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N. 13 - Gennaio 2009 (XLIV)

L’AFFAIRE DREYFUS
STORIA DI UN’INGIUSTIZIA ANNUNCIATA - parte I

di Giuseppe Tramontana

 

L’affaire Dreyfus, i cui prodromi si manifestarono nel settembre del 1894, scoppiò in tutta la sua veemenza solo più tardi, quando venne dimostrato che l’imputazione e la condanna del capitano d’origine ebraica erano state frutto di un processo che esulava dalle norme della giustizia militare, e che l’accusa si era basata su prove false e fabbricate ad arte.

 

Dalla condanna (1894) alla riabilitazione (1906), l’affaire mise in luce le profonde divisioni della società francese, che si manifestarono in un esacerbato infuriare di antisemitismo, antimilitarismo e nazionalismo: questi gli aspetti che si profilarono lungo lo svolgimento di un caso che resterà uno dei principali motivi degli scontri interni alla società francese e getterà le basi per molti dei temi, tragici, che domineranno il panorama del Novecento.


Con la vicenda del capitano Alfred Dreyfus nasceranno il moderno antisemitismo, lucidamente teorizzato, perseguito ed applicato, ma anche quel sionismo che troverà – dopo il genocidio hitleriano – compimento nella proclamazione dello Stato di Israele, il 27 aprile 1948.


Con esso si rivelerà anche una nuova classe di “intellettuali” (il termine verrà coniato proprio in questa occasione) impegnati, come gruppo organico, nella vita sociale e politica. Nasceranno nuovi strumenti comunicativi, dalla lettera aperta alla petizione popolare, ma, soprattutto, si affermerà il ruolo pervasivo della stampa.

 

Giacché – come ha scritto Pierre Miquel – l’affaire sarà innanzitutto una questione di opinione, il ruolo principe lo assumerà la stampa, una stampa spesso partigiana, aggressiva, provocatoria, volontariamente manipolatrice.

 

Sarà in buona parte la stampa, soprattutto quella di tendenze nazionaliste, antisemite e militariste, che contribuirà a dipingere il caso come pregno di ambiguità, sconcertante, enigmatico. In molte occasioni lancerà delle false accuse per poter alimentare il dibattito e lo scandalo, grazie alle inevitabili smentite. Essa, in molti momenti, si sostituirà alla giustizia, alla polizia, al Parlamento stesso. Non guarderà in faccia nessuno, creerà e distruggerà reputazioni, incurante di ricadute e possibili danni. Emergerà così come quel ‘quarto potere’ di cui parlarono a suo tempo Babington Macaulay e Thomas Carlyle capace di dare linfa vitale alla battaglia politica, ma anche spostare consensi, opinioni (e voti), approfittando di una opinione pubblica sempre più famelica di notizie sensazionali e scandalistiche.


Per concludere, si può tranquillamente affermare che, a dispetto della proposta di secolo breve di Eric Hobsbawm, è con l’affaire che si getteranno le basi del Novecento, il quale diventerà in tal modo piuttosto un Lungo Novecento.

La drammatica vicenda del capitano d’artiglieria dell’esercito francese Alfred Dreyfus ebbe inizio il 26 settembre 1894, con la scoperta di un biglietto anonimo e non datato (bordereau) in cui un ufficiale di Stato Maggiore francese comunicava all’addetto militare dell’ambasciata tedesca von Schwartzkoppen, un elenco di documenti da inviare, relativi all’organizzazione dell’esercito francese e ad alcuni piani di strategia militare.


L’elenco era stato trovato, strappato in mille pezzi, dentro un cestino dei rifiuti da Marie Bastian, una donna delle pulizie dell’ambasciata tedesca. Quel lavoro, la signora Bastian, doveva svolgerlo con una certa solerzia visti i 250 franchi che il controspionaggio francese le passava per ottenere quei fogli finiti nel cestino. La donna fece pervenire quel biglietto al maggiore Hubert-Joseph Henry, del controspionaggio francese.

 

In realtà, in quel periodo e specificamente negli anni che vanno dal 1888 al 1894 gli scandali collegati all’attività di spie erano all’ordine del giorno.

