N. 14 - Febbraio 2009
(XLV)
L’AFFAIRE
DREYFUS
Il dopo-processo
e la lotta per la
revisione - parte II
di Giuseppe
Tramontana
Dopo il processo,
dimenticato?
Subito dopo la deportazione, la moglie e il fratello di
Dreyfus, Mathieu, con l’aiuto di uno scrittore ebreo,
Bernard Lazare, si mobilitarono per cercare di riaprire
il caso. Tuttavia, nazionalisti e socialisti erano
concordi nel ritenere che Dreyfus avrebbe meritato la
pena di morte e gli stessi ambienti israeliti non
gradivano la riapertura di una vicenda che gettava ombre
sulla loro onorabilità. Grande incertezza regnava nelle
file del partito operaio. La linea di tendenza dominante
era quella di considerare il caso come un conflitto
interno alla borghesia.
Anche personalità
indipendenti denunciarono l’eccessiva indulgenza del
tribunale militare verso il capitano ebreo. Come ricorda
Bruno Revel, “la condanna di Alfred Dreyfus era sembrata
a molti troppo benigna, insufficiente per sanare il
crimine. Il Ministro della Guerra ne approfittò per
deporre un progetto di legge che ristabiliva la pena di
morte per i reati di alto tradimento. Dall’altra parte,
un deputato socialista, Jean Jaurès, se ne valse per far
risaltare l’ingiustizia del codice penale militare. I
militari di truppa colpevoli di aver alzato la mano su
un superiore, forse in un momento di esasperazione, non
sfuggivano alla pena di morte, mentre gli ufficiali,
anche se convinti di aver tradito la patria, se la
cavavano con una relegazione in un paesaggio esotico” (Revel,
1936, pp. 85-86).
Intanto nel luglio 1895, il tenente colonnello Georges
Picquart subentrò al colonnello Sandherr, gravemente
ammalato, a capo del servizio Informazioni dello Stato
Maggiore.
Nel mese di marzo 1896, dovendo raggiungere in provincia
la madre in pessime condizioni di salute, il maggiore
Henry passò l’ultimo cornet ricevuto da Mme Bastian (che
intanto aveva continuato nella sua attività di
spionaggio dentro l’ambasciata tedesca) al colonnello
Picquart senza averlo ancora aperto. Tra le molte carte
di nessun significato, c’era, strappato in una trentina
di pezzi, uno di quei ‘telegrammi di città’ che per il
colore della carta i parigini chiamavano petit bleu. Il
telegramma non aveva timbro postale, segno che era stato
scritto ma non spedito. Incollati pazientemente i pezzi,
si poté leggere il testo che diceva: “Aspetto una
descrizione più dettagliata di quella che mi avete data…
vi prego di fornirmela per iscritto per sapere se posso
continuare le mie relazioni con la casa R. o no”. La
cosa più notevole non era però il testo, ma l’indirizzo
cui il petit bleu avrebbe dovuto essere inviato.
L’indirizzo era: Monsieur le Commandant Esterhazy – 27,
rue de la Bienfaisance – Paris.
Picquart non aveva mai sentito parlare di Esterhazy. Non
sapeva nulla di lui, ma era chiaro che doveva trattarsi
di un ufficiale che manteneva abituali rapporti con
l’ambasciata tedesca. Fece fotografare il telegramma e
poi prese informazioni su Esterhazy. Risultò che si
trattava di un ufficiale nato a Parigi nel 1847,
discendente alla lontana dall’illustre casata ungherese
protettrice di artisti e musicisti come Haydn. Secondo
una leggenda, che l’interessato alimentava ad arte, la
famiglia di Esterhazy discendeva addirittura da Attila,
il flagello di Dio. In verità, per quanto storicamente
accertato, gli Esterhzy, una delle famiglie più potenti
di Ungheria, imparentata con gli Imperatori d’Austria,
risalivano agli albori del XII secolo. Ciò nonostante,
(e benché si fosse attribuito arbitrariamente -come era
nello stile dell’uomo- il titolo nobiliare di conte) di
sangue ungherese ed esterhaziano nelle vene del maggiore
francese ce n’era solo un sedicesimo.
E si dimenticava
regolarmente di premettere al nobile nome di Esterhazy
quello più plebeo di Walsin (o Valsin), che con una
sentenza di tribunale, su ricorso del ramo principale
degli Esterhazy ungheresi, aveva imposto al ramo
francese. Peraltro, nel 1898, gli ungheresi, tirati in
ballo dalla stampa internazionale, ripartirono alla
carica ed ottennero nuovamente che il francese non solo
anteponesse al nome della casata anche quello di Walsin,
ma che deponesse anche il titolo di conte (Rizzoni,
1973, p. 131 e ss). Eppure figlio di un generale di
Napoleone III lo era davvero e, del padre, aveva voluto
ripercorrere le tappe, intraprendendo la carriera
militare sebbene senza alcuna vocazione. A quasi 50
anni, era solo maggiore di fanteria, sempre in congedo
per malattia (era tisico). Giocatore sfrenato e pieno di
debiti. Aveva abbandonato la famiglia e viveva con una
donna di facili costumi, Marie Pays, in arte “Marguerite”,
ma chiamata anche fille Pays.
Picquart, il 5 agosto, scavalcando il suo immediato
superiore, Gonse, comunicò al generale de Boisdeffre la
scoperta di un’altra spia (perché di questo era convinto
inizialmente). Ricevette l’ordine di approfondire le
indagini.
Da tempo Esterhazy chiedeva di essere trasferito al
ministero della Guerra: c’era un dossier con le sue
richieste, scritte di suo pugno, oltre le varie lettere
di raccomandazioni di deputati e militari. Picquart lo
prese in mano e si accorse che la scrittura era uguale a
quella del bordereau. Per scrupolo sottopose le lettere
di Esterhazy a Bertillon, senza rivelargliene l’autore.
Bertillon non ebbe dubbi: erano di Dreyfus! O meglio,
erano dello stesso autore del bordereau!
Ma Bertillon non si fece convincere: Dreyfus restava il
traditore. Al massimo quelle nuove lettere erano opera
degli ebrei, che avevano creato un “uomo di paglia” per
soccorrere Dreyfus.
Picquart decise allora di esaminare il famoso dossier
segreto che aveva fatto condannare il capitano. Comprese
così l’inconsistenza delle prove in base alle quali
Dreyfus era stato spedito all’Isola del Diavolo. Inviò
così un rapporto riservatissimo ai comandi superiori in
cui osservava che il bordereau non fosse stato scritto
da Dreyfus, ma da Esterhazy.
De Boisdeffre, irritato per la scoperta di Picquart,
affidò la questione a Gonse, il suo vice, fatto
rientrare in tutta fretta dalle vacanze. Gonse incontrò
Picquart, ma di fronte alle tesi convincenti di
quest’ultimo, ribadì a chiare lettere che la sentenza di
condanna in danno di Dreyfus non poteva essere messa in
discussione.
