il 9 giugno, dopo 1545 giorni passati all’Isola del Diavolo, Alfred Dreyfus, tornato capitano, venne imbarcato sull’incrociatore Sfax per essere riportato in Francia. Il 13 giugno veniva rilasciato Picquart. Il 30 giugno Dreyfus era in Francia. Sbarcò nottetempo, per paura che la folla lo aggredisse. Il giorno seguente incontrò la moglie. Non sa quasi parlare, dopo quasi tre anni passati da solo.


Il 18 luglio, Esterhazy, in una clamorosa intervista a Le Matin, riconosceva di essere stato l’autore del bordereau, ma insisteva sulla versione già diffusa dall’Observer: l’aveva scritto dietro l’ordine di Sandherr ed Henry (entrambi ormai morti) per costituire una prova materiale contro Dreyfus, di cui si aveva la certezza morale del tradimento.
In attesa dell’apertura del processo di Rennes, la stampa nazionalista si fece portavoce ufficiale dei generali e scatenò la sua ultima battaglia. A darle il via fu il generale Mercier (che da un’eventuale assoluzione di Dreyfus aveva tutto da perdere). Egli immediatamente dichiarò che Dreyfus sarebbe stato di certo condannato nuovamente. E avvertiva che a Rennes avrebbe detto tutto ciò di cui era a conoscenza. Tutti pensarono al bordereau originale (cioè quello – in realtà inesistente - scritto effettivamente da Dreyfus ed annotato dal kaiser Guglielmo II, non la ‘copia’ di Esterhazy). Prima di restituire il bordereau all’ambasciatore tedesco, durante la ‘notte terribile’ del 6 gennaio 1895, Mercier l’avrebbe fatto fotografare e sarebbe stato così il solo a detenere la prova decisiva contro Dreyfus.


Ma, come scrivono sia Gianni Rizzoni che Pierre Miquel, anche l’eventualità della constatazione dell’innocenza di Dreyfus non avrebbe spostato per niente i termini della questione (Rizzoni, 1973, p. 98; Miquel, 1959, p. 117).


I giornali realisti, cattolici e reazionari si scatenarono. Il cattolico La Croix scriveva che “non ci si chiede più: Dreyfus è innocente o colpevole? Ci si domanda chi la vincerà tra i nemici della patria e delle Forze Armate e i loro amici”. E Georges Thiébaud, ricorda Rizzoni, su L’Eclair scriveva senza mezzi termini: “ In questo preteso processo non si tratta di sapere se il miserabile individuo che è stato rimpatriato dalla Guiana per le necessità della messinscena è innocente o colpevole: si tratta di sapere se gli ebrei e i protestanti, avanguardia della Germania e dell’Inghilterra e dei loro alleati, sono o non sono padroni del nostro paese”. E Barrès gli faceva eco: “Si tratta di scegliere: Dreyfus o i grandi capi.” Déroulède era ancora più categorico: “ Se fosse dimostrata l’innocenza di Dreyfus – scriveva – non ci sarebbero castighi abbastanza terribili per i ministri che hanno accusato o lasciato accusare l’ebreo. Tutte le rappresaglie sarebbero scusabili… Se Dreyfus è innocente, i generali sono degli scellerati!” (Rizzoni, 1973, p. 98).

Da Rennes alla riabilitazione

Il 7 agosto 1899, alle ore 7,10 del mattino, si aprì il processo di revisione a Dreyfus. Il prigioniero rispondeva a monosillabi, era come stordito. “Furono tutti sorpresi e colpiti.” scrive Fausto Coen “E soprattutto delusi. Si aspettavano uno sguardo fiero e accusatore, si aspettavano la ribellione e invece assistevano a una composta remissione. Era chiaro che Dreyfus si controllava, voleva comportarsi come sempre da ufficiale rispettoso della Legge, dell’Autorità, della Corte”(Coen, 1994, pp. 96-97). La stessa descrizione la fornisce anche Armand Charpentier, parlando di un Dreyfus “dignitoso, rigido, pronto a ricercare la giustizia dei suoi pari più che l’appoggio dei suoi partigiani.” (Charpentier, 1933, p. 209). E purtroppo per lui, sarà questo un atteggiamento che non gli gioverà.


Il 14 agosto, l’avvocato Labori, che con il vecchio Demange assicurava la difesa dell’accusato, venne ferito da un colpo di pistola sparato alla schiena un giovane esaltato che fuggì gridando: “Ho ammazzato un Dreyfus!”.


Durante il dibattimento, sfilarono davanti ai giudici ben 100 testimoni militari e 20 civili. Tra i testi vi furono un ex presidente della Repubblica (Casimir-Perier), cinque ex ministri della Guerra, quattro ex ministri civili, un ex capo di Stato Maggiore, innumerevoli generali, maggiori, capitani. Tutte le vecchie prove vennero ripresentate come prove sicure a carico di Dreyfus. Anche se la Corte di cassazione le aveva riconosciute come false e il governo aveva dato ordine di non tenerne conto. Il personaggio-chiave del nuovo attacco a Dreyfus era l’ex ministro della Guerra Mercier il quale, ad un certo punto si lasciò sfuggire la seguente considerazione, riportata da Gianni Rizzoni: “Continuo a credere che il bordereau è stato scritto da Dreyfus; ma non annetto molta importanza a questo problema, perché anche se il bordereau fosse stato scritto da un altro, il suo esame criptografico dimostrerebbe chiaramente che non ha potuto essere scritto se non per ispirazione di Dreyfus” (Rizzoni, 1973, p. 103). Le principali novità emerse al processo furono la testimonianza di Casimir-Perier a nome della difesa e di Mercier per l’accusa, e l’intervento di un avventuriero austriaco di nome Cernuski, la cui storia relativa a quanto gli era stato confidato da un funzionario austriaco circa l’ammissione da parte di un ufficiale tedesco dell’esistenza di rapporti tra Germania e Dreyfus, non era che una riproposizione dei falsi di Henry. Gli antirevisionisti riponevano la loro fiducia in Mercier.

