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N. 14 - Febbraio 2009 (XLV)

L’AFFAIRE DREYFUS
Il dopo-processo e la lotta per la revisione - parte II

di Giuseppe Tramontana

 

Dopo il processo, dimenticato?

Subito dopo la deportazione, la moglie e il fratello di Dreyfus, Mathieu, con l’aiuto di uno scrittore ebreo, Bernard Lazare, si mobilitarono per cercare di riaprire il caso. Tuttavia, nazionalisti e socialisti erano concordi nel ritenere che Dreyfus avrebbe meritato la pena di morte e gli stessi ambienti israeliti non gradivano la riapertura di una vicenda che gettava ombre sulla loro onorabilità. Grande incertezza regnava nelle file del partito operaio. La linea di tendenza dominante era quella di considerare il caso come un conflitto interno alla borghesia.

 

Anche personalità indipendenti denunciarono l’eccessiva indulgenza del tribunale militare verso il capitano ebreo. Come ricorda Bruno Revel, “la condanna di Alfred Dreyfus era sembrata a molti troppo benigna, insufficiente per sanare il crimine. Il Ministro della Guerra ne approfittò per deporre un progetto di legge che ristabiliva la pena di morte per i reati di alto tradimento. Dall’altra parte, un deputato socialista, Jean Jaurès, se ne valse per far risaltare l’ingiustizia del codice penale militare. I militari di truppa colpevoli di aver alzato la mano su un superiore, forse in un momento di esasperazione, non sfuggivano alla pena di morte, mentre gli ufficiali, anche se convinti di aver tradito la patria, se la cavavano con una relegazione in un paesaggio esotico” (Revel, 1936, pp. 85-86).


Intanto nel luglio 1895, il tenente colonnello Georges Picquart subentrò al colonnello Sandherr, gravemente ammalato, a capo del servizio Informazioni dello Stato Maggiore.
Nel mese di marzo 1896, dovendo raggiungere in provincia la madre in pessime condizioni di salute, il maggiore Henry passò l’ultimo cornet ricevuto da Mme Bastian (che intanto aveva continuato nella sua attività di spionaggio dentro l’ambasciata tedesca) al colonnello Picquart senza averlo ancora aperto. Tra le molte carte di nessun significato, c’era, strappato in una trentina di pezzi, uno di quei ‘telegrammi di città’ che per il colore della carta i parigini chiamavano petit bleu. Il telegramma non aveva timbro postale, segno che era stato scritto ma non spedito. Incollati pazientemente i pezzi, si poté leggere il testo che diceva: “Aspetto una descrizione più dettagliata di quella che mi avete data… vi prego di fornirmela per iscritto per sapere se posso continuare le mie relazioni con la casa R. o no”. La cosa più notevole non era però il testo, ma l’indirizzo cui il petit bleu avrebbe dovuto essere inviato. L’indirizzo era: Monsieur le Commandant Esterhazy – 27, rue de la Bienfaisance – Paris.


Picquart non aveva mai sentito parlare di Esterhazy. Non sapeva nulla di lui, ma era chiaro che doveva trattarsi di un ufficiale che manteneva abituali rapporti con l’ambasciata tedesca. Fece fotografare il telegramma e poi prese informazioni su Esterhazy. Risultò che si trattava di un ufficiale nato a Parigi nel 1847, discendente alla lontana dall’illustre casata ungherese protettrice di artisti e musicisti come Haydn. Secondo una leggenda, che l’interessato alimentava ad arte, la famiglia di Esterhazy discendeva addirittura da Attila, il flagello di Dio. In verità, per quanto storicamente accertato, gli Esterhzy, una delle famiglie più potenti di Ungheria, imparentata con gli Imperatori d’Austria, risalivano agli albori del XII secolo. Ciò nonostante, (e benché si fosse attribuito arbitrariamente -come era nello stile dell’uomo- il titolo nobiliare di conte) di sangue ungherese ed esterhaziano nelle vene del maggiore francese ce n’era solo un sedicesimo.

 

E si dimenticava regolarmente di premettere al nobile nome di Esterhazy quello più plebeo di Walsin (o Valsin), che con una sentenza di tribunale, su ricorso del ramo principale degli Esterhazy ungheresi, aveva imposto al ramo francese. Peraltro, nel 1898, gli ungheresi, tirati in ballo dalla stampa internazionale, ripartirono alla carica ed ottennero nuovamente che il francese non solo anteponesse al nome della casata anche quello di Walsin, ma che deponesse anche il titolo di conte (Rizzoni, 1973, p. 131 e ss). Eppure figlio di un generale di Napoleone III lo era davvero e, del padre, aveva voluto ripercorrere le tappe, intraprendendo la carriera militare sebbene senza alcuna vocazione. A quasi 50 anni, era solo maggiore di fanteria, sempre in congedo per malattia (era tisico). Giocatore sfrenato e pieno di debiti. Aveva abbandonato la famiglia e viveva con una donna di facili costumi, Marie Pays, in arte “Marguerite”, ma chiamata anche fille Pays.


Picquart, il 5 agosto, scavalcando il suo immediato superiore, Gonse, comunicò al generale de Boisdeffre la scoperta di un’altra spia (perché di questo era convinto inizialmente). Ricevette l’ordine di approfondire le indagini.


Da tempo Esterhazy chiedeva di essere trasferito al ministero della Guerra: c’era un dossier con le sue richieste, scritte di suo pugno, oltre le varie lettere di raccomandazioni di deputati e militari. Picquart lo prese in mano e si accorse che la scrittura era uguale a quella del bordereau. Per scrupolo sottopose le lettere di Esterhazy a Bertillon, senza rivelargliene l’autore. Bertillon non ebbe dubbi: erano di Dreyfus! O meglio, erano dello stesso autore del bordereau!


Ma Bertillon non si fece convincere: Dreyfus restava il traditore. Al massimo quelle nuove lettere erano opera degli ebrei, che avevano creato un “uomo di paglia” per soccorrere Dreyfus.


Picquart decise allora di esaminare il famoso dossier segreto che aveva fatto condannare il capitano. Comprese così l’inconsistenza delle prove in base alle quali Dreyfus era stato spedito all’Isola del Diavolo. Inviò così un rapporto riservatissimo ai comandi superiori in cui osservava che il bordereau non fosse stato scritto da Dreyfus, ma da Esterhazy.


De Boisdeffre, irritato per la scoperta di Picquart, affidò la questione a Gonse, il suo vice, fatto rientrare in tutta fretta dalle vacanze. Gonse incontrò Picquart, ma di fronte alle tesi convincenti di quest’ultimo, ribadì a chiare lettere che la sentenza di condanna in danno di Dreyfus non poteva essere messa in discussione.