Val la pena sottolineare – come fa Revel – che “anche il
colonnello Picquart, ottimo ufficiale e patriota
zelante, come tutti gli alsaziani, era un tantino
antisemita. Lo spirito di casta gli faceva considerare
con sospetto le amministrazioni civili, dove gli ebrei
erano influenti e potenti; né vedeva di buon occhio
l’ingresso di molti di loro nelle stesse file
dell’esercito”(Revel, 1936, p. 121). Tuttavia, Dreyfus
appariva innocente. Un innocente – Picquart ne era
convinto - che stava scontando una pena per un reato non
commesso.
Il 3 settembre 1896, Mathieu Dreyfus diffuse, attraverso
due quotidiani inglesi – il Daily Chronicle e il
South-Wales-Argus - londinese, la falsa notizia della
fuga del fratello, per suscitare nuovamente l’attenzione
della stampa sul caso. Nel giro di ventiquattro ore la
notizia è smentita dal ministero delle Colonie. Ad ogni
buon conto, venne dato l’ordine di inasprire la
sorveglianza del detenuto. Il 14 dello stesso mese,
intanto, il giornale L’Eclair affermava che Dreyfus era
stato condannato sulla base di documenti segreti. Come
ricorda Baumont, fu dopo la pubblicazione di questa
notizia che i giornali nazionalisti indirizzarono la
loro campagna contro il cosiddetto ‘Sindacato ebreo’
(coniandone anche il nome). Due giorni dopo, il 16, la
moglie di Dreyfus indirizzava una petizione al
Parlamento per chiede la revisione del processo. Per
soli cinque voti il Parlamento respinge la richiesta
avanzata dal deputato nazionalista Castelin. In quell’occasione
il ministro Billot (che era succeduto a Mercier)
proclamò che il caso Dreyfus era “cosa giudicata” e,
pertanto, intoccabile: “Dreyfus è stato condannato
giustamente e legalmente” proclamò.
Intanto gli eventi non si arrestavano. Il 6 novembre,
Bernard Lazare, brillante giovane avvocato ebreo, che
lavorava d’accordo con la moglie ed il fratello del
prigioniero, inviava da Bruxelles a circa duemila tra
politici, giornalisti, intellettuali e uomini di cultura
un libretto dall’eloquente titolo “Une erreur judiciaire.
La verité sur l’Affaire Dreyfus”, nel quale sosteneva
che il capitano era innocente ed era stato condannato in
base a delle prove illegali, chiedendo la revisione del
processo. A tal proposito, Maurice Baumont rileva che
persino il kaiser Guglielmo II avesse annotato, ai
margini di un rapporto trasmessogli dall’ambasciatore a
Parigi Munster, la seguente frase: “era ed è sempre la
mia idea!” (Baumont, 1959, p. 145).
Il 10 novembre, finalmente, il fac-simile del famoso
bordereau di cui tutti avevano sentito parlare, veniva
pubblicato da due quotidiani, “Le Matin” ed il solito
“L’Eclair”. Assieme al documento incriminato, vennero
pubblicati anche alcuni documenti del dossier segreto.
Si pensava di chiudere il caso, eliminando qualsiasi
dubbio sulla colpevolezza del capitano. Ma queste
rivelazioni produssero in realtà l’effetto opposto,
giacché risultava evidente la differenza di calligrafia
con quella di Dreyfus. Alcuni intellettuali presero le
sue difese: il filosofo Lucien Herr, gli storici Albert
Mathez, Paul Mantoux e Leon Blum, i sociologi Lévy-Bruhl
e Durkheim, il politologo Georges Sorel, l’economista
Georges Simiand, gli scrittori Charles Peguy, Marcel
Proust, Anatole France, André Gide, l’attrice Sarh
Bernardt, i pittori Monet, Pissarro, Toulouse-Lautrec,
Signac… Questo folto schieramento farà da contraltare a
quello antidreyfusardo, capeggiato da Rochefort, Drumont,
dal pittore Degas, da Charles Maurras, dagli ambienti
antisemiti sia della destra politica che clericale. La
prima aveva la sua cassa di risonanza nei già citati
quotidiani L’intransigeant e La libre parole, mentre i
secondi si appoggiavano soprattutto alla rivista
cattolica reazionaria “La Croix”.
Qualche giorno dopo, il 16, il generale de Boisdeffre
allontanò da Parigi Picquart, per una missione nelle
regioni dell’est. Il 22 ricevette un ulteriore ordine di
Gonse: doveva proseguire l’ispezione, “senza tornare a
Parigi”, nella zona delle Alpi. Non passarono sei
settimane (tanto era il tempo previsto) che ricevette un
altro ordine per recarsi a riorganizzare il Servizio
Informazioni in Algeria e in Tunisia, in territori,
quindi, infestati da tribù ribelli.
Nel giugno del 1897, Picquart in congedo a Parigi, dopo
che una caduta da cavallo, avvenuta un paio di mesi
prima, lo aveva fatto riflettere sul fatto che se fosse
morto, si sarebbe portato quanto sapeva sul caso Dreyfus
nella tomba, rivelò all’amico e avvocato Louis Leblois i
suoi sospetti su Esterhazy.
Leblois era sindaco del VII Arrondissement di Parigi,
Sindaco era Charles Risle, nipote dell’anziano vice
presidente del Senato Scheurer-Kestner. Il 13 luglio
dello stesso anno, ritornando in battello, come ricorda
Revel (Revel, 1936, p. 117), da un pranzo di alsaziani
indetto per erigere un monumento a Gambetta, Leblois,
con l’aiuto di Risle, avvicinò il vice presidente del
Senato. L’avvocato gli rivelò quanto aveva appreso da
Picquart. Scheurer-Kestner rimase sconvolto. Leblois gli
fece promettere di non tirare mai in ballo il nome di
Picquart.
La sera stessa, Scheurer-Kestner annotò nel suo diario:
“Difficoltà della situazione: Picquard (sbagliando
l’ortografia) deve restare nell’ombra. Il ministro ha
difeso la condanna di Dreyfus nel novembre 1896 pur
sapendolo innocente.
Rapporti tra Weil e Saussier. Dicendo un a sola parola.
Picquard è scoperto, perché il gen. Gonse indovinerebbe
la fonte dell’indiscrezione… Il maggiore Henry sa
tutto…" (Rizzoni, 1973, p. 54).
Fedele alla parola data, il vice presidente del Senato
si limitò a far sapere alla famiglia Dreyfus che aveva
raggiunto la convinzione dell’innocenza del loro
congiunto. Poi fece diffondere la stessa voce tra i suoi
amici. Il 19 luglio, tornò in Alsazia per le vacanze. E
qui, il 2 settembre, lo raggiunse, per ordine del
ministro Billot, il maggiore Bertin-Mourut, con
l’incarico di sondare l’anziano senatore per scoprire
quel che sapeva. Scheurer-Kestner ribadì le sue
convinzioni, ma non fece di più.
Il 16 ottobre, a Parigi, i capi militari in imbarazzo,
si riunirono per mettere a punto una strategia. Erano
presenti Gonse, Henry (che nel frattempo aveva preso il
posto di Picquart a capo dell’Ufficio Statistica), il
suo vice Lauth e du Paty, che invece non era
dell’Ufficio Statistica, ma partecipava per “motivi di
servizio”. Bisognava fermare qualsiasi tentativo di
revisione del processo e salvare Esterhazy, la “testa di
turco” su cui gli ebrei volevano far ricadere le colpe
di Dreyfus! Nella riunione vennero prese tre decisioni.