 

Maurice Baumont, nel suo libro Aux sorces de l’Affaire, ricorda come in questo arco di tempo vi sono almeno cinque casi di spionaggio scoperti (senza contare i clamorosi affaires Milleschamps e Giletta): nel 1888 era stato l’aiutante Chatelein ad essere arrestato; nel 1890 era toccato al tenete Jean Bonnet, al capitano Guillot ed all’artificiere Thomas. Due anni dopo era stata la volta di Joseph Greiner, figlio di un farmacista di Toul e impiegato civile presso il Ministero della Marina: sarebbe stato condannato a venti anni di lavori forzati.


Come ricorda Baumont, all’epoca si parlava con una certa frequenza di un “vero traffico di mappe di fortificazioni, specialmente della zona della Mosa e della regione di Nizza”. Nel marzo del 1894, un agente francese, che intascava un assegno mensile per passare le sue informazioni al controspionaggio, il marchese di Val Carlos, vecchio addetto militare spagnolo a Parigi, consigliava di “raddoppiare la sorveglianza al ministero della Guerra”. Secondo lui, negli uffici dello Stato Maggiore, c’era un ufficiale che informava “ammirabilmente” tedeschi e italiani.


Il 12 gennaio 1895, una quindicina di giorni dopo la condanna di Dreyfus da parte del Consiglio di Guerra, il principe Clovis de Hohenlohe-Schillingsfurt, cancelliere tedesco, con un passato di ambasciatore a Parigi dal 1874 al 1885, incontrando l’ambasciatore francese Herbetta, ammetteva di essere poco favorevole all’istituto degli addetti militari.


Lo spionaggio, dunque, era all’ordine del giorno. Ma non sempre si trattava di operazioni serie e, ancor più, utili alla causa nazionale. Tutt’altro.

 

Considerato che venivano retribuite lautamente, queste spie, pur di intascare il denaro, non disdegnavano di amplificare o, addirittura inventare di sana pianta fatti ed eventi che dessero, agli occhi dei ‘committenti’, “prova di zelo”, facendogli guadare denaro. Come si espresse il duca di Otranto Joseph Fouché, “se essi non sanno niente, se lo inventano”, se per caso scoprivano qualcosa, lo amplificavano per rendersi importanti.


Peraltro, non erano solo i francesi ad avere il pallino dello spionaggio.
Nel 1893, due ufficiali della marina transalpina, Degouy e Delguey-Malays, erano stati arrestati tedeschi a Kiel con l’accusa di spionaggio. Il capitano Romani era stato condannato da un tribunale italiano, a Sanremo, sempre per spionaggio, mentre madame Ismert, moglie di un anziano ispettore speciale di polizia di Pagny-sur-Moselle, era stata arrestata in Germania per spionaggio alla fine di agosto del 1894.


Tuttavia, i casi di Madame Milleschamps e quello del generale italiana Giletta di san Giuseppe – il primo venuto alla luce poco prima dello scoppio dell’Affaire, il secondo rivelatosi quasi un mese prima dell’inizio del processo di revisione per Dreyfus - furono gli eventi più clamorosi, quelli che calamitarono maggiormente l’attenzione di giornali ed opinione pubblica francesi.


Il primo di questi casi fu quello che vide protagonista Madame Foret, soprannominata Millescahmps, amante di Brucker, importante agente francese.

 

Costei aveva denunciato il suo amante al ministro della Guerra, il generale Loinzillon, predecessore di Mercier, perché, nel corso di una conversazione, Brucker aveva confessato che, nel caso in cui i tedeschi gli avessero offerto quarantamila o cinquantamila franchi, non avrebbe avuto remore ad accettare, fornendo – s’intende –informazioni riservate.


Saputo della denuncia della donna, Brucker ricambiò con la stessa pariglia: la denunciò, accusandola, in più, di avergli sottratto delle carte segrete per passarle ai tedeschi.

 

In un altalenarsi di accuse e controaccuse, l’intricata vicenda, in cui affari di donne e retorica patriottarda si fondevano in una miscela che rasentava il ridicolo, la donna, ufficialmente accusata di spionaggio ed arrestata il 28 dicembre 1893, venne condannata a cinque anni di reclusione il 3 gennaio 1894.