Val la pena sottolineare – come fa Revel – che “anche il colonnello Picquart, ottimo ufficiale e patriota zelante, come tutti gli alsaziani, era un tantino antisemita. Lo spirito di casta gli faceva considerare con sospetto le amministrazioni civili, dove gli ebrei erano influenti e potenti; né vedeva di buon occhio l’ingresso di molti di loro nelle stesse file dell’esercito”(Revel, 1936, p. 121). Tuttavia, Dreyfus appariva innocente. Un innocente – Picquart ne era convinto - che stava scontando una pena per un reato non commesso.


Il 3 settembre 1896, Mathieu Dreyfus diffuse, attraverso due quotidiani inglesi – il Daily Chronicle e il South-Wales-Argus - londinese, la falsa notizia della fuga del fratello, per suscitare nuovamente l’attenzione della stampa sul caso. Nel giro di ventiquattro ore la notizia è smentita dal ministero delle Colonie. Ad ogni buon conto, venne dato l’ordine di inasprire la sorveglianza del detenuto. Il 14 dello stesso mese, intanto, il giornale L’Eclair affermava che Dreyfus era stato condannato sulla base di documenti segreti. Come ricorda Baumont, fu dopo la pubblicazione di questa notizia che i giornali nazionalisti indirizzarono la loro campagna contro il cosiddetto ‘Sindacato ebreo’ (coniandone anche il nome). Due giorni dopo, il 16, la moglie di Dreyfus indirizzava una petizione al Parlamento per chiede la revisione del processo. Per soli cinque voti il Parlamento respinge la richiesta avanzata dal deputato nazionalista Castelin. In quell’occasione il ministro Billot (che era succeduto a Mercier) proclamò che il caso Dreyfus era “cosa giudicata” e, pertanto, intoccabile: “Dreyfus è stato condannato giustamente e legalmente” proclamò.


Intanto gli eventi non si arrestavano. Il 6 novembre, Bernard Lazare, brillante giovane avvocato ebreo, che lavorava d’accordo con la moglie ed il fratello del prigioniero, inviava da Bruxelles a circa duemila tra politici, giornalisti, intellettuali e uomini di cultura un libretto dall’eloquente titolo “Une erreur judiciaire. La verité sur l’Affaire Dreyfus”, nel quale sosteneva che il capitano era innocente ed era stato condannato in base a delle prove illegali, chiedendo la revisione del processo. A tal proposito, Maurice Baumont rileva che persino il kaiser Guglielmo II avesse annotato, ai margini di un rapporto trasmessogli dall’ambasciatore a Parigi Munster, la seguente frase: “era ed è sempre la mia idea!” (Baumont, 1959, p. 145).


Il 10 novembre, finalmente, il fac-simile del famoso bordereau di cui tutti avevano sentito parlare, veniva pubblicato da due quotidiani, “Le Matin” ed il solito “L’Eclair”. Assieme al documento incriminato, vennero pubblicati anche alcuni documenti del dossier segreto. Si pensava di chiudere il caso, eliminando qualsiasi dubbio sulla colpevolezza del capitano. Ma queste rivelazioni produssero in realtà l’effetto opposto, giacché risultava evidente la differenza di calligrafia con quella di Dreyfus. Alcuni intellettuali presero le sue difese: il filosofo Lucien Herr, gli storici Albert Mathez, Paul Mantoux e Leon Blum, i sociologi Lévy-Bruhl e Durkheim, il politologo Georges Sorel, l’economista Georges Simiand, gli scrittori Charles Peguy, Marcel Proust, Anatole France, André Gide, l’attrice Sarh Bernardt, i pittori Monet, Pissarro, Toulouse-Lautrec, Signac… Questo folto schieramento farà da contraltare a quello antidreyfusardo, capeggiato da Rochefort, Drumont, dal pittore Degas, da Charles Maurras, dagli ambienti antisemiti sia della destra politica che clericale. La prima aveva la sua cassa di risonanza nei già citati quotidiani L’intransigeant e La libre parole, mentre i secondi si appoggiavano soprattutto alla rivista cattolica reazionaria “La Croix”.


Qualche giorno dopo, il 16, il generale de Boisdeffre allontanò da Parigi Picquart, per una missione nelle regioni dell’est. Il 22 ricevette un ulteriore ordine di Gonse: doveva proseguire l’ispezione, “senza tornare a Parigi”, nella zona delle Alpi. Non passarono sei settimane (tanto era il tempo previsto) che ricevette un altro ordine per recarsi a riorganizzare il Servizio Informazioni in Algeria e in Tunisia, in territori, quindi, infestati da tribù ribelli.


Nel giugno del 1897, Picquart in congedo a Parigi, dopo che una caduta da cavallo, avvenuta un paio di mesi prima, lo aveva fatto riflettere sul fatto che se fosse morto, si sarebbe portato quanto sapeva sul caso Dreyfus nella tomba, rivelò all’amico e avvocato Louis Leblois i suoi sospetti su Esterhazy.


Leblois era sindaco del VII Arrondissement di Parigi, Sindaco era Charles Risle, nipote dell’anziano vice presidente del Senato Scheurer-Kestner. Il 13 luglio dello stesso anno, ritornando in battello, come ricorda Revel (Revel, 1936, p. 117), da un pranzo di alsaziani indetto per erigere un monumento a Gambetta, Leblois, con l’aiuto di Risle, avvicinò il vice presidente del Senato. L’avvocato gli rivelò quanto aveva appreso da Picquart. Scheurer-Kestner rimase sconvolto. Leblois gli fece promettere di non tirare mai in ballo il nome di Picquart.


La sera stessa, Scheurer-Kestner annotò nel suo diario:
“Difficoltà della situazione: Picquard (sbagliando l’ortografia) deve restare nell’ombra. Il ministro ha difeso la condanna di Dreyfus nel novembre 1896 pur sapendolo innocente.
Rapporti tra Weil e Saussier. Dicendo un a sola parola. Picquard è scoperto, perché il gen. Gonse indovinerebbe la fonte dell’indiscrezione… Il maggiore Henry sa tutto…" (Rizzoni, 1973, p. 54).

Fedele alla parola data, il vice presidente del Senato si limitò a far sapere alla famiglia Dreyfus che aveva raggiunto la convinzione dell’innocenza del loro congiunto. Poi fece diffondere la stessa voce tra i suoi amici. Il 19 luglio, tornò in Alsazia per le vacanze. E qui, il 2 settembre, lo raggiunse, per ordine del ministro Billot, il maggiore Bertin-Mourut, con l’incarico di sondare l’anziano senatore per scoprire quel che sapeva. Scheurer-Kestner ribadì le sue convinzioni, ma non fece di più.


Il 16 ottobre, a Parigi, i capi militari in imbarazzo, si riunirono per mettere a punto una strategia. Erano presenti Gonse, Henry (che nel frattempo aveva preso il posto di Picquart a capo dell’Ufficio Statistica), il suo vice Lauth e du Paty, che invece non era dell’Ufficio Statistica, ma partecipava per “motivi di servizio”. Bisognava fermare qualsiasi tentativo di revisione del processo e salvare Esterhazy, la “testa di turco” su cui gli ebrei volevano far ricadere le colpe di Dreyfus! Nella riunione vennero prese tre decisioni. Per prima cosa, bisognava ‘rafforzare’ il dossier Dreyfus. In secondo luogo, era necessario screditare Picquart e le sue prove contro Esterhazy. Infine, era opportuno avvertire lo stesso Esterhazy della minaccia che grava sulla sua testa.