Per prima cosa, bisognava ‘rafforzare’ il dossier
Dreyfus. In secondo luogo, era necessario screditare
Picquart e le sue prove contro Esterhazy. Infine, era
opportuno avvertire lo stesso Esterhazy della minaccia
che grava sulla sua testa.
In merito al primo punto, si fece avanti Henry, il quale
si mise all’opera per riutilizzare tutto quello che
c’era a disposizione nell’Ufficio Statistica. I vecchi e
i nuovi documenti vennero adattati a Dreyfus. A una
lettera scoperta dopo la partenza del condannato per
l’Isola del Diavolo, Henry tagliò la data e la sostituì
con una data falsa, anteriore di circa sei mesi. Su
un’altra lettera, figurava una lettera P… Una
cancellatina e diventò una D.. Ritornò a galla anche la
notizia, sparsa ad arte nei primi giorni dell’arresto di
Dreyfus, in meirto ad una sua confessione. Venne
convocato il capitano Lebrun-Renaud – ormai a riposo, ma
che aveva assistito agli interrogatori – per convincerlo
a firmare un documento gravemente compromettente per
Dreyfus.
Sul secondo punto, il solito Henry cancellò l’indirizzo
del petit bleu e poi lo riscrisse identico, per poter
poi sostenere che era un falso costruito ad hoc da
Picquart (in realtà, Henry ignorava che esisteva una
fotografia del documento, scattata da Picquart in via
precauzionale), magari in collusione con il Sindacato.
Per attuare il terzo punto, i militari si sbizzarrirono.
Esterhazy, contattato prima per via epistolare e poi
personalmente da esponenti dell’ambiente militare, si
incontrò al parco di Montsouris, intorno alle venti, con
due personaggi. Gli incontri proseguirono anche in altri
giorni. In uno di questi, parteciparono un uomo, vestito
pesantemente, con mantello e occhialoni verdi, e in un
altro una non meglio specificata “dama velata”. L’uomo
dagli occhialoni verdi, che era du Paty, consigliò al
capitano di rivolgere un appello al Presidente della
Repubblica Faure affinché difendesse la sua (di
Esterhazy, s’intende) onorabilità. Suggerì pure di
inserire nell’appello la decisione che, se non fosse
stato ascoltato, si sarebbe rivolto all’imperatore di
Germania, il quale in qualità “di capo del suo blasone
era signore feudale della famiglia Esterhazy” (Coen,
1994, p. 54). In un altro incontro – quello della “dama
velata” – costei gli avrebbe passato un documento di
importanza inimmaginabile – sottratto a Picqaurt - che,
pur dimostrando inconfutabilmente la colpevolezza di
Dreyfus, non poteva essere mostrato senza il rischi di
scatenare una guerra. La prima lettera Esterhazy la
inviò il 29 ottobre, la seconda (quella della “dama
velata”) il 31. Entrambe, pare fossero state dettate da
Du Paty.
Intanto, convinto dell’innocenza di Dreyfus,
Scheurer-Kestner iniziò il suo giro in cerca di appoggi.
Visitò, dapprima (il 29 ottobre) il Presidente della
Repubblica Faure, poi si recò dal Presidente del
Consiglio Mèline (che aveva preso il posto di Léon
Bourgeois il 30 aprile di quello stesso anno), il
Ministro della Guerra generale Billot, il ministro della
Giustizia… Egli – come sottolinea Revel – cercava di
infondere “loro la sua stessa fervida convinzione, e
scongiurandoli di prendere in mano l’iniziativa della
revisione, la causa della giustizia. Ma le sue
insistenti e appassionate invocazioni non incontrarono
che una glaciale riservatezza.”(Revel, 1936, p. 144).
Mathieu contro tutti, i militari contro Alfred.
Il 16 novembre, Mathieu Dreyfus ruppe gli indugi. Su
consiglio dell’avvocato Leblois, inviò una lettera
aperta, indirizzata al Ministro della Guerra Billot e
pubblicata sul quotidiano Temps. Nella lettera scriveva
che suo fratello era stato condannato sulla base del
solo bordereau. Tuttavia, aggiungeva, esso non era opera
del capitano Dreyfus, ma “era stato scritto dal maggiore
di fanteria conte Walsin-Esterhazy”. “La calligrafia del
maggiore Esterhazy – proseguiva - è identica a quella
del documento incriminato… Non dubito, signor Ministro,
che ella vorrà fare pronta giustizia”.
La lettera provocò un vero terremoto. Il nome di
Esterhazy divenne di dominio pubblico ed i cronisti di
tutti i giornali scatenarono una bagarre nel tentativo
di contattarlo. Ma, lì per lì, non venne trovato da
nessuna parte: né a Donmartin, dove viveva la moglie, né
a Parigi, dove viveva l’amante. Era fuggito? Allora, era
vero, il colpevole era lui? Il mistero durò solo qualche
ora poiché lo stesso giorno il maggiore aveva recapitato
all’agenzia Havas la copia di una lettera da lui
indirizzata al ministro della Guerra Billot che i
giornali pubblicarono il giorno seguente: “Signor
Ministro, leggo nei giornali del mattino l’infame accusa
diretta contro di me. Le chiedo di fare una inchiesta e
sono pronto a rispondere a tutte le accuse – Esterhazy”.
I capi militari decisero che si doveva condurre
un’inchiesta. Gli eventi sembravano ormai
incontrollabili. Fu incaricato il generale Gabriel de
Pellieux, già convinto in partenza dell’innocenza di
Esterhazy e della colpevolezza di Dreyfus.
Pellieux cominciò la sua istruttoria convocando
Scheurer- Kestner, Mathieu Dreyfus e l’avvocato Leblois.
“Con modi moto cortesi – scrive Coen – insinuò che forse
Dreyfus, per procurarsi un eventuale alibi, aveva
imitato la calligrafia di Esterhazy; che il famoso
telegramma di città – il petit bleu no spedito – in
calce al quale era stato trovato l’indirizzo di
Esterhazy, di per sé non significava moto e poteva anche
non essere autentico.” (Coen, 1994,. P. 51). Al
contrario, Pellieux, fiutando la presenza di Picquart
dietro quelle prove fatte lumeggiare dai tre, insistette
per sapere in che modo fossero arrivati a conoscere
tanti particolari riservati dello Stato Maggiore.
Concluse l’indagine, infatti, considerando fuori causa
Esterhazy, giacché il petit bleu con il suo nome e
indirizzo non costituiva prova e si dichiarava,
viceversa, convinto che Picquart, sicura fonte di quelle
rivelazioni, “fosse agente dei difensori di Dreyfus”,
proponendone in tal modo la traduzione “davanti ad un
consiglio di disciplina per esservi interrogato in
condizioni di assoluto segreto”.
Subito dopo l’appartamento di Picquart veniva forzato e
perquisito, mentre il giornale “La Libre parole”
accusava un non meglio definito colonnello, citato con
le lettere X. Y., di avere falsificato il petit bleu,
mandante il Sindacato “giudaico-protestante di cui
certamente il colonnello faceva parte”.