Il secondo caso scoppia il 13 giugno 1899 (il processo di Rennes sarebbe iniziato l’8 agosto). Il generale italiano Giletta di San Giuseppe venne arrestato a Nizza con l’accusa di spionaggio. Si trova in possesso di carte topografiche della zona alpina francese contornate da appunti, note, misurazioni di strade, ponti e quant’altro.


Nel corso del primo interrogatorio il generale italiano sostenne che si trattava di annotazioni personali dovute alla sua mania di prendere appunti su tutto ciò che vedeva, da acuto ed attento viaggiatore, ma non venne creduto.


La vicenda venne gestita dai dicasteri degli esteri dei due Paesi, a capo dei quali c’erano Visconti Venosta e Delcassé, i quali agirono per il tramite dei rispettivi ambasciatori, Tornielli a Parigi e Barrère a Roma.


Visto che un processo contro il generale – nel clima infervorato dell’Affaire - non poteva essere evitato, venne trovato un compromesso accettabile tra le parti.

 

Il processo ci fu (a porte chiuse) e il generale venne condannato a cinque anni di carcere. Gli italiani, in cambio della rinuncia a presentare appello, ottennero che venisse concessa la grazia. I francesi accettarono, purché il governo italiano, al rientro del generale in Italia, provvedesse a comminargli una sanzione disciplinare.

 

Tutto avvenne secondo quanto stabilito.

 

Il 26 giugno Giletta venne condannato, il 7 luglio Delcassé presentò al Consiglio dei Ministri la domanda di grazia, l’11 luglio il generale venne rilasciato ed accompagnato alla frontiere, presso Ventimiglia. Se la cavò con un biasimo ufficiale da parte dello Stato Maggiore italiano.


In questo contesto, pertanto, la scoperta di un caso di spionaggio non giunse inaspettata: nei ranghi dell’esercito francese echeggiava con insistenza, fin dal 1870, la parola “tradimento”, con cui si cercava di spiegare la sconfitta subita a Sedan nella guerra contro la Prussia. Inoltre – come nota Eugen Weber – la Francia era un paese in cui da un secolo non vi era stata generazione che non avesse conosciuto una rivoluzione o un colpo di stato, “un paese che ondeggiava tra l’una e l’altro quando Dreyfus fu processato nel 1894 e nel 1899”.


Una lunga serie di scandali aveva scosso la repubblica ed indebolito il prestigio dei suoi leaders. “La classe politica temeva un colpo di stato: persino Pissarro riteneva che ve ne fosse uno in preparazione”.


Sul piano internazionale, la Francia si trovava in pessimi rapporti non solo con la Germania e tutto l’Impero austro-ungarico, ma anche con l’Italia e con l’Inghilterra. Con l’Italia i problemi riguardavano i dissapori per la questione tunisina (1881), conclusasi a vantaggio della Francia, e per i tentativi italiani – garante la Germania, in virtù dell’inserimento della seconda clausola in occasione del rinnovo della Triplice Alleanza del 1887 – di estendere la propria influenza in Marocco e Tunisia.


Ancora più complessi erano le relazioni con l’Inghilterra. Nell’estate e nell’autunno del 1898 scoppiò la contesa per il controllo delle sorgenti del Nilo.

 

“La crisi di Fashoda fu così grave - ricorda Weber – che Paul Valery, che allora lavorava al ministero della Guerra, affermò che presto sarebbe scoppiato un conflitto armato con l’Inghilterra”.


Sul piano interno, nel 1882 era fallito l’Istituto di credito cattolico Union Générale e dieci anni dopo i piccoli risparmiatori erano stati rovinati dal fallimento della Compagnia che avrebbe dovuto gestire il Canale di Panama.


Intanto, gli anni 1886-1889 erano stati segnati dall’ascesa della stella del generale Boulanger e del suo tentativo – sostenuto da clero, monarchici e destra reazionaria, comprese alcune alte gerarchie militari - di instaurare un regime autoritario.

 

Ad infervorare maggiormente gli animi era intervenuto, nel 1886, il libro di Edouard Drumont, La France juive.