In merito al primo punto, si fece avanti Henry, il quale si mise all’opera per riutilizzare tutto quello che c’era a disposizione nell’Ufficio Statistica. I vecchi e i nuovi documenti vennero adattati a Dreyfus. A una lettera scoperta dopo la partenza del condannato per l’Isola del Diavolo, Henry tagliò la data e la sostituì con una data falsa, anteriore di circa sei mesi. Su un’altra lettera, figurava una lettera P… Una cancellatina e diventò una D.. Ritornò a galla anche la notizia, sparsa ad arte nei primi giorni dell’arresto di Dreyfus, in meirto ad una sua confessione. Venne convocato il capitano Lebrun-Renaud – ormai a riposo, ma che aveva assistito agli interrogatori – per convincerlo a firmare un documento gravemente compromettente per Dreyfus.


Sul secondo punto, il solito Henry cancellò l’indirizzo del petit bleu e poi lo riscrisse identico, per poter poi sostenere che era un falso costruito ad hoc da Picquart (in realtà, Henry ignorava che esisteva una fotografia del documento, scattata da Picquart in via precauzionale), magari in collusione con il Sindacato.


Per attuare il terzo punto, i militari si sbizzarrirono. Esterhazy, contattato prima per via epistolare e poi personalmente da esponenti dell’ambiente militare, si incontrò al parco di Montsouris, intorno alle venti, con due personaggi. Gli incontri proseguirono anche in altri giorni. In uno di questi, parteciparono un uomo, vestito pesantemente, con mantello e occhialoni verdi, e in un altro una non meglio specificata “dama velata”. L’uomo dagli occhialoni verdi, che era du Paty, consigliò al capitano di rivolgere un appello al Presidente della Repubblica Faure affinché difendesse la sua (di Esterhazy, s’intende) onorabilità. Suggerì pure di inserire nell’appello la decisione che, se non fosse stato ascoltato, si sarebbe rivolto all’imperatore di Germania, il quale in qualità “di capo del suo blasone era signore feudale della famiglia Esterhazy” (Coen, 1994, p. 54). In un altro incontro – quello della “dama velata” – costei gli avrebbe passato un documento di importanza inimmaginabile – sottratto a Picqaurt - che, pur dimostrando inconfutabilmente la colpevolezza di Dreyfus, non poteva essere mostrato senza il rischi di scatenare una guerra. La prima lettera Esterhazy la inviò il 29 ottobre, la seconda (quella della “dama velata”) il 31. Entrambe, pare fossero state dettate da Du Paty.


Intanto, convinto dell’innocenza di Dreyfus, Scheurer-Kestner iniziò il suo giro in cerca di appoggi. Visitò, dapprima (il 29 ottobre) il Presidente della Repubblica Faure, poi si recò dal Presidente del Consiglio Mèline (che aveva preso il posto di Léon Bourgeois il 30 aprile di quello stesso anno), il Ministro della Guerra generale Billot, il ministro della Giustizia… Egli – come sottolinea Revel – cercava di infondere “loro la sua stessa fervida convinzione, e scongiurandoli di prendere in mano l’iniziativa della revisione, la causa della giustizia. Ma le sue insistenti e appassionate invocazioni non incontrarono che una glaciale riservatezza.”(Revel, 1936, p. 144).

Mathieu contro tutti, i militari contro Alfred.

Il 16 novembre, Mathieu Dreyfus ruppe gli indugi. Su consiglio dell’avvocato Leblois, inviò una lettera aperta, indirizzata al Ministro della Guerra Billot e pubblicata sul quotidiano Temps. Nella lettera scriveva che suo fratello era stato condannato sulla base del solo bordereau. Tuttavia, aggiungeva, esso non era opera del capitano Dreyfus, ma “era stato scritto dal maggiore di fanteria conte Walsin-Esterhazy”. “La calligrafia del maggiore Esterhazy – proseguiva - è identica a quella del documento incriminato… Non dubito, signor Ministro, che ella vorrà fare pronta giustizia”.


La lettera provocò un vero terremoto. Il nome di Esterhazy divenne di dominio pubblico ed i cronisti di tutti i giornali scatenarono una bagarre nel tentativo di contattarlo. Ma, lì per lì, non venne trovato da nessuna parte: né a Donmartin, dove viveva la moglie, né a Parigi, dove viveva l’amante. Era fuggito? Allora, era vero, il colpevole era lui? Il mistero durò solo qualche ora poiché lo stesso giorno il maggiore aveva recapitato all’agenzia Havas la copia di una lettera da lui indirizzata al ministro della Guerra Billot che i giornali pubblicarono il giorno seguente: “Signor Ministro, leggo nei giornali del mattino l’infame accusa diretta contro di me. Le chiedo di fare una inchiesta e sono pronto a rispondere a tutte le accuse – Esterhazy”.


I capi militari decisero che si doveva condurre un’inchiesta. Gli eventi sembravano ormai incontrollabili. Fu incaricato il generale Gabriel de Pellieux, già convinto in partenza dell’innocenza di Esterhazy e della colpevolezza di Dreyfus.


Pellieux cominciò la sua istruttoria convocando Scheurer- Kestner, Mathieu Dreyfus e l’avvocato Leblois. “Con modi moto cortesi – scrive Coen – insinuò che forse Dreyfus, per procurarsi un eventuale alibi, aveva imitato la calligrafia di Esterhazy; che il famoso telegramma di città – il petit bleu no spedito – in calce al quale era stato trovato l’indirizzo di Esterhazy, di per sé non significava moto e poteva anche non essere autentico.” (Coen, 1994,. P. 51). Al contrario, Pellieux, fiutando la presenza di Picquart dietro quelle prove fatte lumeggiare dai tre, insistette per sapere in che modo fossero arrivati a conoscere tanti particolari riservati dello Stato Maggiore. Concluse l’indagine, infatti, considerando fuori causa Esterhazy, giacché il petit bleu con il suo nome e indirizzo non costituiva prova e si dichiarava, viceversa, convinto che Picquart, sicura fonte di quelle rivelazioni, “fosse agente dei difensori di Dreyfus”, proponendone in tal modo la traduzione “davanti ad un consiglio di disciplina per esservi interrogato in condizioni di assoluto segreto”.


Subito dopo l’appartamento di Picquart veniva forzato e perquisito, mentre il giornale “La Libre parole” accusava un non meglio definito colonnello, citato con le lettere X. Y., di avere falsificato il petit bleu, mandante il Sindacato “giudaico-protestante di cui certamente il colonnello faceva parte”.