Nonostante le delusioni, però, il caso arriva davanti
alle Camere. Il 5 dicembre, alla Camera dei deputati, il
Primo Ministro Mèline, nel rispondere a due
interpellanze dei deputati conte di Mun, cattolico, e
Marcel Sembat, socialista, dichiarava solennemente che
“non esiste alcun affaire Dreyfus”. Di seguito, le
Camere approvarono un ordine del giorno che: “afferma
l’autorità della cosa giudicata, s’associa all’omaggio
reso all’esercito dal ministro della Guerra, approva le
dichiarazioni del governo e denuncia gli istigatori
della campagna atroce intrapresa per turbare la
coscienza pubblica”(Revel, 1936, p. 182). L’ordine del
giorno venne approvato con 308 voti contro 62. Tre
giorni dopo, al Senato, toccò all’anziano vice
Presidente Scheurer- Kestner salire in tribuna per
l’ultima volta. Ancora Picquart non l’aveva sciolta
dall’impegno di non rivelare le sue fonti, per cui
l’intervento del vice Presidente dovette fare a meno
della freccia più affilata presente nella sua faretra.
Ciò nonostante, insistette per convincere i presenti
dell’innocenza di Dreyfus e del fatto che l’onore di un
esercito si tutela, non perseverando negli errori
commessi, ma riparando e ripristinando la giustizia. Ma
l’aula non volle udire. Così anche al Senato venne
approvata la mozione di Mèline.
La piazza, nel frattempo, rumoreggiava, tumultuava,
osannava il suo esercito di eroi. I francesi avevano
ritrovato la fede nei suoi capi militari, nei suoi
uomini decorati di stellette e medaglie che – adesso si
poteva rivendicare a voce alta – avevano portato alla
Francia un immenso impero coloniale.
La repubblica, con la sua esigenza di democratizzazione
delle istituzioni, aveva per un momento oscurato
l’immagine dell’esercito francese, ma grazie allo
smascheramento dei traditori ed al senso di
responsabilità ed all’acume delle alte gerarchie
militari il Paese poteva dormire sonni tranquilli.
In questo clima si aprì, il 10 gennaio 1898, il processo
a Esterhazy. Come ricorda Nicolas Halasz, “la stampa
pubblicò in anticipo che Esterhazy sarebbe stato posto
sotto custodia per un giorno in conformità al
regolamento, che i preliminari si sarebbero svolti alla
presenza del pubblico, ma che la testimonianza di
Picquart e degli altri militari sarebbe stata resa a
porte chiuse per proteggere i ‘segreti militari’, e che
alla fine del processo Picquart sarebbe stato arrestato”
(Halasz, 1974, pp. 134-135).
Il luogo del processo era il medesimo di quello di
Dreyfus: la vecchia corte militare di rue Cherche-Midi,
accanto alla prigione militare. I giudici erano tutti
militari. Esterhazy parò con fare calmo, educato,
ponderando le parole. Fu molto cavalleresco nei
confronti della misteriosa “dama velata”: non ne rivelò
il nome. E nemmeno del documento che la donna gli aveva
passato se ne seppe il contenuto specifico.
Mathieu Dreyfus venne criticato dall’avvocato difensore
per aver messo in giro il bordereau. Era chiaramente il
preludio dell’attacco a Picquart. Venne interrogato
anche il padrone di casa dell’amante di Esterhazy che
tracciò un quadro non entusiasmante dell’ufficiale.
L’11 gennaio la corte si riunì per deliberare. La camera
di consiglio durò tre minuti. Il pubblico poi venne
ammesso per assistere all’emissione del verdetto.
Esterhazy veniva assolto con formula piena.
La folla accolse la notizia con scene di giubilo. “Era
come se la Francia avesse ottenuto una vittoria su un
campo di battaglia – scrive Halasz -. Ufficiali,
giornalisti, donne e uomini, vecchi e giovani, corsero
attorno a Esterhazy per stringerselo al petto con le
lacrime agli occhi. Più di mille persone che non avevano
potuto entrare in aula, si affollavano all’uscita.
Quando Esterhazy infine incominciò ad aprirsi la strada
in mezzo a loro, una voce gridò: ‘giù il cappello
davanti al martire! Morte agli ebrei!’” (Halasz, 1974,
p. 136).
L’assoluzione di Esterhazy scatenò manifestazioni di
giubilo in tutta la città. Sembrava che si fosse
svegliato il paese felice, come lo chiama Revel. Egli
era l’eroe di una Francia invitta, orgogliosa delle sue
tradizioni, delle sue radici cristiane e nazionaliste.
Né importavano le cose che alcuni giornali pubblicavano
a proposito del maggiore franco-magiaro. Vennero rese
pubbliche alcune lettere inviate a Mme Boulancy, nelle
quali apparivano frasi decisamente compromettenti per un
ufficiale dell’esercito francese. Scriveva: “Non farei
male neppure a un cane, ma lascerei uccidere
tranquillamente centomila francesi con piacere.” Oppure:
“I nostri capi, vigliacchi e ignoranti, finiranno ancora
una volta col popolare le prigioni tedesche.” O ancora:
“Se mi si dicesse che sarò ucciso domani, in veste di
capitano degli ulani, sciabolando dei francesi, sarei
perfettamente felice.” (per questo, venne soprannominato
dai giornali “l’ulano”). O, infine: “In un rosso sole di
battaglia, Parigi presa d’assalto e messa a sacco da
centomila soldati ubriachi…”
Esterhazy era diventato un simbolo e, come dice Revel,
“un simbolo resta un simbolo; e non conviene esaminare i
simboli con metri umani e pettegoli” (Revel, 1936, p.
183).
Il mattino seguente, 12 gennaio, un gendarme si recò a
casa di Picquart per arrestarlo. Venne rinchiuso nella
fortezza di Mont Valérien.
Contemporaneamente, senza che lui ne sapesse i motivi,
all’Isola del Diavolo venne dato un giro di vite alle
condizioni di Dreyfus. Le guardie vennero portate a
tredici più un comandante. Fu costruita una torre per
scrutare il mare. Una mitragliatrice vi fu montata in
cima. Dreyfus non riusciva a comprendere il perché di
quelle nuove misure. Qualsiasi privilegio nella posta
gli era stato negato. Da tre mesi non riceveva neanche
una cartolina e le guardie obbedivano agli ordini di non
rivolgergli la parola.
A partibus infidelis
Una svolta improvvisa, assolutamente inaspettata, per la
destra, al corso degli avvenimenti fu causata
dall’articolo-pamphlet di Emile Zola, titolato J’accuse.
Emile Zola era in quel momento uno degli scrittori più
popolari di Francia e il più tradotto all’estero.
Osannato dagli ammiratori e vituperato dai detrattori, i
suoi libri erano sempre stati un grande successo.
Thérèse Raquin, l’intero ciclo dei Rougon-Macquart,
Nanà, Germinal, La debacle, L’assommoir, Le docteur
Pascal, L’argent, La bete humaine. Non c’era casa
borghese in Francia, Italia, Germania, Austria, Spagna,
Inghilterra, Russia, in cui i suoi libro non facesero
bella mostra di sé nelle biblioteche di famiglia.