 

La sua prova avrebbe dovuto essere conclusiva e determinante, perché si era asserito incautamente che avrebbe esibito una fotografia del documento incriminato, il famoso bordereau annotato. Secondo la versione classica di questa storia, il bordereau era stato scritto da Dreyfus su carta spessa e tracciato da Esterhazy su carta sottile. L’originale infamante non poteva essere mostrato perché recava le annotazioni – sempre smentite dall’interessato – di pugno dell’imperatore Guglielmo II, che commentava aspramente l’avidità di Dreyfus. Si era asserito che, per evitare la pubblicazione di tale prova, che coinvolgeva addirittura il kaiser, l’ambasciatore tedesco Munster avesse consegnato un ultimatum al Governo francese nel 1894. Sotto la minaccia di scatenare una guerra, Mercier aveva discusso la situazione, nella “notte tragica” del 6 gennaio 1895, con l’allora presidente della Repubblica Casimir-Perier. L’ex ministro continuava ad affermare che quella notte si era stati ad un passo dalla guerra con la Germania, ma l’ex presidente della Repubblica aveva smentito categoricamente sia tale fatto sia l’insieme degli eventi – compreso il borderau originale annotato da Guglielmo II e fotografato da Mercier – che stavano a monte della crisi. Casimir-Perier sostenne di non sapere nulla del bordereau originale e di non aver vissuto i momenti frenetici in attesa dei telegrammi dell’Imperatore tedesco all’ambasciatore Munster che avrebbero deciso la guerra o la pace. Disse chiaramente che si trattava di invenzioni di Mercier.


Infine, il 9 settembre, dopo l’ultima arringa dell’anziano Demange (mentre il giovane e focoso Labori, per espressa richiesta di Mathieu Dreyfus, aveva rinunciato a pronunciare la sua) e dopo un’ora di camera di consiglio, il presidente della corte Jouast lesse il verdetto. La Corte, con una maggioranza di cinque a due, stabilì che Dreyfus era il traditore, seppure con la con le attenuanti: la sentenza di carcere a vita venne ridotta a dieci anni, metà dei quali erano stati già scontati.
Questa sentenza era palesemente assurda (“grottesca” l’hanno definita sia Benjamin Marin che Fausto Coen). Infatti, spiega Martin, “il tradimento non può avere circostanze attenuanti. Quello che la Corte marziale aveva tentato di fare – continua lo storico francese - era un compromesso: arrivare cioè al limite massimo consentito ai militari nell’ammettere che forse un errore era stato veramente commesso. Fino a dichiarare Dreyfus innocente la Corte chiaramente non si sarebbe mai spinta, quale che fosse il parere di qualsiasi altro tribunale. I militari sapevano che questa era la loro ultima occasione.” (Martin, 1994, p. 90).


La sentenza venne accolta con soddisfazione dagli ambienti nazionalisti e antisemiti, con costernazione da quelli dreyfusardi. Tra i primi a manifestare la sua indignazione, il 12 settembre, ci fu Zola, ritornato in Francia, che si sfogò contro i giudici che avevano commesso l’ennesima ingiustizia.
In tutto il mondo si propagò l’eco della nuova condanna. Cortei e manifestazioni si verificarono in tutta Europa. A Londra, Anversa, Milano, Napoli, Bruxelles, New York e Indianapolis gruppi di manifestanti tentarono di assaltare le ambasciate francesi, dopo aver bruciato il tricolore.
Come nota Baumont, l’ambasciatore tedesco scrisse a Guglielmo II che con quel verdetto la Francia si era posta al di fuori del consesso delle nazioni civili (Baumont, 1959, p. 264).


La regina Vittoria, sovrana inglese, telegrafò a Charles Russell of Killowell, Lord Chief justice d’Inghilterra, che si era recato a Rennes per seguire il processo, sostenendo di avere appreso con “stupore lo spaventoso verdetto” ed augurandosi che “il povero martire possa appellarsi a dei giudici migliori”. In molti Paesi si incominciò a parlare di boicottare la grandiosa Esposizione Universale di Parigi del 1900.
Ciò nonostante, nel governo orami dominava una maggioranza assolutamente favorevole alla innocenza di Dreyfus. Il governo, in realtà, si aspettava anch’esso l’assoluzione del capitano, ma fu colto di contropiede. La prima reazione fu quella del ministro della Giustizia Ernest Monis, deciso a deferire la sentenza di Rennes alla Corte di Cassazione. E il governo sembrava solidale con lui. Eccetto de Gallifet, il quale, dopo aver paventato il rischio che si sarebbe corso nell’esasperare ulteriormente l’esercito, chiosò: “Non dobbiamo dimenticare che la Francia è nella sua maggioranza antisemita.”(Coen, 1994, p. 107).


Che fare, dunque? L’unica via rimasta aperta per tirar fuori dal carcere un Dreyfus ormai al limite di ogni sopportazione pareva la richiesta di grazia.
Il 10 settembre Mathieu Dreyfus andò a trovare il fratello in carcere: era prostrato, incapace di reagire. Si convinse che non poteva restare oltre in galera. Anche i suoi avvocati si resero conto che era in una situazione di totale disperazione. Si erano recati da lui per fargli firmare un nuovo ricorso, ma il ricorso poteva essere fatto solo per vizi di forma e andava rivolto ad un Consiglio di revisione militare: non c’era granché da sperare, invero. Gli avvocati propendevano per la grazia. Waldeck-Rousseau fece immediatamente sapere che il governo era favorevole a concederla. Ma le difficoltà sorsero nel campo dei dreyfusardi. Il cosiddetto “Sindacato” si riunì nel gabinetto del ministro del Commercio, il socialista Millerand. C’erano tutti: Clemenceau, Ranc, Jaurès, Mathieu Dreyfus, Picquart, Lazare, Labori. Mancava solo Scheurer-Kestner, che stava morendo nella sua villa alsaziana.