Nonostante le delusioni, però, il caso arriva davanti alle Camere. Il 5 dicembre, alla Camera dei deputati, il Primo Ministro Mèline, nel rispondere a due interpellanze dei deputati conte di Mun, cattolico, e Marcel Sembat, socialista, dichiarava solennemente che “non esiste alcun affaire Dreyfus”. Di seguito, le Camere approvarono un ordine del giorno che: “afferma l’autorità della cosa giudicata, s’associa all’omaggio reso all’esercito dal ministro della Guerra, approva le dichiarazioni del governo e denuncia gli istigatori della campagna atroce intrapresa per turbare la coscienza pubblica”(Revel, 1936, p. 182). L’ordine del giorno venne approvato con 308 voti contro 62. Tre giorni dopo, al Senato, toccò all’anziano vice Presidente Scheurer- Kestner salire in tribuna per l’ultima volta. Ancora Picquart non l’aveva sciolta dall’impegno di non rivelare le sue fonti, per cui l’intervento del vice Presidente dovette fare a meno della freccia più affilata presente nella sua faretra. Ciò nonostante, insistette per convincere i presenti dell’innocenza di Dreyfus e del fatto che l’onore di un esercito si tutela, non perseverando negli errori commessi, ma riparando e ripristinando la giustizia. Ma l’aula non volle udire. Così anche al Senato venne approvata la mozione di Mèline.


La piazza, nel frattempo, rumoreggiava, tumultuava, osannava il suo esercito di eroi. I francesi avevano ritrovato la fede nei suoi capi militari, nei suoi uomini decorati di stellette e medaglie che – adesso si poteva rivendicare a voce alta – avevano portato alla Francia un immenso impero coloniale.


La repubblica, con la sua esigenza di democratizzazione delle istituzioni, aveva per un momento oscurato l’immagine dell’esercito francese, ma grazie allo smascheramento dei traditori ed al senso di responsabilità ed all’acume delle alte gerarchie militari il Paese poteva dormire sonni tranquilli.


In questo clima si aprì, il 10 gennaio 1898, il processo a Esterhazy. Come ricorda Nicolas Halasz, “la stampa pubblicò in anticipo che Esterhazy sarebbe stato posto sotto custodia per un giorno in conformità al regolamento, che i preliminari si sarebbero svolti alla presenza del pubblico, ma che la testimonianza di Picquart e degli altri militari sarebbe stata resa a porte chiuse per proteggere i ‘segreti militari’, e che alla fine del processo Picquart sarebbe stato arrestato” (Halasz, 1974, pp. 134-135).


Il luogo del processo era il medesimo di quello di Dreyfus: la vecchia corte militare di rue Cherche-Midi, accanto alla prigione militare. I giudici erano tutti militari. Esterhazy parò con fare calmo, educato, ponderando le parole. Fu molto cavalleresco nei confronti della misteriosa “dama velata”: non ne rivelò il nome. E nemmeno del documento che la donna gli aveva passato se ne seppe il contenuto specifico.


Mathieu Dreyfus venne criticato dall’avvocato difensore per aver messo in giro il bordereau. Era chiaramente il preludio dell’attacco a Picquart. Venne interrogato anche il padrone di casa dell’amante di Esterhazy che tracciò un quadro non entusiasmante dell’ufficiale.


L’11 gennaio la corte si riunì per deliberare. La camera di consiglio durò tre minuti. Il pubblico poi venne ammesso per assistere all’emissione del verdetto. Esterhazy veniva assolto con formula piena.


La folla accolse la notizia con scene di giubilo. “Era come se la Francia avesse ottenuto una vittoria su un campo di battaglia – scrive Halasz -. Ufficiali, giornalisti, donne e uomini, vecchi e giovani, corsero attorno a Esterhazy per stringerselo al petto con le lacrime agli occhi. Più di mille persone che non avevano potuto entrare in aula, si affollavano all’uscita. Quando Esterhazy infine incominciò ad aprirsi la strada in mezzo a loro, una voce gridò: ‘giù il cappello davanti al martire! Morte agli ebrei!’” (Halasz, 1974, p. 136).
L’assoluzione di Esterhazy scatenò manifestazioni di giubilo in tutta la città. Sembrava che si fosse svegliato il paese felice, come lo chiama Revel. Egli era l’eroe di una Francia invitta, orgogliosa delle sue tradizioni, delle sue radici cristiane e nazionaliste. Né importavano le cose che alcuni giornali pubblicavano a proposito del maggiore franco-magiaro. Vennero rese pubbliche alcune lettere inviate a Mme Boulancy, nelle quali apparivano frasi decisamente compromettenti per un ufficiale dell’esercito francese. Scriveva: “Non farei male neppure a un cane, ma lascerei uccidere tranquillamente centomila francesi con piacere.” Oppure: “I nostri capi, vigliacchi e ignoranti, finiranno ancora una volta col popolare le prigioni tedesche.” O ancora: “Se mi si dicesse che sarò ucciso domani, in veste di capitano degli ulani, sciabolando dei francesi, sarei perfettamente felice.” (per questo, venne soprannominato dai giornali “l’ulano”). O, infine: “In un rosso sole di battaglia, Parigi presa d’assalto e messa a sacco da centomila soldati ubriachi…”


Esterhazy era diventato un simbolo e, come dice Revel, “un simbolo resta un simbolo; e non conviene esaminare i simboli con metri umani e pettegoli” (Revel, 1936, p. 183).
Il mattino seguente, 12 gennaio, un gendarme si recò a casa di Picquart per arrestarlo. Venne rinchiuso nella fortezza di Mont Valérien.


Contemporaneamente, senza che lui ne sapesse i motivi, all’Isola del Diavolo venne dato un giro di vite alle condizioni di Dreyfus. Le guardie vennero portate a tredici più un comandante. Fu costruita una torre per scrutare il mare. Una mitragliatrice vi fu montata in cima. Dreyfus non riusciva a comprendere il perché di quelle nuove misure. Qualsiasi privilegio nella posta gli era stato negato. Da tre mesi non riceveva neanche una cartolina e le guardie obbedivano agli ordini di non rivolgergli la parola.

A partibus infidelis

Una svolta improvvisa, assolutamente inaspettata, per la destra, al corso degli avvenimenti fu causata dall’articolo-pamphlet di Emile Zola, titolato J’accuse.


Emile Zola era in quel momento uno degli scrittori più popolari di Francia e il più tradotto all’estero. Osannato dagli ammiratori e vituperato dai detrattori, i suoi libri erano sempre stati un grande successo. Thérèse Raquin, l’intero ciclo dei Rougon-Macquart, Nanà, Germinal, La debacle, L’assommoir, Le docteur Pascal, L’argent, La bete humaine. Non c’era casa borghese in Francia, Italia, Germania, Austria, Spagna, Inghilterra, Russia, in cui i suoi libro non facesero bella mostra di sé nelle biblioteche di famiglia.