Per molto tempo Zola sembrò non occuparsi del capitano
Dreyfus. Fu un giovane scrittore, Marcel Prevost, che a
poco più di trent’anni aveva ottenuto un travolgente
successo con il romanzo Les demi-vierges, fermamente
convinto dell’innocenza di Dreyfus, a metterlo in
contatto con l’avvocato Leblois. A poco a poco si
interessò della vicenda, sviscerandone gli aspetti più
oscuri e inquietanti. Sembrava che in un primo tempo
Zola stesse progettando un romanzo intorno all’affaire,
ma poi giunse la notizia dell’assoluzione di Esterhazy e
tutto cambiò.
Già il 25 novembre il quotidiano Le Figaro aveva
ospitato un articolo pro-Dreyfus di Zola. Era stato
l’ultimo articolo dreyfusardo pubblicato da quel
giornale. Subito dopo la linea editoriale aveva subito
una brusca virata in senso opposto e persino il
corrispondente della cronaca giudiziaria, accusato di
essere troppo dreyfusardo, era stato licenziato.
Un giornale combattivo ed effervescente, tuttavia,
restava: L’Aurore di cui era caporedattore ‘il Tigre’
Georges Clemenceau. Anche Clemenceau era rimasto scosso
dalle rivelazioni dell’affaire e, per lui grande
antimilitarista, erano suonate come la chiamata alle
armi contro le menzogne della destra, dei clericali e
delle gerarchie militari.
Fu dunque a Clemenceau che Zola, il 12 gennaio 1898,
consegnò le poche cartelle scritte – come rivelò tempo
dopo la figlia – in un giorno e due notti. Il titolo era
tutt’altro che penetrante, anzi appariva decisamente
banale, fiacco, stereotipato: Lettera al signor Félix
Faure, presidente della Repubblica. Clemenceau, col suo
fiuto di giornalista di razza comprese che non poteva
funzionare. Prese una grossa matita, lo cancellò e poi
scrisse con grafia sicura: J’accuse. E con quel nuovo
titolo sarebbe entrato nella storia.
“L’Aurore” del 13 gennaio vendette più di trecentomila
copie.
J’accuse! cominciava chiamando in causa il presidente
della Repubblica, Faure e poi veniva al punto: “Una
corte marziale ha di recente, per ordini ricevuti, osato
assolvere un Esterhazy: un sono schiaffo alla verità,
alla giustizia! Ed è stato fatto; la Francia ne porta il
marchio sul viso; la storia registrerà che sotto la sua
amministrazione, presidente, un tale crimine sociale è
stato commesso.”
Poi faceva voto di affermare tutta la verità sul caso in
questione, investendone, con la sua responsabilità, il
presidente medesimo: “La verità, per prima cosa, sul
processo e sulla condanna di Dreyfus. Un pernicioso
individuo ha arrangiato, studiato, messo insieme ogni
cosa: il tenente colonnello du Paty de Clam, allora solo
maggiore. E’ lui tutto l’affaire Dreyfus… Egli appare
come il nebuloso, complicato spirito dominante, ispirato
da romantici intrighi, che divora romanzi d’appendice e
si eccita con documenti rubati, lettere anonime, strani
appuntamenti, misteriose donne che giungono di notte per
vendere devastanti testimonianze, segreti di stato. Fu
lui a concepire l’idea di studiare l’uomo in una stanza
interamente tappezzata di specchi… Io dichiaro
semplicemente che il maggiore du Paty de Clam, designato
come pubblico ministero, è il primo e più colpevole
personaggio di questo spaventoso errore giudiziario.”
Dopo aver descritto in che modo il bordereau fosse
giunto nell’ufficio del Deuxième Bureau ed aver
sottolineato il fatto che dei quattordici punti
dell’accusa, solo il bordereau era rimasto in piedi, si
occupava del petit bleu e di Esterhazy: “Il colonnello
Sandherr era morto e il tenente colonnello Picquart gli
era succeduto come capo del servizio segreto. Fu
nell’adempimento dei suoi doveri che quest’ultimo trovò
un giorno un breve messaggio indirizzato al maggiore
Esterhazy dagli agenti di una potenza straniera. Il suo
dovere era di aprire un’inchiesta. E’ chiaro che egli
non agì mai contro la volontà dei suoi superiori… Ma
l’impulso fu straordinario, perché la condanna di
Esterhazy fatalmente implicava la revisione del verdetto
di Dreyfus e questo era ciò che soprattutto lo Stato
Maggiore voleva evitare a ogni costo.
(…) Si osserva che il generale Billot, nuovo ministro
della Guerra, non era per nulla compromesso nel vecchio
affare; le sue mani erano pulite; egli avrebbe potuto
stabilire la verità. Non osò; per paura senza dubbio
dell’opinione pubblica, certamente anche per timore di
abbandonare l’intero Stato Maggiore.
(…) Già da un anno il generale Billot, Boisdeffre e
Gonse sanno che Dreyfus è innocente e tengono per loro
questa tremenda cosa! E questi uomini dormono e hanno
moglie e figli che amano!”
Poi passò all’affondo contro Esterhazy, ma soprattutto
contro il collegio militare giudicante: “I testimoni
mostrano che Esterhazy sulle prime diventa matto, deciso
a suicidarsi o a fuggire. Poi, improvvisamente, si
arrischia su un fronte pericoloso, diverte tutta Parigi
con la violenza dei suoi gesti e dei suoi atteggiamenti.
(…) Ah, dobbiamo assistere all’infame spettacolo di
uomini su cui gravano debiti e crimini che vengono
proclamati al mondo intero innocenti e virtuosi, mentre
l’anima stessa dell’onore, un uomo senza macchia, viene
trascinato nel fango! Quando un paese, quando una
civiltà è giunta a questo, non può che precipitare nella
decadenza (…).
Come ci si sarebbe potuti aspettare che un consiglio di
guerra disfacesse ciò che un precedente consiglio di
guerra aveva fatto? (…)
Ora sappiamo (…) che chiedere la colpevolezza di
Esterhazy avrebbe voluto dire proclamare l’innocenza di
Dreyfus. Nulla avrebbe permesso loro di uscire dal
cerchio magico.
Essi hanno pronunciato una sentenza ingiusta, un
verdetto che speserà per sempre sui nostri consigli di
guerra, e che d’ora in poi lascerà una macchia di
sospetto su ogni decisione delle corti militari.
(…) Dreyfus non può ottenere giustizia se l’intero Stato
Maggiore non viene messo sotto accusa (…) Quale pulizia
il governo repubblicano deve compiere in questa casa di
gesuiti, come lo stesso generale Billot l’ha chiamata… E
a quali abominevoli misure si è fatto ricorso in questo
affare di follia e di stupidità, che sanno di bassi
mezzi polizieschi, di incubi sfrenati, di inquisizione
spagnola: tutto per il piacere di pochi personaggi
bardati in uniforme che schiacciano il loro tacco sulla
nazione, che ricacciano in gola il grido che chiede
verità e giustizia, sotto la menzognera apparenza della
‘ragion di stato’.”