“La grazia – scrive cinicamente Revel – significava la fine dell’Affare. Alfred Dreyfus, graziato, non era più la nobile vittima, l’innocente martirizzato dell’ovvia litografia dreyfusiana, ma un disgraziato dannato a nascondersi agli occhi di tutti la sua colpa, o la sua debolezza. Né poteva più servire da vessillo per continuare la lotta politica. Non era più né bandiera né simbolo. Il miserabile residuo di una battaglia generosa e finita.” (Revel, 1936, p. 321).
Contrari alla grazia si pronunciarono Clemenceau, Jaurès e Peguy, al quale si attribuì la famosa, ingenerosa, frase “Saremmo morti per Dreyfus, ma Dreyfus non è morto per Dreyfus”.
Favorevoli alla soluzione proposta dal governo si dimostrarono Ranc, Lazare e Labori. Estremamente combattuto appariva Mathieu Dreyfus, diviso tra l’esigenza della ricerca della giustizia fino in fondo e la pietà per il fratello. In un primo momento anche il diretto interessato era contrario, ma poi il fratello gli fece cambiare idea.
Infine, la grazia venne accettata ed il 19 settembre, su proposta del ministro della Guerra, il presidente della Repubblica firmò il decreto di concessione della misura di clemenza: “Viene accordata a Dreyfus Alfred la remissione del resto della pena di dieci anni di detenzione inflittagli dal Consiglio di Guerra di Rennes, come pure della degradazione militare. Loubet.”


Lo stesso giorno Dreyfus uscì dal carcere. Immediatamente fece pubblicare una nota su un quotidiano: riconosceva di essere stato graziato, ma prometteva di incominciare una lotta per la riabilitazione totale affinché gli venisse restituito l’onore.
Restavano ancora i procedimenti contro gli altri personaggi coinvolti nell’affaire. Il 17 novembre 1900 Waldeck-Rousseau presentò un progetto di legge di amnistia per tutti costoro. Anche questo progetto ebbe degli oppositori tra i quali si segnalava Zola, secondo il quale esso era solo un mezzo per chiudere la bocca agli assertori della verità. Dreyfus, da parte sua, deciso a perseguire la strada della completa riabilitazione, ottenne – per il tramite del fratello Mathieu – di essere escluso dal progetto di legge.


Tutto sembrava essere stato messo a tacere. L’incidente (cioè l’affaire) – come aveva detto de Gallifet subito dopo la concessione della grazia – era (o sembrava) chiuso. Ma Dreyfus voleva piena giustizia. E per ottenerla sarebbe occorso un nuovo processo, che si sarebbe potuto tenere solo davanti alla comparsa di un “fatto nuovo”.
Tre anni dopo, nel 1903, il ministro della Guerra Louis André (che aveva sostituito il dimissionario de Gallifet), in seguito ad un appassionato intervento di Jaurès, decise di riaprire la strada giudiziaria al caso Dreyfus. Nell’aprile di quell’anno, infatti, il nuovo ministro della Guerra del gabinetto Combes intraprese una revisione completa di tutta la documentazione relativa a Dreyfus e a Esterhazy esistente negli archivi della sezione statistica. Il 19 ottobre presentava a Combes un rapporto in cui veniva dimostrata in modo definitivo come la maggior parte dei fatti sottoposti al Consiglio di Guerra di Rennes non fossero per nulla collegati a Dreyfus o fossero stati manipolati per farli apparire tali.


Dreyfus, messo al corrente dei nuovi sviluppi, inoltrò formale richiesta di revisione al ministro della Giustizia Ernest Vallé. Quest’ultimo investì della questione la Corte di Cassazione. La sezione penale della Suprema Corte, presieduta da Jean-Antoine Chambareaud, succeduto a Loew, si riunì il 3 marzo 1904 e votò la riapertura di una nuova inchiesta, portata a termine il 19 novembre dopo quasi nove mesi di deposizioni e testimonianze, le quali, tuttavia, stabilirono al di là di qualsiasi ragionevole dubbio la validità del rapporto André. In base alla legge del 1899, la Corte di Cassazione avrebbe dovuto riunirsi in seduta plenaria per deliberare in merito alla richiesta di revisione, ma si dovette attendere per ben diciannove mesi. Come spiega Martin, “le cause del ritardo erano da ricercare principalmente nei molti rovesci politici sofferti dalla maggioranza dreyfusarda: la caduta in disgrazia di André per aver fatto uso della massoneria nei suoi rapporti sulle pratiche religiose degli ufficiali cattolici; le dimissioni di Combes che seguirono a breve distanza; la prima crisi marocchina con la Germania; le violente dimostrazioni scatenate dall’entrata in vigore della legge sulla separazione di Stato e Chiesa; e infine le elezioni politiche del maggio 1906.” (Martin, 1994, p. 92).


Il 15 giugno finalmente la Corte di Cassazione si riunì per deliberare sulla richiesta. La riunione terminò il 12 luglio. Il riesame aveva fatto luce sugli innumerevoli fatti nuovi che giustificavano la “cassazione con rinvio” della sentenza di Rennes. Ma, questa pronuncia avrebbe portato al rinvio ad un terzo Consiglio di guerra, “il che – scrive ancora Martin – avrebbe dato ai militari la possibilità di scelta: o pronunciare un altro verdetto di colpevolezza, o ammettere pubblicamente, e questa volta in forma definitiva, che nel 1894 era stato commesso un errore e che questo errore era stato ripetuto nel 1899” (Martin, 1994, p. 92). I giudici vollero evitare ogni rischio. Con un votazione a maggioranza annullarono la sentenza di colpevolezza e con una seconda votazione pronunciarono l’innocenza di Dreyfus. Giustizia era fatta. Almeno con riguardo al capitano. Ma chi era stato il traditore? Chi aveva scritto davvero il bordereau? La persona a cui era indirizzato il petit bleu, Esterhazy, era lei la traditrice? E il petit bleu era vero o falsificato ad arte? A tutte queste domande la sentenza della Corte di cassazione non rispondeva. Tutte le prove dell’avvenuto tradimento venivano ignorate. “La legge era stata piegata ancora una volta alla necessità della politica.
Emanata la sentenza di assoluzione, Camera e Senato approvano con una maggioranza di oltre 400 voti i progetti di reintegrazione nell’esercito di Picquart col grado di generale e di Dreyfus col grado di maggiore (ma lui reclamerà quello di colonnello…). Il 20 luglio 1906, nel cortile della Scuola di Guerra dove dodici anni prima si era svolta la parata di degradazione, alla presenza del generale Picquart (che da lì a poco diventerà ministro della Guerra) Dreyfus venne nominato Cavaliere della Legion d’honneur.