Per molto tempo Zola sembrò non occuparsi del capitano Dreyfus. Fu un giovane scrittore, Marcel Prevost, che a poco più di trent’anni aveva ottenuto un travolgente successo con il romanzo Les demi-vierges, fermamente convinto dell’innocenza di Dreyfus, a metterlo in contatto con l’avvocato Leblois. A poco a poco si interessò della vicenda, sviscerandone gli aspetti più oscuri e inquietanti. Sembrava che in un primo tempo Zola stesse progettando un romanzo intorno all’affaire, ma poi giunse la notizia dell’assoluzione di Esterhazy e tutto cambiò.


Già il 25 novembre il quotidiano Le Figaro aveva ospitato un articolo pro-Dreyfus di Zola. Era stato l’ultimo articolo dreyfusardo pubblicato da quel giornale. Subito dopo la linea editoriale aveva subito una brusca virata in senso opposto e persino il corrispondente della cronaca giudiziaria, accusato di essere troppo dreyfusardo, era stato licenziato.


Un giornale combattivo ed effervescente, tuttavia, restava: L’Aurore di cui era caporedattore ‘il Tigre’ Georges Clemenceau. Anche Clemenceau era rimasto scosso dalle rivelazioni dell’affaire e, per lui grande antimilitarista, erano suonate come la chiamata alle armi contro le menzogne della destra, dei clericali e delle gerarchie militari.


Fu dunque a Clemenceau che Zola, il 12 gennaio 1898, consegnò le poche cartelle scritte – come rivelò tempo dopo la figlia – in un giorno e due notti. Il titolo era tutt’altro che penetrante, anzi appariva decisamente banale, fiacco, stereotipato: Lettera al signor Félix Faure, presidente della Repubblica. Clemenceau, col suo fiuto di giornalista di razza comprese che non poteva funzionare. Prese una grossa matita, lo cancellò e poi scrisse con grafia sicura: J’accuse. E con quel nuovo titolo sarebbe entrato nella storia.


“L’Aurore” del 13 gennaio vendette più di trecentomila copie.


J’accuse! cominciava chiamando in causa il presidente della Repubblica, Faure e poi veniva al punto: “Una corte marziale ha di recente, per ordini ricevuti, osato assolvere un Esterhazy: un sono schiaffo alla verità, alla giustizia! Ed è stato fatto; la Francia ne porta il marchio sul viso; la storia registrerà che sotto la sua amministrazione, presidente, un tale crimine sociale è stato commesso.”


Poi faceva voto di affermare tutta la verità sul caso in questione, investendone, con la sua responsabilità, il presidente medesimo: “La verità, per prima cosa, sul processo e sulla condanna di Dreyfus. Un pernicioso individuo ha arrangiato, studiato, messo insieme ogni cosa: il tenente colonnello du Paty de Clam, allora solo maggiore. E’ lui tutto l’affaire Dreyfus… Egli appare come il nebuloso, complicato spirito dominante, ispirato da romantici intrighi, che divora romanzi d’appendice e si eccita con documenti rubati, lettere anonime, strani appuntamenti, misteriose donne che giungono di notte per vendere devastanti testimonianze, segreti di stato. Fu lui a concepire l’idea di studiare l’uomo in una stanza interamente tappezzata di specchi… Io dichiaro semplicemente che il maggiore du Paty de Clam, designato come pubblico ministero, è il primo e più colpevole personaggio di questo spaventoso errore giudiziario.”


Dopo aver descritto in che modo il bordereau fosse giunto nell’ufficio del Deuxième Bureau ed aver sottolineato il fatto che dei quattordici punti dell’accusa, solo il bordereau era rimasto in piedi, si occupava del petit bleu e di Esterhazy: “Il colonnello Sandherr era morto e il tenente colonnello Picquart gli era succeduto come capo del servizio segreto. Fu nell’adempimento dei suoi doveri che quest’ultimo trovò un giorno un breve messaggio indirizzato al maggiore Esterhazy dagli agenti di una potenza straniera. Il suo dovere era di aprire un’inchiesta. E’ chiaro che egli non agì mai contro la volontà dei suoi superiori… Ma l’impulso fu straordinario, perché la condanna di Esterhazy fatalmente implicava la revisione del verdetto di Dreyfus e questo era ciò che soprattutto lo Stato Maggiore voleva evitare a ogni costo.


(…) Si osserva che il generale Billot, nuovo ministro della Guerra, non era per nulla compromesso nel vecchio affare; le sue mani erano pulite; egli avrebbe potuto stabilire la verità. Non osò; per paura senza dubbio dell’opinione pubblica, certamente anche per timore di abbandonare l’intero Stato Maggiore.


(…) Già da un anno il generale Billot, Boisdeffre e Gonse sanno che Dreyfus è innocente e tengono per loro questa tremenda cosa! E questi uomini dormono e hanno moglie e figli che amano!”


Poi passò all’affondo contro Esterhazy, ma soprattutto contro il collegio militare giudicante: “I testimoni mostrano che Esterhazy sulle prime diventa matto, deciso a suicidarsi o a fuggire. Poi, improvvisamente, si arrischia su un fronte pericoloso, diverte tutta Parigi con la violenza dei suoi gesti e dei suoi atteggiamenti.


(…) Ah, dobbiamo assistere all’infame spettacolo di uomini su cui gravano debiti e crimini che vengono proclamati al mondo intero innocenti e virtuosi, mentre l’anima stessa dell’onore, un uomo senza macchia, viene trascinato nel fango! Quando un paese, quando una civiltà è giunta a questo, non può che precipitare nella decadenza (…).


Come ci si sarebbe potuti aspettare che un consiglio di guerra disfacesse ciò che un precedente consiglio di guerra aveva fatto? (…)


Ora sappiamo (…) che chiedere la colpevolezza di Esterhazy avrebbe voluto dire proclamare l’innocenza di Dreyfus. Nulla avrebbe permesso loro di uscire dal cerchio magico.


Essi hanno pronunciato una sentenza ingiusta, un verdetto che speserà per sempre sui nostri consigli di guerra, e che d’ora in poi lascerà una macchia di sospetto su ogni decisione delle corti militari.


(…) Dreyfus non può ottenere giustizia se l’intero Stato Maggiore non viene messo sotto accusa (…) Quale pulizia il governo repubblicano deve compiere in questa casa di gesuiti, come lo stesso generale Billot l’ha chiamata… E a quali abominevoli misure si è fatto ricorso in questo affare di follia e di stupidità, che sanno di bassi mezzi polizieschi, di incubi sfrenati, di inquisizione spagnola: tutto per il piacere di pochi personaggi bardati in uniforme che schiacciano il loro tacco sulla nazione, che ricacciano in gola il grido che chiede verità e giustizia, sotto la menzognera apparenza della ‘ragion di stato’.”