Poi elogiava Scheurer-Kestner e Picquart ed infine
muoveva le sue puntuali accuse: “Accuso il colonnello du
Paty de Clam di essere stato il diabolico agente
dell’errore giudiziario, incosciamente, preferisco
credere, e di avere continuato a difendere il suo fatale
operato durante gli ultimi tre anni con le più assurde e
rivoltanti macchinazioni.
Accuso il generale Mercier di essersi reso complice di
uno dei più grandi crimini della storia, probabilmente
per pochezza di mente.
Accuso il generale Billot di avere avuto in mano la
prova decisiva dell’innocenza di Dreyfus e di averla
nascosta, al di fuori dei motivi politici e per salvare
la faccia dello Stato Maggiore.
Accuso il generale Pellieux e il maggiore Ravary di
avere compiuto una disonesta inchiesta, intendo
un’inchiesta della più mostruosa parzialità, il completo
resoconto della quale rappresenta per noi un monumento
imperituro di ingenua sfrontatezza.
Accuso i tre periti grafologi, signori Belhomme,
Varinard e Couard, di avere steso menzogneri e
fraudolenti referti, a meno che un esame medico non
accerti che sono deboli di vista e di giudizio.
Accuso il ministero della Guerra di avere condotto una
vile campagna sulla stampa, specialmente sull’“Echo di
Paris” e su “L’Eclair”, allo scopo di disorientare la
pubblica opinione e di coprire i propri peccati.
Accuso, infine, il primo consiglio di guerra di avere
violato tutti i diritti umani condannando un prigioniero
sulla base di una testimonianza tenutagli nascosta, e
accuso il secondo consiglio di guerra di avere coperto
questa illegalità per ordini ricevuti, commettendo
quindi il crimine giudiziario di assolvere un colpevole
avendo piena conoscenza della sua colpevolezza.”
Zola affermava di rendersi perfettamente conto di
commettere un reato muovendo queste accuse: “L’azione
che io compio ora è semplicemente un passo
rivoluzionario destinato ad affrettare l’esplosione
della verità e della giustizia.
Io ho solo una passione, per la luce, in nome
dell’umanità che tanto ha sopportato e che ha diritto
alla felicità. La mia ardente protesta è solo il grido
della mia anima. Che osino trascinarmi in tribunale e
che ci sia un’inchiesta alla piena luce del
giorno!”(Zola, 1995, pp. 55-56).
Trentamila lettere e telegrammi da ogni parte del mondo
salutarono l’appello di Zola. Dimostravano l’immenso
sollievo provato ovunque per il ritrovamento della
ragione in Francia. L’Europa, all’infuori della Francia,
sembrava credere quasi unanimemente all’innocenza di
Dreyfus. “Il fatto che la Francia rimanesse chiusa alla
verità – scrive Halasz – veniva attribuito al suo
declino morale. Il pubblico inglese, scandinavo,
olandese e tedesco aveva subito un mutamento di
sentimenti a causa della decomposizione morale della
Francia. La popolazione francese del Belgio e della
Svizzera si disperava per l’eclissi della gloria
francese. I giornali di paesi anche arretrati come la
Russia e la Romania rimproveravano la Francia per il
ritorno alla barbarie. I giornali russi giungevano fino
al punto di chiedersi se la Francia aveva ancora il
diritto di essere chiamata la nazione dell’Illuminismo.”
(Halasz, 1974, p. 154).
Da un giorno all’altro l’America si appassionò al dramma
di Dreyfus. Mark Twain dichiarò sul "New York Herald":
“Sono pervaso dal più profondo rispetto per Zola e da
una sconfinata ammirazione. Codardi, ipocriti e
adulatori come i membri delle corti militari ed
ecclesiastiche il mondo ne produce a milioni ogni anno.
Ma ci vogliono cinque secoli per produrre una Giovanna
d’Arco o uno Zola”.
Come sottolinea Pierre Miquel, già il 14 gennaio una
campagna di petizioni consentì agli intellettuali di
contarsi. Una petizione, indirizzata alla Camera dei
deputati, recava le firme di numerosi intellettuali.
Anche l’Institut Pasteur si schierò, così come la
Sorbona e la Scuola Normale. Il testo della petizione,
pubblicato da L’Aurore, il 14 gennaio, diceva: “I
sottoscritti , protestando contro la violazione delle
forme giuridiche e contro i misteri che hanno attorniato
l’affaire Esterhazy, insistono nel chiedere la
revisione”. Di seguito le firme degli amici di Bernard
Lazare: Daniel Halevy, A. Rivoire, J. Bizet, Robert
Dreyfus, Léon Parsons. Gregh, Elie Halevy, Marcel Proust
fecero firmare Anatole France e… Zola. Dell’Institut
Pasteur sottoscrissero de Monod, E. Duclaux – che così
cambiò schieramento – Edouard Grimaux, Louis Havet,
Charles Friedel, Arthur Gury, Paul Mayer, Charles Richet,
Paul Viollet. Firme della Sorbona furono quelle di
Séailles, Seignobos, Brunot, Lanson, Psichari. I
normalisti furono Andler, Victor Bérard, Léon Blum,
Péguy, Perrin, Langevin, Albert Thomas. Inoltre, lo
storico Lucien Herr organizzò a Parigi dei veri incontri
di propaganda per diffondere il dreyfusismo. Fu in
questo contesto che Georges Clemenceau coniò il termine
‘intellettuali’ (Miquel, 1959, pp. 48-49). Firmò anche
il giovane redattore del giornale “La Lanterne”:
Aristide Briand.
Nei giorni del 17 e 18 gennaio, però la tensione sfociò
nella tragedia. A Nantes, Bordeaux, Toulouse,
Montpellier, Le Havre e Orléans, grandi folle
saccheggiarono negozi degli ebrei, picchiando i
proprietari, bruciarono pubblicamente l’articolo di Zola
e impiccarono lo scrittore in effigie. La polizia era
impotente a impedire che si spargesse il sangue e
dovettero essere chiamati i militari. Ad Algeri il
pogrom fece numerose vittime e coalizzò francesi e arabi
contro gli ebrei. A Parigi venne chiamata la polizia per
impedire che gruppi di studenti assaltasse e devastasse
la casa di Zola: dovettero accontentarsi di lanci di
pietre e slogans offensivi. Nelle università di Belgio,
Svizzera e Italia furono approvate delibere in favore
della presa di posizione di Zola per la giustizia. In
Francia furono gli intellettuali a scendere in campo e
aderirono ad un appello di sostegno allo scrittore.
Il 19 gennaio il giornale Le Siècle iniziò la
pubblicazione delle Lettere di un innocente di Dreyfus.
Dal punto di vista dei militari, la lettera di Zola,
pubblicata con tanto risonanza, non poteva non scuotere
il loro ambiente. Mèline comprese che il processo a Zola
per diffamazione non era rinviabile. Ma Mèline capì
anche che se lo scritto di Zola fosse stato denunciato
per il suo intero contenuto. Come nota Baumont,
“scrivendo ‘J’accuse’, Zola sperava di poter rendere in
giudizio la prova che la condanna di Dreyfus era stata
illegale”. Allora, per evitare ciò, “l’impianto
accusatorio contro di lui è estremamente limitato: egli
è accusato solo per tre frasi di ‘J’accuse’, dirette
contro il consiglio di guerra che ha assolto Esterhazy,
- tre frasi prudentemente estrapolate per farne il campo
ristretto di una discussione strozzata. Solo le
argomentazioni concernenti il consiglio di guerra sono
rilevati e cioè che esso: ha assolto ‘per ordine’, ha
assolto ‘scientemente un colpevole’, ha reso ‘una
sentenza iniqua’.”(Baumont, 1959, p. 184).