“L’Affare – ha scritto Revel - finiva come nelle favole. Quando l’incantesimo maligno cessa, ecco, tutti si svegliano nel bel mezzo di una giornata che si è rifatta mirabilmente serena, più ricchi e felici di prima. Sui reprobi di pochi anni avanti, fioccavano ora le promozioni e le onorificenze.” (Revel, 1933, p. 368).
Eppure non tutto sarebbe andato così pacificamente negli anni successivi. Per gli antidreyfusardi l’affaire sarebbe rimasta a lungo una ferita aperta ed, anche a distanza di anni, alcuni avrebbero espresso in vari modi il loro livore.
Il 4 giugno 1908 le ceneri di Zola (morto il 5 ottobre 1905 per asfissia a causa di una stufa malfunzionante, secondo alcuni addirittura appositamente manomessa) vennero traslate al Pantheon. Dreyfus, che assisteva alla cerimonia, venne ferito in un attentato. Incredibilmente il tribunale della Senna pronunciò una sentenza di assoluzione nei confronti dell’attentatore.


Dreyfus morì l’11 luglio 1935, settantaseienne, nella sua casa parigina.


A questo punto, sembrava che tutto fosse finito. Durante il periodo dell’affaire, “due France si erano fronteggiate – afferma Marc Ferro -, come due ‘cori tragici’ impegnati a scagliarsi reciprocamente ingiurie, e gran parte del paese aveva preso parte alla disputa, tra il progressivo infoltirsi dell’ala dreyfusarda. Una caricatura di Caran d’Ache – prosegue lo storico transalpino -, uscita nel 1898 su “Le Figaro”, illustra questo clima. Due vignette presentano una cena di famiglia. ‘Non parliamo della faccenda Dreyfus’ raccomanda il padrone di casa mentre il cameriere porta la minestra. Poco dopo, tavola e sedie sono a pezzi, i commensali se le stanno dando di santa ragione. ‘Ne hanno parlato’”(Ferro, 2002, p. 378).


Tuttavia, l’onda lunga dell’affaire non finì con la morte del suo protagonista principale. Cinque anni dopo, nel 1940, ad invasione nazista ultimata, un nuovo Statuto per gli ebrei li escluderà da qualsiasi impiego pubblico e da numerose professioni. Dopo verranno le deportazioni. Una nipote di Dreyfus, Madeleine, schierata con la resistenza francese, verrà deportata e uccisa ad Auschwitz.


Ad esemplificare quale sia “la memoria lunga” dell’affaire bastano poi alcuni fatti.
Il 27 gennaio 1945, la Corte di Giustizia di Lione riconobbe Charles Maurras, uno dei più attivi antidreyfusardi, nonché fondatore del movimento antisemita e filonazista L’Action Française, colpevole di “intelligenza con il nemico” sotto il regime di Vichy, condannandolo alla “degradazione nazionale e alla detenzione a vita”. Alla lettura del verdetto esclamò: “E’ la vendetta di Dreyfus!”
Ma anche in epoca più vicina a noi sono accaduti dei fatti che fanno ben comprendere come l’affaire sia probabilmente ancora una questione aperta. Almeno per alcuni settori dell’ambiente militare francese. Nel 1985 il ministro socialista della Cultura, Jack Lang, volle piazzare un monumento a Dreyfus nel cortile della Scuola Militare di Parigi, ma i militari posero il veto: la statua è ora visibile alle Tuileries


Solo nel settembre 1995, l’esercito francese, a nome dello storico ufficiale dell’esercito, Jean-Louis Mourrut, ha ammesso definitivamente l’innocenza di Dreyfus, dopo aver sostenuto fino ad allora che “nessuno è in grado di dire se Dreyfus fosse una vittima cosciente o incosciente”. Tuttavia, il ministro della Difesa, Francois Léotard, subito dopo fu costretto a licenziare in tronco il capitano Paul Gauyac, responsabile del servizio storico dell’esercito, perché aveva fatto pubblicare nel settimanale dell’esercito, Sipra Actualités, un testo antidreyfusardo. In base a tutto ciò, allora, sembra avere ragione chi ha affermato che “alle estreme propaggini del secolo, la Francia è innanzitutto l'affare Dreyfus” (Réberioux, 1981, p. 202).

Come si è visto, l’affaire Dreyfus fu caratterizzato da un’eplosione senza precdenti (almeno per la Francia) di antisemitismo. Tuttavia, questo divampare razzista non fu certo del tutto improvviso: fu, in realtà, il punto di arrivo di una lunga campagna contro la comunità ebraica condotta dagli elementi più retrivi della destra francese. Come sottolinea Anna Foa, in Francia il movimento antisemita assume grande consistenza agli inizi degli anni Ottanta del secolo, nel clima di conflitto tra i liberali della Terza Repubblica e le forze antidemocratiche e reazionarie (Foa, 1999, p. 248).
Dello stesso avviso sono Fausto Coen e Michael Marrus, i quali affermano che fu intorno al 1880 che l’antisemitismo uscì dalla ristretta cerchia di alcune élites intellettuali, divenendo un fenomeno popolare (Coen, 1994, p. 102; Marrus, 1994, p. 94). “Soltanto nel 1880 – scrive Marrus – i più accesi antisemiti francesi scoprirono che la diffidenza e il risentimento verso gli ebrei avrebbero potuto suscitare un cospicuo consenso popolare.” (Marrus, 1994, p. 95).