Poi elogiava Scheurer-Kestner e Picquart ed infine muoveva le sue puntuali accuse: “Accuso il colonnello du Paty de Clam di essere stato il diabolico agente dell’errore giudiziario, incosciamente, preferisco credere, e di avere continuato a difendere il suo fatale operato durante gli ultimi tre anni con le più assurde e rivoltanti macchinazioni.
Accuso il generale Mercier di essersi reso complice di uno dei più grandi crimini della storia, probabilmente per pochezza di mente.


Accuso il generale Billot di avere avuto in mano la prova decisiva dell’innocenza di Dreyfus e di averla nascosta, al di fuori dei motivi politici e per salvare la faccia dello Stato Maggiore.


Accuso il generale Pellieux e il maggiore Ravary di avere compiuto una disonesta inchiesta, intendo un’inchiesta della più mostruosa parzialità, il completo resoconto della quale rappresenta per noi un monumento imperituro di ingenua sfrontatezza.


Accuso i tre periti grafologi, signori Belhomme, Varinard e Couard, di avere steso menzogneri e fraudolenti referti, a meno che un esame medico non accerti che sono deboli di vista e di giudizio.


Accuso il ministero della Guerra di avere condotto una vile campagna sulla stampa, specialmente sull’“Echo di Paris” e su “L’Eclair”, allo scopo di disorientare la pubblica opinione e di coprire i propri peccati.


Accuso, infine, il primo consiglio di guerra di avere violato tutti i diritti umani condannando un prigioniero sulla base di una testimonianza tenutagli nascosta, e accuso il secondo consiglio di guerra di avere coperto questa illegalità per ordini ricevuti, commettendo quindi il crimine giudiziario di assolvere un colpevole avendo piena conoscenza della sua colpevolezza.”


Zola affermava di rendersi perfettamente conto di commettere un reato muovendo queste accuse: “L’azione che io compio ora è semplicemente un passo rivoluzionario destinato ad affrettare l’esplosione della verità e della giustizia.


Io ho solo una passione, per la luce, in nome dell’umanità che tanto ha sopportato e che ha diritto alla felicità. La mia ardente protesta è solo il grido della mia anima. Che osino trascinarmi in tribunale e che ci sia un’inchiesta alla piena luce del giorno!”(Zola, 1995, pp. 55-56).


Trentamila lettere e telegrammi da ogni parte del mondo salutarono l’appello di Zola. Dimostravano l’immenso sollievo provato ovunque per il ritrovamento della ragione in Francia. L’Europa, all’infuori della Francia, sembrava credere quasi unanimemente all’innocenza di Dreyfus. “Il fatto che la Francia rimanesse chiusa alla verità – scrive Halasz – veniva attribuito al suo declino morale. Il pubblico inglese, scandinavo, olandese e tedesco aveva subito un mutamento di sentimenti a causa della decomposizione morale della Francia. La popolazione francese del Belgio e della Svizzera si disperava per l’eclissi della gloria francese. I giornali di paesi anche arretrati come la Russia e la Romania rimproveravano la Francia per il ritorno alla barbarie. I giornali russi giungevano fino al punto di chiedersi se la Francia aveva ancora il diritto di essere chiamata la nazione dell’Illuminismo.” (Halasz, 1974, p. 154).


Da un giorno all’altro l’America si appassionò al dramma di Dreyfus. Mark Twain dichiarò sul "New York Herald": “Sono pervaso dal più profondo rispetto per Zola e da una sconfinata ammirazione. Codardi, ipocriti e adulatori come i membri delle corti militari ed ecclesiastiche il mondo ne produce a milioni ogni anno. Ma ci vogliono cinque secoli per produrre una Giovanna d’Arco o uno Zola”.
Come sottolinea Pierre Miquel, già il 14 gennaio una campagna di petizioni consentì agli intellettuali di contarsi. Una petizione, indirizzata alla Camera dei deputati, recava le firme di numerosi intellettuali. Anche l’Institut Pasteur si schierò, così come la Sorbona e la Scuola Normale. Il testo della petizione, pubblicato da L’Aurore, il 14 gennaio, diceva: “I sottoscritti , protestando contro la violazione delle forme giuridiche e contro i misteri che hanno attorniato l’affaire Esterhazy, insistono nel chiedere la revisione”. Di seguito le firme degli amici di Bernard Lazare: Daniel Halevy, A. Rivoire, J. Bizet, Robert Dreyfus, Léon Parsons. Gregh, Elie Halevy, Marcel Proust fecero firmare Anatole France e… Zola. Dell’Institut Pasteur sottoscrissero de Monod, E. Duclaux – che così cambiò schieramento – Edouard Grimaux, Louis Havet, Charles Friedel, Arthur Gury, Paul Mayer, Charles Richet, Paul Viollet. Firme della Sorbona furono quelle di Séailles, Seignobos, Brunot, Lanson, Psichari. I normalisti furono Andler, Victor Bérard, Léon Blum, Péguy, Perrin, Langevin, Albert Thomas. Inoltre, lo storico Lucien Herr organizzò a Parigi dei veri incontri di propaganda per diffondere il dreyfusismo. Fu in questo contesto che Georges Clemenceau coniò il termine ‘intellettuali’ (Miquel, 1959, pp. 48-49). Firmò anche il giovane redattore del giornale “La Lanterne”: Aristide Briand.


Nei giorni del 17 e 18 gennaio, però la tensione sfociò nella tragedia. A Nantes, Bordeaux, Toulouse, Montpellier, Le Havre e Orléans, grandi folle saccheggiarono negozi degli ebrei, picchiando i proprietari, bruciarono pubblicamente l’articolo di Zola e impiccarono lo scrittore in effigie. La polizia era impotente a impedire che si spargesse il sangue e dovettero essere chiamati i militari. Ad Algeri il pogrom fece numerose vittime e coalizzò francesi e arabi contro gli ebrei. A Parigi venne chiamata la polizia per impedire che gruppi di studenti assaltasse e devastasse la casa di Zola: dovettero accontentarsi di lanci di pietre e slogans offensivi. Nelle università di Belgio, Svizzera e Italia furono approvate delibere in favore della presa di posizione di Zola per la giustizia. In Francia furono gli intellettuali a scendere in campo e aderirono ad un appello di sostegno allo scrittore.


Il 19 gennaio il giornale Le Siècle iniziò la pubblicazione delle Lettere di un innocente di Dreyfus.


Dal punto di vista dei militari, la lettera di Zola, pubblicata con tanto risonanza, non poteva non scuotere il loro ambiente. Mèline comprese che il processo a Zola per diffamazione non era rinviabile. Ma Mèline capì anche che se lo scritto di Zola fosse stato denunciato per il suo intero contenuto. Come nota Baumont, “scrivendo ‘J’accuse’, Zola sperava di poter rendere in giudizio la prova che la condanna di Dreyfus era stata illegale”. Allora, per evitare ciò, “l’impianto accusatorio contro di lui è estremamente limitato: egli è accusato solo per tre frasi di ‘J’accuse’, dirette contro il consiglio di guerra che ha assolto Esterhazy, - tre frasi prudentemente estrapolate per farne il campo ristretto di una discussione strozzata. Solo le argomentazioni concernenti il consiglio di guerra sono rilevati e cioè che esso: ha assolto ‘per ordine’, ha assolto ‘scientemente un colpevole’, ha reso ‘una sentenza iniqua’.”(Baumont, 1959, p. 184).