Al processo la consegna era pertanto di circoscrivere il
dibattito e di non sfiorare lo sfondo del processo
Dreyfus. Naturalmente, l’interesse di Zola era
diametralmente opposto.
Il processo ebbe inizio il 7 febbraio e sarebbe durato
fino al 23 dello stesso mese. L’accusa era rappresentata
dal procuratore della Repubblica Van Cassel, la difesa
dello scrittore affidata a Ferdinand Labori, un avvocato
poco più che trentenne e già di grande fama. Era stato
citato anche Perrenx, gerente de “L’Aurore”, la cui
difesa era stata affidata ad Albert Clemenceau,
eccezionalmente affiancato dal fratello Georges.
La giuria era composta da dodici persone estratte a
sorte, fra cui un ortolano, un macellaio, un artigiano,
vari merciai e uomini d’affari. Due o tre i
professionisti e gli uomini di cultura.
La difesa di Zola, all’apertura subì una prima
sconfitta: la richiesta di allargare il giudizio a tutte
le esplicite accuse elencate dallo scrittore fu
respinta.
Sfilarono intellettuali e docenti universitari come
Anatole France, politici come Scheurer-Kestner, Jaurès,
Ranc, tutti a favore di Zola. Le lettere di solidarietà
fioccavano: ne avevano spediti Mirabeau, Gide, Monet,
Proust, Bjorson, Verdi e tanti altri filosofi,
scrittori, musicisti, pittori. Tolstoj aveva scritto a
un giornale di Monaco: “Non ammiro Zola come scrittore:
quindi posso ancora meglio esprimere la mia ammirazione
per l’uomo” (Coen, 1994, p. 70).
I militari gremivano l’aula, gli antisemiti le piazze.
Il generale de Pellieux più di una volta si era alzato
per protestare contro le “infamie” che venivano
pronunciate per “affossare l’esercito”.
Il giorno 17 febbraio il colpo di scena. De Pellieux
chiese di parlare. Nel corso della deposizione ribadì
che al ministero della Guerra si possedeva la prova
sicura della colpevolezza di Dreyfus. E giurava di
averla vista, quella prova. Si trattava di una “carta la
cui origine è incontestabile… E’, sul retro di un
biglietto da visita, un appuntamento poi concesso.” (Baumont,
1959, p. 185). Chiosava affermando che il generale de
Boisdeffre avrebbe confermato la sua deposizione. A
stretto giro, Labori chiese che venisse invitato a
deporre de Boisdeffre. L’indomani de Boisdeffre confermò
la deposizione di de Pellieux.
Picquart aveva sostenuto che quel documento era un
falso. Ma il prestigio dei generali aveva avuto la
meglio e qualche giornalista parlava espressamente di
colpo di stato non dissimile da quello di Napoleone IIII.
Il 23 febbraio, la corte condanna Zola alla pena massima
prevista per quel tipo di reato: un anno di carcere e
tremila franchi di multa. Il tenente colonnello Picquart
fu messo a riposo (dal 27 febbraio). L’avvocato Leblois
venne esonerato dalle sue funzioni di vice sindaco e
sospeso per sei mesi dalla professione. La persecuzione
colpì tutti i revisionisti. Ma la punizione più grande
venne dal Paese. Nelle elezioni del 18-22 maggio, i
deputati dreyfusardi Jaurès e Reinach non furono
rieletti, mentre Drumont (seppur in un collegio
d’Algeria) venne eletto a furor di popolo.
Ma Zola ricorre in cassazione contro la sentenza: le
persone diffamate che avevano diritto di sporgere
denuncia erano i componenti i due Consigli di guerra,
non il Ministro Billot. La Cassazione accolse il rilievo
ed annullò. Immediatamente giunse la denuncia dei membri
del Consiglio di guerra. Nonostante le proteste di Zola,
il processo venne assegnato al tribunale di Versailles.
In vista del nuovo procedimento giudiziario, al
ministero della Guerra ricominciò l’ennesima revisione
del dossier Dreyfus, che venne appositamente rimpinguato
con una serie di rapporti (veri e falsi) sulla pessima
condotta del capitano ebreo; e con nuove accuse per atti
di spionaggi anteriori al 1894. Venne inserito anche un
telegramma cifrato inviato, il 2 novembre 1894,
dall’addetto militare italiano Panizzardi al suo
governo, che diceva: “Il capitano Dreyfus è stato
arrestato. Il ministro della Guerra ha la prova delle
sue relazioni con la Germania. Ho già adottato tutte le
mie precauzioni”.
Si trattava ovviamente dell’ennesimo falso: il vero
testo del telegramma, che figurava nel dossier del
ministero degli esteri, dove era stato in origine
decifrato, diceva: “Se il capitano Dreyfus non ha avuto
relazioni con voi, converrebbe incaricare l’ambasciatore
di pubblicare una smentita ufficiale, per evitare i
commenti della stampa”.
In quegli stessi giorni, il 3 marzo, in una casa di rue
de Sèvres, veniva rinvenuto il corpo di un certo Moise
Leheman, alias Lemercier-Picard, noto falsario e
ricattatore, al quale più volte Henry aveva fatto
ricorso per esigenze di servizio. L’uomo si era
impiccato. Apparentemente sembrava suicidio. E così
concluse pure un’inchiesta della polizia. Ma come aveva
fatto un uomo a impiccarsi alla maniglia della finestra,
con i piedi che toccavano abbondantemente per terra?
Oltretutto, Leheman non aveva lasciato alcuna lettera
per spiegare il suo gesto. Il 7 dello stesso mese un
giornale, La Fronde, scriveva: “L’uomo di rue de Sèvres
non si è impiccato, è stato assassinato”.
Dopo le elezioni del maggio 1898, il governo Mèline
venne sostituito dal governo del radicale Brisson.
Ministro della Guerra venne designato il civile barone
Godefroy de Cavaignac, repubblicano e acceso
antirevisionista.
Cavaignac era deciso a fare piazza pulita, più che ad
insabbiare.
Il 30 giugno il solito deputato nazionalista Castelin
annunciò una interrogazione per il 7 luglio. Voleva
sapere che cosa avesse intenzione di fare il nuovo
governo per porre fine alle trame dei revisionisti.
Cavaignac prese la palla al balzo. Si fece consegnare da
Gonse tutto l’incartamento su Dreyfus e lo affidò, per
una nuova disamina, al suo capo gabinetto Roget e al
capitano Cuignet, nei aveva la massima fiducia.