Prima dello scoppio di questo periodo – ossia prima degli scandali dell’Union Générale e della Compagnia del canale di Panama - , la pubblicistica antisemita aveva attirato l’attenzione di pochi intellettuali, e le sue tesi non trovavano adeguata collocazione nel dibattito politico nazionale. Questi intellettuali, in genere, erano vicino alla sinistra ed all’ideologia socialista e davano all’antisemitismo una valenza “di classe”. Infatti, poiché tra i principali attori della società borghese apparivano gli ebrei, spesso commercianti, imprenditori, che una certa tradizione dipingeva come facoltosi, oltre che abili negli affari. Sicché la lotta contro la borghesia ed il sistema capitalistico divenne, a torto o a ragione, anche la lotta contro coloro che, in un certo senso, erano tra i suoi maggiori rappresentanti, specie se erano influenti nel capo economico e o culturale. In questo modo, man mano che gli ebrei crescevano per ricchezza, influenza e prestigio nella società francese, coloro i quali avevano nostalgie e velleità preindustriali (“piccolo-borghesi” le avrebbe definite Karl Marx) e premoderne iniziarono a considerare gli ebrei – come gruppo omogeneo e compatto (da qui nasceranno poi le varie teorie del complotto) – come nemici intelligenti, preparati, ma perennemente dediti a tramare nell’ombra, inaffidabili e profittatori.


In relazione all’antisemitismo, il più importante fu Alphonse Toussenel, giornalista e seguace di Fourier, il cui libro recava il titolo Les juifs, rois de l’époque.
Tuttavia già sedici anni prima dello scoppio dell’affaire, erano apparsi in Francia due giornali di chiara tendenza antisemita L’antijuif e L’antisemitisme che rappresentavano la bandiera della reazione e del ‘revanchismo”. In effetti, dopo la sconfitta del 1870, tutte le forze che tenevano ad una rivincita attribuivano la sconfitta medesima non alla debolezza ed alla disorganizzazione dell’esercito, ma al tradimento, alle oscure manovre di una “quinta colonna” di cui, naturalmente, nerbo essenziale era – secondo loro -l’elemento ebraico, ossia i rinnegati senza patria.
Peraltro, occorre ricordare che il termine stesso antisemitismo non aveva vita lunga. Era comparso per la prima volta, nel 1873, nel libro La vittoria del giudaismo sul germanesimo dello scrittore tedesco Wilhelm Marr. Fino ad allora, infatti, non si può parlare nemmeno di antisemitismo, ma più correttamente di antiebraismo, in base al quale “l’identità dell’ebreo era (…) connotata essenzialmente da un dato religiosi. (…) Da ciò il carattere speciale e unico del fatto di essere ebrei: l’identità religiosa ne implicava necessariamente altre, venendo ereditata di padre in figlio e costituendo il legame necessario e la barriera distintiva rispetto agli altri.” (Prosperi, Introduzione a Lutero, 2000, p. XV).
Con la nascita dell’antisemitismo moderno, invece, l’ebreo viene colpito non in quanto esponente di una determinata dottrina religiosa, ma in quanto tale, ossia per il fatto di essere geneticamente quello che è, “per seme, sangue e razza.”
L’antisemitismo diffuso su base popolare aveva radici antiche nelle regioni orientali francesi, in particolare in Alsazia e Lorena, dove da più tempo risiedevano comunità ebraiche. Come conferma Marrus, tuttavia, tale antisemitismo era amministrato dai tradizionali leader d’opinioni locale, per lo più notabili e possidenti rurali, “molto diversi dai demagoghi urbani che avrebbero debuttato da lì a poco.” (Marrus, 1994, p. 96).

A dare slancio alla pubblicistica antisemita, nel 1882, fu il primo grande crac finanziario della Terza Repubblica. In quell’anno, l’Union Générale, una banca molto importante fondata da finanziari cattolici con lo scopo deliberato di rompere il monopolio ebraico e protestante nell’esercizio del credito, dovette chiudere i battenti. Essa raccoglieva i depositi di famiglie cattoliche benestanti e di decine di migliaia di piccoli risparmiatori.
Il fallimento della banca generò onde d’urto antisemite che si propagarono in tutta la Francia. Il crac era dipeso, in realtà, a gravi errori di gestione. Ma quando si verificò giornalisti senza scrupoli, spesso vicini o omogenei ad ambienti cattolici, lo attribuirono alle macchinazioni di gruppi economici ebrei e della famiglia Rotschild in particolare, descritti come personaggi inquietanti e avidi decisi a dare l’assalto agli interessi nazionali francesi. Come ricorda Marrus, a tal proposito sintomatico fu il breve epitaffio scritto per l’Union Générale dall’ambasciatore francese a Pietroburgo, il visconte de Vogue: “Assassinata dagli ebrei!” (Marrus, 1994, p. 97).Da quel momento tutti i giornali a forte diffusione, destinati ad un pubblico avido di notizie sensazionalistiche, montarono il caso, infiammando gli animi, soprattutto dei piccoli risparmiatori colpiti in prima persona dal crollo della banca.


Dieci anni dopo, nel 1892, si verificò l’altro grande scandalo della Terza Repubblica: il crack della Compagnia del Canale di panama, costituita originariamente dall’ideatore del Canale di Suez, Ferdinand de Lesseps. Anche in questo caso la stampa ebbe un ruolo determinante. Nella ricostruzione della vicenda, fece emergere due figure con tratti decisamente grotteschi: il barone Jacques de Reinach, che si suicidò mentre infuriava lo scandalo, e Cornelius Herz, entrambi ebrei. E questo fatto dell’appartenenza religiosa venne ingigantito e sviscerato a tal punto che divenne il tema attorno a cui ruotarono tutti i tentativi di attribuire le colpe per il disastro della Compagnia, dimenticando naturalmente che la maggior parte dei soci erano cattolici e che, comunque, nella vicenda economico-finanziaria dello scandalo nessun rilievo avevano il credo religioso o la provenienza culturale.