Al processo la consegna era pertanto di circoscrivere il dibattito e di non sfiorare lo sfondo del processo Dreyfus. Naturalmente, l’interesse di Zola era diametralmente opposto.
Il processo ebbe inizio il 7 febbraio e sarebbe durato fino al 23 dello stesso mese. L’accusa era rappresentata dal procuratore della Repubblica Van Cassel, la difesa dello scrittore affidata a Ferdinand Labori, un avvocato poco più che trentenne e già di grande fama. Era stato citato anche Perrenx, gerente de “L’Aurore”, la cui difesa era stata affidata ad Albert Clemenceau, eccezionalmente affiancato dal fratello Georges.
La giuria era composta da dodici persone estratte a sorte, fra cui un ortolano, un macellaio, un artigiano, vari merciai e uomini d’affari. Due o tre i professionisti e gli uomini di cultura.


La difesa di Zola, all’apertura subì una prima sconfitta: la richiesta di allargare il giudizio a tutte le esplicite accuse elencate dallo scrittore fu respinta.


Sfilarono intellettuali e docenti universitari come Anatole France, politici come Scheurer-Kestner, Jaurès, Ranc, tutti a favore di Zola. Le lettere di solidarietà fioccavano: ne avevano spediti Mirabeau, Gide, Monet, Proust, Bjorson, Verdi e tanti altri filosofi, scrittori, musicisti, pittori. Tolstoj aveva scritto a un giornale di Monaco: “Non ammiro Zola come scrittore: quindi posso ancora meglio esprimere la mia ammirazione per l’uomo” (Coen, 1994, p. 70).


I militari gremivano l’aula, gli antisemiti le piazze. Il generale de Pellieux più di una volta si era alzato per protestare contro le “infamie” che venivano pronunciate per “affossare l’esercito”.


Il giorno 17 febbraio il colpo di scena. De Pellieux chiese di parlare. Nel corso della deposizione ribadì che al ministero della Guerra si possedeva la prova sicura della colpevolezza di Dreyfus. E giurava di averla vista, quella prova. Si trattava di una “carta la cui origine è incontestabile… E’, sul retro di un biglietto da visita, un appuntamento poi concesso.” (Baumont, 1959, p. 185). Chiosava affermando che il generale de Boisdeffre avrebbe confermato la sua deposizione. A stretto giro, Labori chiese che venisse invitato a deporre de Boisdeffre. L’indomani de Boisdeffre confermò la deposizione di de Pellieux.


Picquart aveva sostenuto che quel documento era un falso. Ma il prestigio dei generali aveva avuto la meglio e qualche giornalista parlava espressamente di colpo di stato non dissimile da quello di Napoleone IIII.


Il 23 febbraio, la corte condanna Zola alla pena massima prevista per quel tipo di reato: un anno di carcere e tremila franchi di multa. Il tenente colonnello Picquart fu messo a riposo (dal 27 febbraio). L’avvocato Leblois venne esonerato dalle sue funzioni di vice sindaco e sospeso per sei mesi dalla professione. La persecuzione colpì tutti i revisionisti. Ma la punizione più grande venne dal Paese. Nelle elezioni del 18-22 maggio, i deputati dreyfusardi Jaurès e Reinach non furono rieletti, mentre Drumont (seppur in un collegio d’Algeria) venne eletto a furor di popolo.


Ma Zola ricorre in cassazione contro la sentenza: le persone diffamate che avevano diritto di sporgere denuncia erano i componenti i due Consigli di guerra, non il Ministro Billot. La Cassazione accolse il rilievo ed annullò. Immediatamente giunse la denuncia dei membri del Consiglio di guerra. Nonostante le proteste di Zola, il processo venne assegnato al tribunale di Versailles.


In vista del nuovo procedimento giudiziario, al ministero della Guerra ricominciò l’ennesima revisione del dossier Dreyfus, che venne appositamente rimpinguato con una serie di rapporti (veri e falsi) sulla pessima condotta del capitano ebreo; e con nuove accuse per atti di spionaggi anteriori al 1894. Venne inserito anche un telegramma cifrato inviato, il 2 novembre 1894, dall’addetto militare italiano Panizzardi al suo governo, che diceva: “Il capitano Dreyfus è stato arrestato. Il ministro della Guerra ha la prova delle sue relazioni con la Germania. Ho già adottato tutte le mie precauzioni”.
Si trattava ovviamente dell’ennesimo falso: il vero testo del telegramma, che figurava nel dossier del ministero degli esteri, dove era stato in origine decifrato, diceva: “Se il capitano Dreyfus non ha avuto relazioni con voi, converrebbe incaricare l’ambasciatore di pubblicare una smentita ufficiale, per evitare i commenti della stampa”.


In quegli stessi giorni, il 3 marzo, in una casa di rue de Sèvres, veniva rinvenuto il corpo di un certo Moise Leheman, alias Lemercier-Picard, noto falsario e ricattatore, al quale più volte Henry aveva fatto ricorso per esigenze di servizio. L’uomo si era impiccato. Apparentemente sembrava suicidio. E così concluse pure un’inchiesta della polizia. Ma come aveva fatto un uomo a impiccarsi alla maniglia della finestra, con i piedi che toccavano abbondantemente per terra? Oltretutto, Leheman non aveva lasciato alcuna lettera per spiegare il suo gesto. Il 7 dello stesso mese un giornale, La Fronde, scriveva: “L’uomo di rue de Sèvres non si è impiccato, è stato assassinato”.


Dopo le elezioni del maggio 1898, il governo Mèline venne sostituito dal governo del radicale Brisson. Ministro della Guerra venne designato il civile barone Godefroy de Cavaignac, repubblicano e acceso antirevisionista.


Cavaignac era deciso a fare piazza pulita, più che ad insabbiare.


Il 30 giugno il solito deputato nazionalista Castelin annunciò una interrogazione per il 7 luglio. Voleva sapere che cosa avesse intenzione di fare il nuovo governo per porre fine alle trame dei revisionisti. Cavaignac prese la palla al balzo. Si fece consegnare da Gonse tutto l’incartamento su Dreyfus e lo affidò, per una nuova disamina, al suo capo gabinetto Roget e al capitano Cuignet, nei aveva la massima fiducia.