Il 7 luglio comparve in aula. Iniziò la risposta
puntualizzando subito che non ci sarebbe stata alcuna
revisione. E Per porre fine, una volta per tutte, alle
agitazioni revisionistiche, legge in piena Camera i
documenti segreti ossia: il documento di Panizzardi che
citava un certo D…. (quello che, sappiamo,
originariamente portava una P., poi corretta da Henry);
il documento quella canaglia di D… (intendendosi con
tale D., non Dreyfus, ma il mediocre Debois); la
presunta lettera di Panizzardi in cui Dreyfus era citato
a tutte lettere (“Non rivelate le relazioni che abbiamo
avuto con quell’ebreo”: altro falso operato da Henry). A
proposito di questa prova, Cavaignac affermò
solennemente: “Ho ponderato personalmente l’autenticità
materiale e l’autenticità morale di questo documento!”;
la “confessione” di Dreyfus a Lebrun-Renaud (Cavaignac
aveva tirato nuovamente fuori questa storia e l’aveva
suffragata con la dichiarazione “ispirata” del
capitano).
La Camera applaudì il discorso e ne votò l’affissione in
tutti i Comuni della Francia con 572 voti contro 2. Fra
gli astenuti figurava anche l’ex presidente del
Consiglio Mèline: sapeva troppe cose per potersi esporre
così sconsideratamente.
Il 9 luglio, Picquart scrisse al presidente del
Consiglio Brisson di essere in grado di provare davanti
a qualsiasi giurisdizione che dei tre documenti citati
alla Camera da Cavaignac, due non si potevano riferire a
Dreyfus e il terzo aveva “tutti i caratteri del falso”.
Cavaignac andò su tutte le furie. E sporse denuncia
contro Picquart per aver comunicato ad estranei
documenti concernenti la sicurezza nazionale. Denunciò
anche l’avvocato Leblois per complicità. In pieno
Consiglio dei Ministri, poi, propose di adottare misure
severissime e di far arrestare tutti gli “agitatori”:
Zola, Clemenceau, Picquart, Mathieu Dreyfus, Jaurès,
Labori, Lazare: complottavano contro la sicurezza dello
Stato. A stento i suoi colleghi riuscirono a farlo
ragionare.
Tuttavia, il 13 luglio Picquart venne arrestato e
incarcerato alla Santé. Alla Santé si trovavano pure
Esterhazy e la sua amante Mme Pays. Erano finiti lì per
la faccenda dei due telegrammi minatori (firmati
Speranza e Blanche) ricevuti proprio da Picquart in
Tunisia. Picquart aveva sporto denuncia ed il giudice
Bertulus era riuscito a risalire agli autori degli
anonimi grazie all’aiuto di un cugino di Esterhazy,
Christian, il quale era stato bellamente gabbato dal
furbo parente. Infatti, spacciandosi per grande amico
dei Rothschild, il capitano si era fatto consegnare una
grossa somma di denaro affinché la investisse in Borsa.
In realtà se ne era appropriato e l’aveva presto
dilapidata. Nel tentativo di recuperare il denaro,
Christian Esterhazy confessò che il cugino, Mme Pays e
lui stesso erano stati gli autori degli anonimi.
Intanto il 18 luglio, il tribunale di Versailles
confermava la condanna a Zola, il quale, la sera stessa,
fuggiva per l’Inghilterra.
Il 10 agosto, Jean Jaurès, su La Petite République,
iniziò la pubblicazione di una serie di articoli in cui
smonta punto per punto i documenti presentati da
Cavaignac alla Camera. Il ministro si infuriò
nuovamente, tornando a chiedere l’arresto dei
dreyfusardi. Per fermarlo, Brisson fu costretto a
minacciare le dimissioni.
Il 12 agosto, la procura proscioglie Esterhazy e Mme
Pays per la faccenda dei telegrammi spediti a Tunisi.
Cavaignac tirò un sospiro di sollievo, sembrava che
tutto stesse andando per il meglio. Ma la calma non durò
a lungo. Il giorno dopo, alle dieci di sera, il capitano
Cuignet, uno dei suoi fidi, scoprì che la lettera in cui
Dreyfus era citato per esteso era un falso: risultava
scritta su due fogli di carta diversi, uno con le
quadrettature in filigrana di colore viola, l’altro con
le quadrettature grigio-blu. Le seconde leggermente più
piccole delle prime.
Per una quindicina di giorni Cavaignac non rivelò la
notizia, in attesa del rinvio a giudizio di Picquart,
che avvenne il 25 dello stesso mese. Po, il 29 agosto,
chiamò i generali de Boidefffre e Gonse e li informò di
quanto scoperto. I militari sembravano cadere dalle
nuvole, stupiti. Il giorno seguente i due generali
tornarono con Henry, al quale, per ordine di Cavaignac,
era stata tenuta nascosta la scoperta del falso. Dopo
essersi difeso strenuamente e aver negato con tutte le
sue forze, alla fine Henry crollò: ammise di aver
falsificato i documenti per rassicurare i suoi
superiori… “L’ho fatto nell’interesse del Paese”
concluse. A quel punto il ministro ordinò l’arresto
immediato di Henry. Venne prima portato, per una ventina
di minuti, all’Ufficio Statistica, dove, pare, avesse
delle cose in sospeso, poi tradotto al carcere di Mont
Valerien.
Cavaignac, da parte sua, informò dell’accaduto Brisson,
il quale voleva dimettersi. A fatica lo stesso ministro
e Zurlinden, da poco governatore militare di Parigi al
posto di Saussier, riuscirono a fargli cambiare idea.
L’indomani il corpo senza vita di Henry venne rinvenuto
nella sua cella, con al gola squarciata da due o tre
rasoiate. Suicidio, apparentemente. Certo, qualche
dubbio rimaneva: come aveva fatto a suicidarsi con due o
tre rasoiate? E perché gli avevano lasciato il rasoio in
cella? Il biglietto che aveva scritto alla moglie
lasciata intendere che aveva compiuto quel gesto per
coprire qualcuno: chi? E poi c’era quell’altro suicidio
strano di Moises Leheman, alias Lemercier-Picard. C’era
una relazione tra i due? E perché l’esercito si oppose
all’autopsia?
Come rammenta Pierre Miquel, “la stampa antidreyfusarda
non aveva impiegato molto tempo a riprendersi. Judet e
Maurras (…) lanciavano insieme l’idea del ‘falso
patriottico’. Quello che era stato fabbricato da Henry
per rimpiazzare un documento che non si poteva produrre
senza rischiare”. In questa ipotesi, Henry aveva agito
naturalmente dietro istigazione dei suoi capi e per il
bene della patria. “Già – scrive Miquel – si metteva a
punto la tesi che sarebbe servita a difendere il clan
nazionalista al processo di Rennes: il generale Mercier
era in possesso di un documento compromettente per
l’Imperatore di Germania. Non poteva essere reso
pubblico. Se lo fosse stato, sarebbe stata guerra.
Ragionamento che sembrava assurdo. Era vero, d’altra
parte, che in un recente passato si era giunti alla
guerra per molto meno. In più, il Kaiser era famoso per
le sue stravaganze” (Miquel, 1959, p. 78).
Ormai, gli eventi acceleravano e Esterhazy pensò bene di
tagliare la corda. Il 1 settembre, sotto il falso nome
di Bécourt, attraversò la frontiera col Belgio. Da
avrebbe raggiunto l’Olanda e, infine, in Inghilterra. Ma
ormai tutto era cambiato, la revisione del processo si
imponeva.
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