“Nessuno seppe sfruttare quegli scandali con più abilità di Edouard Drumont, un pubblicista schivo e introverso, ma a suo modo geniale; non sembra eccessivo affermare che egli divenne il miglior propagandista antisemita della storia francese.” (Marrus, 1994, p. 98). Capacità giornalistica e sfruttamento editoriale a parte, Drumont era fanaticamente convinto delle sue teorie antisemite e razziste e proprio dalla sua esaltazione promanava una nefasta forza di persuasione e coinvolgimento. Nel suo La France juive (1886), di cui si vendettero più di un milione di copie, egli diffuse l’annuncio che i responsabili dell’attuale stato di degenerazione nazionale e sociale erano gli ebrei, trafficanti, avidi, orditori di trame segrete e scaltri. Anche il quotidiano da lui fondato, La libre parole, e gli altri suoi quattordici libri ebbero una vasta circolazione; in più Drumont non si stancò mai di fondare leghe e associazioni antisemite, stringendo alleanze con chiunque la pensasse come lui e rivolgendosi agli operai ed alle classi più umili per convincerli della giustezza delle sue teorie. Secondo quanto sostiene George L. Mosse, egli “credeva che la questione ebraica fosse la chiave di volta della storia francese e invocò la rivolta delle masse contro l’oppressore ebreo; ‘Libre parole’ si compiaceva di dare descrizioni commosse della miseria delle classi lavoratrici. L’espulsione degli ebrei dalla Francia avrebbe instaurato la giustizia sociale, perché attuando questa misura le loro proprietà sarebbero state confiscate e distribuite tra tutti coloro che avevano partecipato alla lotta.”(Mosse, 1978, p. 168). Drumont non voleva proclamare la ‘guerra santa’ contro gli ebrei né attaccare la loro fede religiosa, ma – in una maniera ‘moderna’, secondo il modello dei Marr, dei Gobineau, dei Chamberlain – li colpiva in ebrei, esponenti di una razza da condannare in quanto tale.


Nel 1890 Drumont fondò “La ligue anti-sémite” che sosteneva la tesi che bisognasse creare nuovi sindacati capaci di porsi l’obiettivo di espropriare i monopoli finanziari e chiedeva la concessione di crediti senza interessi. “Ma questa e tutte le altre leghe da lui fondate – scrive ancora Mosse – ebbero dimensioni molto modeste e furono prive di importanza: fu solo grazie a un’autorità da lui esercitata che Drumont riuscì finalmente a entrare in contatto con un movimento più vasto”68, ossia il sindacato denominato “Les jaunes”, fondato nel 1900 e che, tra il 1903 – quando Drumont ne divenne segretario – e il 1908 vide l’adesione di almeno 100.000 persone.
Ma le associazioni fondate da Drumont non furono le uniche. Nel 1889, infatti, era nata la Ligue Nationale Antisémitique de France, un gruppo eterogeneo sorto grazie al finanziamento del marchese de Morès, ex ufficiale, uomo dalla vita avventurosa e dalle molteplici e azzardate iniziative. Capo di questa Lega fu Paul Deroulède, deputato della destra, già fondatore, nel 1882 della Ligue des Patriotes. L’antisemitismo di cui si facevano portatrici queste due Leghe era strettamente collegato, sia per la rilevanza delle persone che vi aderivano sia per le spiccate connotazioni ideologiche di destra, al boulangerismo, “sfida radicale tanto al socialismo organizzato e partitico quanto alle istituzioni della Terza Repubblica.” (Mosse, 1978, pp. 169-170).


L’antisemitismo popolare, come lo chiama Marrus, si collegò ben presto ad altri movimenti di opinione. Nel 1897, un altro notissimo antisemita, Jules Guérin, discepolo sia di de Morès che di Drumont, fondò la Ligue Antisémitique Francaise. Questa Lega raggiunse migliaia di iscritti e, nonostante avesse delle connotazioni boulangeriste, la sua vocazione era di “sinistra”. I suoi membri si dichiaravano “socialisti” e contro gli oligopoli e le altre forze di sfruttamento dell’uomo, i quali naturalmente erano in mano ebraiche… Jules Guérin era dell’avviso, infatti, che le logge massoniche servissero a mascherare le cospirazioni ebraiche e per sconfiggere gli ebrei e i massoni con le loro stesse armi fondò il “Grande Oriente”, antiebraico e antirepubblicano: nella sua sede, in rue Chabrol, Guérin raccolse armi per un colpo di stato e nel 1899 sostenne per parecchi giorni un assedio dalla polizia. Fu questo un episodio – denominato fort Chabrol – che per settimane rappresentò l’evento sensazionale di Parigi e che successivamente sarebbe servito per indicare genericamente le rivoluzioni inutili e velleitarie (Gramsci, 1960, pp. 118, 154).


A questi movimenti non mancarono appoggi finanziari. A Guérin gli aiuti giunsero soprattutto dall’Algeria. Come dice Marrus, i francesi d’Algeria erano propensi a pensare che gli ebrei fossero fautori di governi liberali centralizzati, incuranti delle realtà locali. In Algeria, l’elemento di spicco del movimento antisemita era Max Régis, la cui retorica infuocata faceva impallidire quella di un Drumont o di un Guérin. Ed il primo, nell’aprile del 1898, nel pieno dell’affaire Dreyfus, ricorse all’aiuto di Régis per farsi eleggere deputato nel collegio algerino. Qualche mese dopo lo stesso Régis venne eletto sindaco di Algeri

Ciò che rendeva popolare l’antisemitismo e la sua mitologia erano vari fattori profondamente collegati tra di loro. Uno primo importante elemento era costituito da una paura diffusa dei mutamenti, un’angoscia profonda di fronte a quelle forze che stavano trasformando la società. Come nota M. Marrus, in realtà l’ondata di antisemitismo che si scatenò in Francia in questo periodo “aveva ben poco da fare con gli ebrei in carne ed ossa; questi ultimi non erano che un simbolo, efficace e a portata di mano, della minaccia insita nei mutamenti in corso.” (Marrus, 1994, p. 101). A comporre e sostenere l’antisemitismo concorsero soprattutto tre filoni, ognuno dei quali contribuì alla creazione della nuova immagine mitica dell’ebreo.