Il 7 luglio comparve in aula. Iniziò la risposta puntualizzando subito che non ci sarebbe stata alcuna revisione. E Per porre fine, una volta per tutte, alle agitazioni revisionistiche, legge in piena Camera i documenti segreti ossia: il documento di Panizzardi che citava un certo D…. (quello che, sappiamo, originariamente portava una P., poi corretta da Henry); il documento quella canaglia di D… (intendendosi con tale D., non Dreyfus, ma il mediocre Debois); la presunta lettera di Panizzardi in cui Dreyfus era citato a tutte lettere (“Non rivelate le relazioni che abbiamo avuto con quell’ebreo”: altro falso operato da Henry). A proposito di questa prova, Cavaignac affermò solennemente: “Ho ponderato personalmente l’autenticità materiale e l’autenticità morale di questo documento!”; la “confessione” di Dreyfus a Lebrun-Renaud (Cavaignac aveva tirato nuovamente fuori questa storia e l’aveva suffragata con la dichiarazione “ispirata” del capitano).

La Camera applaudì il discorso e ne votò l’affissione in tutti i Comuni della Francia con 572 voti contro 2. Fra gli astenuti figurava anche l’ex presidente del Consiglio Mèline: sapeva troppe cose per potersi esporre così sconsideratamente.
Il 9 luglio, Picquart scrisse al presidente del Consiglio Brisson di essere in grado di provare davanti a qualsiasi giurisdizione che dei tre documenti citati alla Camera da Cavaignac, due non si potevano riferire a Dreyfus e il terzo aveva “tutti i caratteri del falso”.
Cavaignac andò su tutte le furie. E sporse denuncia contro Picquart per aver comunicato ad estranei documenti concernenti la sicurezza nazionale. Denunciò anche l’avvocato Leblois per complicità. In pieno Consiglio dei Ministri, poi, propose di adottare misure severissime e di far arrestare tutti gli “agitatori”: Zola, Clemenceau, Picquart, Mathieu Dreyfus, Jaurès, Labori, Lazare: complottavano contro la sicurezza dello Stato. A stento i suoi colleghi riuscirono a farlo ragionare.


Tuttavia, il 13 luglio Picquart venne arrestato e incarcerato alla Santé. Alla Santé si trovavano pure Esterhazy e la sua amante Mme Pays. Erano finiti lì per la faccenda dei due telegrammi minatori (firmati Speranza e Blanche) ricevuti proprio da Picquart in Tunisia. Picquart aveva sporto denuncia ed il giudice Bertulus era riuscito a risalire agli autori degli anonimi grazie all’aiuto di un cugino di Esterhazy, Christian, il quale era stato bellamente gabbato dal furbo parente. Infatti, spacciandosi per grande amico dei Rothschild, il capitano si era fatto consegnare una grossa somma di denaro affinché la investisse in Borsa. In realtà se ne era appropriato e l’aveva presto dilapidata. Nel tentativo di recuperare il denaro, Christian Esterhazy confessò che il cugino, Mme Pays e lui stesso erano stati gli autori degli anonimi.


Intanto il 18 luglio, il tribunale di Versailles confermava la condanna a Zola, il quale, la sera stessa, fuggiva per l’Inghilterra.


Il 10 agosto, Jean Jaurès, su La Petite République, iniziò la pubblicazione di una serie di articoli in cui smonta punto per punto i documenti presentati da Cavaignac alla Camera. Il ministro si infuriò nuovamente, tornando a chiedere l’arresto dei dreyfusardi. Per fermarlo, Brisson fu costretto a minacciare le dimissioni.


Il 12 agosto, la procura proscioglie Esterhazy e Mme Pays per la faccenda dei telegrammi spediti a Tunisi.


Cavaignac tirò un sospiro di sollievo, sembrava che tutto stesse andando per il meglio. Ma la calma non durò a lungo. Il giorno dopo, alle dieci di sera, il capitano Cuignet, uno dei suoi fidi, scoprì che la lettera in cui Dreyfus era citato per esteso era un falso: risultava scritta su due fogli di carta diversi, uno con le quadrettature in filigrana di colore viola, l’altro con le quadrettature grigio-blu. Le seconde leggermente più piccole delle prime.


Per una quindicina di giorni Cavaignac non rivelò la notizia, in attesa del rinvio a giudizio di Picquart, che avvenne il 25 dello stesso mese. Po, il 29 agosto, chiamò i generali de Boidefffre e Gonse e li informò di quanto scoperto. I militari sembravano cadere dalle nuvole, stupiti. Il giorno seguente i due generali tornarono con Henry, al quale, per ordine di Cavaignac, era stata tenuta nascosta la scoperta del falso. Dopo essersi difeso strenuamente e aver negato con tutte le sue forze, alla fine Henry crollò: ammise di aver falsificato i documenti per rassicurare i suoi superiori… “L’ho fatto nell’interesse del Paese” concluse. A quel punto il ministro ordinò l’arresto immediato di Henry. Venne prima portato, per una ventina di minuti, all’Ufficio Statistica, dove, pare, avesse delle cose in sospeso, poi tradotto al carcere di Mont Valerien.


Cavaignac, da parte sua, informò dell’accaduto Brisson, il quale voleva dimettersi. A fatica lo stesso ministro e Zurlinden, da poco governatore militare di Parigi al posto di Saussier, riuscirono a fargli cambiare idea.


L’indomani il corpo senza vita di Henry venne rinvenuto nella sua cella, con al gola squarciata da due o tre rasoiate. Suicidio, apparentemente. Certo, qualche dubbio rimaneva: come aveva fatto a suicidarsi con due o tre rasoiate? E perché gli avevano lasciato il rasoio in cella? Il biglietto che aveva scritto alla moglie lasciata intendere che aveva compiuto quel gesto per coprire qualcuno: chi? E poi c’era quell’altro suicidio strano di Moises Leheman, alias Lemercier-Picard. C’era una relazione tra i due? E perché l’esercito si oppose all’autopsia?


Come rammenta Pierre Miquel, “la stampa antidreyfusarda non aveva impiegato molto tempo a riprendersi. Judet e Maurras (…) lanciavano insieme l’idea del ‘falso patriottico’. Quello che era stato fabbricato da Henry per rimpiazzare un documento che non si poteva produrre senza rischiare”. In questa ipotesi, Henry aveva agito naturalmente dietro istigazione dei suoi capi e per il bene della patria. “Già – scrive Miquel – si metteva a punto la tesi che sarebbe servita a difendere il clan nazionalista al processo di Rennes: il generale Mercier era in possesso di un documento compromettente per l’Imperatore di Germania. Non poteva essere reso pubblico. Se lo fosse stato, sarebbe stata guerra. Ragionamento che sembrava assurdo. Era vero, d’altra parte, che in un recente passato si era giunti alla guerra per molto meno. In più, il Kaiser era famoso per le sue stravaganze” (Miquel, 1959, p. 78).


Ormai, gli eventi acceleravano e Esterhazy pensò bene di tagliare la corda. Il 1 settembre, sotto il falso nome di Bécourt, attraversò la frontiera col Belgio. Da avrebbe raggiunto l’Olanda e, infine, in Inghilterra. Ma ormai tutto era cambiato, la revisione del processo si imponeva.

 

 

 

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