Il primo e il più antico era quello legato al tradizionale antisemitismo di stampo cattolico. Esso consisteva nel dipingere l’ebreo come un temibile antagonista della Chiesa e della brava gente timorata di Dio. Qui trovavano spazio i classici temi dell’ebreo “deicida”, “cieco” e “ottuso” nei confronti della vera fede, ostinato, carnale e perverso. In tal modo, si sostenne che l’odio moderno degli ebrei verso Cristo e la sua Chiesa avrebbe assunto la forma di un lento lavorio finalizzato all’abbattimento dei pilastri del Cristianesimo francese. Tali temi venivano ovviamente affrontati, sviluppati e propagandati dalla stampa cattolica. Il quotidiano che in questo contesto brillava per il suo violento antisemitismo era indubbiamente l’organo della Confraternita Assunzionista La Croix, il quale - come ricorda Giovanni Miccoli – aveva dato di se stesso la definizione di “le journal le plus antijuif de France, celui que porte le Christ, signe d’horreur aux juifs” (Miccoli, 1996, p. 1481). Questo giornale raggiunse una diffusione enorme al tempo dell’affaire. Era portatore di un antisemitismo fanatico, capace di descrivere gli ebrei come i veri padroni della Repubblica, oltre che gli inventori del socialismo, del materialismo e dell’anticlericalismo, strumenti ideologici approntati per propagandare l’anticristianesimo. “Violento e razzista – scrive Marrus – il giornale lasciava ben poco all’immaginazione quanto ai misfatti che il giudaismo avrebbe compiuto o si sarebbe apprestato a compiere. In pratica, tutte le difficoltà e contraddizioni della società moderna venivano collegate alla cospirazione ebraica volta a distruggere la Francia e il cristianesimo in generale.” (Marrus, 1994, p. 104).


Giovanni Miccoli, peraltro, aggiunge che, in ogni caso, “alcuni dei più violenti trattati e libelli antisemiti, che ripetevano tutti i luoghi comuni della polemica antica e recente contro gli ebrei, erano opera di ecclesiastici”. Inoltre, generalmente il mondo cattolico era pressoché compatto nell’abbracciare e fomentare l’ondata di antiebraismo e “non si può certo dire che su questi temi vi fosse discussione o emergessero dissensi pubblici tra i cattolici francesi, che pur non si tiravano indietro di fronte ai litigi di famiglia. Certamente anche tra vescovi e clero non mancava chi avvertiva fastidio e diffidenza per tali tematiche. Ma erano sentimenti che non pare si credesse possibile o opportuno manifestare pubblicamente.” (Miccoli, 1996, p. 1481).
Questo tipo di antisemitismo mirava a legittimare l’influenza della Chiesa cattolica nella società francese, attraverso la centralità della discussione e dell’azione religiose. In questo quadro, allora, l’ebreo assunse un ruolo simbolico, l’incarnazione di tutti i mali, le angosce e le paure che ribollivano nella società francese. E tale messaggio arrivò ai cittadini attraverso una stampa che imbastì su questo argomento delle vere e proprie campagne di demonizzazione.


Il secondo filone dell’antisemitismo era quello di stampo “socialista” e antioligopolista e anti-capitalista, già analizzato. Era questa una corrente che nasceva da un desiderio premoderno di ritorno all’economia rurale, descritta romanticamente come un’epoca di idillio e giustizia sociale. Come abbiamo visto i vari Drumont, Rochefort, Deroulède, Guérin e Régis avevano questo tipo di retaggio culturale. Questo “socialismo” antisemita derivava da quella corrente militaristico-autoritaria nota come boulangerismo. Tuttavia esso persistette anche dopo il tramonto di quest’ultimo movimento, permeando i vari contesti politici e più di un partito protagonista dell’infuocato dibattito politico. A tal proposito, peraltro, val la pena ricordare che spesso – anche in autori e politici al di sopra di ogni sospetto razzistico come Jean Jaurès – il termine “ebreo” era sinonimo di “borghese” ed era utilizzato in questo senso anche da alcuni padri fondatori del cosiddetto “socialismo utopistico” come Proudhon e Fourier.


La terza corrente è quello che si riscontra nel nazionalismo. Come sottolinea Victor Nguyen, innanzitutto con si pervenne ad una sorta di “transfert di valori, dalla cultura alla politica, segnatamente per il tramite delle coscienze artistiche divenute coscienze intellettuali. Questa mutazione – continua lo studioso francese – chiariva le divisioni della borghesia proiettata dal caso Dreyfus in alleanze contraddittorie, socialiste da un lato, cattoliche dall’altro, e costretta, per mantenere la sua egemonia, ad accelerare ancor di più quel processo di nazionalizzazione della nazione che essa conduceva da dopo la Rivoluzione.” (Nguyen, 1981, p. 145). E tale processo di nazionalizzazione che, anticipando la “rottura col secolo dei Lumi, anticipava la tragedia del nuovo secolo”, si ritrova esplicitato nella parabola dell’Action Française, organizzazione fondata da Charles Maurras proprio nel 1899, che si farà portatrice di un nazionalismo reazionario moderno, in cui, “grazie all’impiego ed al ruolo nuovo degli intellettuali-forgiatori di coscienze, si mescolavano ragione e violenza”, dando luogo ad un organismo caratterizzato da un “imperialismo promosso organizzatore” tipico (su grande scala) dei partiti totalitari del Novecento (Nguyen, 1981, p. 145).
In questo senso, il razzismo antisemita rappresentò un “nazionalismo ‘integrale’, che ha senso solo se si fonda sull’integrità della nazione, verso l’esterno e verso l’interno”. In tal modo il razzismo “induce permanentemente, rispetto alla nazione, un eccesso di ‘purimo’: per essere se stessa, deve essere razzialmente e culturalmente pura.” (Balibar, 1990, p. 71).


In verità, come sottolinea J. W. Burrow, teorie di stampo razzistico erano diffuse un po’ ovunque alla fine del XIX secolo. L’antisemitismo, in particolare, prsee toni che non erano mai stati tanto accesi e si diffuse in una misura quale mai si era data, venendo ad assumere anche una coloritura politica. “In Francia – insiste Burrow – l’antisemitismo era in misura principale un aspetto del nazionalismo esacerbato e una forma di retorica anticapitalista.” (Burrow, 2002, p. 165).


Il nazionalismo, naturalmente veniva alimentato da un esercito i cui più alti ufficiali erano ancora uomini del Secondo Impero, “che –come sottolinea Wolfgang J. Mommsen – reclutava le sue nuove leve ricorrendo quasi esclusivamente alla cooptazione, simpatizzava in particolar modo con le concezioni antisemite. Essi – aggiunge lo storico tedesco – disprezzavano la Terza Repubblica come espressione di una borghesia finanziaria materialista e preoccupata soltanto di fare buoni affari, e anche degli ebrei, poiché all’interno della vita economica francese questi controllavano un numero elevatissimo di posizioni-chiave. L’agitazione antisemita contro il traditore Dreyfus fu legata pertanto fin dall’inizio ai problemi della costituzione politica e sociale della Francia.” (Mommsen, 2001, p. 126).
In effetti, i nazionalisti antisemiti, la cui punta di diamante era indubbiamente rappresentata da buona parte delle alte gerarchie militari, si distinsero perché si mostravano abitualmente più preoccupati dei presunti nemici interni che degli avversari esterni del paese. “Sembravano ossessionati dal timore che forze corrosive minassero le fondamenta della società francese, rendendola debole e demoralizzata.” (Marrus, 1994, p. 105).
Per costoro, gli ebrei erano gente senza radici e senza legami storici col paese in cui vivevano, estranei e spesso contrari agli interessi della nazione che li ospitava.
Questo filone, come si è accennato sopra, sopravviverà fino alla seconda guerra mondiale attraverso l’Action Française di Charles Maurras. D’altronde, la filosofia del nazionalismo antisemita, era stata espressa con molta chiarezza da Maurice Barrès, il quale, a proposito di Dreyfus, aveva affermato: “Non ho proprio bisogno che qualcuno mi venga a spiegare perché Dreyfus avrebbe commesso un tradimento. Che Dreyfus sia capace di tradimento io lo deduco dalla sua razza!” (Marrus, 1994, p. 105; Coen, 1994, p. 133).


Notevole poi fu il ruolo della stampa nella diffusione di questo antisemitismo popolare (Gozzini, 2001, pp. 176-179; Miquel, 1959, pp. 71-82). Gli ebrei, che in virtù della loro “diversità” ed “unicità” erano bersagli piuttosto facili da colpire, divennero il catalizzatore di tutte le frustrazioni e le angosce sociali che attanagliavano alcuni gruppi sociali, segnatamente i militari e la classe media, commercianti, bottegai, artigiani, piccoli imprenditori, scontenti di ogni genere. L’antisemitismo forniva una spiegazione mitica di tutti i complessi fenomeni che travagliavano ed agitavano la realtà francese. Ed era una spiegazione semplice da recepire e comprendere, lontana dalle complicate analisi socio-economiche avanzate dal socialismo o dal liberalismo. Questo razzismo creò un rifugio immaginario per coloro i quali erano impauriti da una modernità che non riuscivano né a comprendere né a contrastare.


In conclusione, val la pena ricordare, che fu proprio nel bel mezzo dell’affaire che emerse, come reazione all’antisemitismo, la prima forte risposta al problema della ‘salvezza’ degli ebrei dispersi nel modo. Essa fu espressa da un ebreo ungherese, corrispondente a Parigi per il giornale viennese “Neue Frei Presse” durante l’affaire Dreyfus, Theodor Herzl. Secondo Herzl, l’emancipazione era un fallimento e l’antisemitismo una costante indelebile della società moderna. L’unica strada percorribile per salvarsi era la creazione di uno Stato ebraico che accogliesse tutti gli ebrei della diaspora. Nel 1896, la pubblicazione del libro di Herzl, “Lo Stato ebraico”, e poi il primo Congresso sionista a Basilea nel novembre del 1897, contribuirono in maniera determinante a dare corpo al progetto politico del sionismo.


D’altra parte, tuttavia, non bisogna dimenticare che fu nel clima dell’affaire, a cavallo tra il 1897 e il 1898, che venne forgiato uno degli strumenti propagandistici più tristemente efficaci contro gli ebrei, che avrebbe assunto un peso rilevantissimo negli anni successivi. Si tratta del famoso libro, opera di scrittori antisemiti francesi e pagato dall’Okrana, i servizi segreti zaristi, che, apparso sotto il titolo di Protocolli dei savi di Sion, pretendeva di essere la raccolta degli appunti, ritrovati casualmente e pubblicati, di una riunione segreta di fantomatici Savi, capi dell’ebraismo mondiale, per presentare un piano di conquista del monda da parte degli stessi ebrei, o meglio delle élites ebraiche, grandi capitalisti, finanzieri, faccendieri, politici. Questo libro, che sarebbe divenuto uno dei testi prediletti da Hitler, era giocato su alcuni elementi che avrebbero trovato grande fortuna: il progetto ebraico di distruzione della civiltà cristiana e il complotto contro i sistemi politici ed economici della società moderna.


In definitiva, possiamo affermare che l’humus antisemita su cui si innestò il caso Dreyfus, connesso alla permanenza, anche dopo l’esaurirsi del medesimo affaire, di una cultura di destra violentemente antisemita, capace addirittura di penetrare nella grande letteratura, e sopravvissuta fino alla seconda guerra mondiale e al regime collaborazionista di Vichy, hanno portato qualche storico (Sternhell, 1997, p. 303) a valutare la Francia, e non la Germania, come la vera patria d’origine dell’ideologia che darà vita alla Shoah.

 

 

 

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[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]

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