 

In questo libro, che aveva ottenuto un clamoroso successo di pubblico, Drumont indicava negli ebrei i massimi responsabili dei mali della Francia. Una teoria che colpì nel segno, vista la grave crisi economica in cui si dibatteva il Paese. Come ricorda Fausto Coen, “le teorie di Drumont – che pure in politica si professava repubblicano e non conservatore – erano non solo antisemite ma esplicitamente razziste.

 

Nella sua opera interpretava secoli di storia come una eterna contesa tra ariani e semiti, anticipando di cinquant’anni le teorie di Hitler. Dopo il successo del suo libro, Drumont fondò il giornale La libre parole, che avrebbe avuto un ruolo chiave nella vicenda Dreyfus.


Nei primi anni Novanta, inoltre, si era radicalizzato il nazionalismo in chiave aggressiva nei confronti dei lavoratori stranieri immigrati, in particolare gli italiani, presenti in gran numero nella Francia meridionale, come attestano i sanguinosi episodi di caccia allo straniero verificatisi nel 1893 ad Aigues-Mortes ed un anno dopo a Lione.

Il punto di partenza dell’affaire fu l’intercettazione da parte dei Servizi Segreti francesi del famoso bordereau.


Cosa c’era scritto? E chi ne era l’autore?


Il foglio trovato da Mme Bastian diceva:


“Pur in assenza di notizie che mi indichino se Lei desidera vedermi, Le invio intanto qualche informazione interessante: una nota sul freno idraulico 120 e in che modo si è comportato quel pezzo (une note sur le frein hydraulique du 120 et la manierère dont s’est conduite cette pièce) una nota sulle truppe di copertura (al nuovo piano verranno apportate alcune modifiche); una nota su una modifica alle formazioni di artiglieria; una nota relativa al Madagascar; il Progetto del manuale di tiro dell’artiglieria da campagna (è del 14 marzo 1894). Il documento di cui al punto 5 è molto difficile da ottenere e io posso averlo a disposizione solo per pochi giorni. Il ministero della Guerra infatti ne ha inviato un numero stabilito ai reggimenti ciascuno dei quali è responsabile della copia ricevuta. Ogni ufficiale che lo ha in consegna dovrà restituirlo dopo le manovre. Se Lei vuol ricavarne la parte che interessa e poi farmelo riavere, me lo farò dare. A meno che Lei non preferisca che io lo faccia ricopiare integralmente e che io Le invii la copia. Sto per partire per le manovre (je vais partir en manoeuvres)”.

Preliminarmente, qualcuno ha notato come apparisse strano che un ufficiale come Dreyfus, uscito dal Politecnico con un voto decisamente alto, commettesse degli errori evidenti come quelli più sopra evidenziati.

 

Infatti, parlando del freno idraulico, non avrebbe scritto – come nota Baumont – “(…) la manière dont se conduite cette pièce”, ma più correttamente “(…) la manière dont s’est comportée cette pièce”. Inoltre, non avrebbe scritto “partir en manoeuvres”, ma “partir aux manoeuvres”.


Il bordereau pervenne all’ambasciata tedesca intorno al 25 o al 26 di settembre 1894, mentre l’addetto militare Schwartzkoppen si trovava a Berlino.


Ovviamente non si poteva pensare di trovare un ‘traditore’ tra gli ufficiali dello stato maggiore, che era una casta rigidamente selezionata di origine prevalentemente nobiliare. Si pensò quindi che il colpevole potesse annidarsi fra i giovani ufficiali che svolgevano il loro tirocinio presso lo stesso Stato Maggiore e fra questi spiccò subito un nome che nobile non era, ma suonava piuttosto come ebreo e come tedesco: Alfred Dreyfus, alsaziano.


Dreyfus, per certi versi, era un predestinato ad essere sospettato. Sgobbone, introverso, freddo, intelligente, emergente, alsaziano (e, quindi, per molti, ad alto rischio di ‘tedeschizzazione’), ma soprattutto ebreo.

 

In realtà, l’attaccamento alla Francia da parte del Capitano Dreyfus era profondo e sincero, tanto che la sua famiglia, all’indomani della disfatta di Sedan del 1870, aveva optato senza indugio per il paese di cui, da più di duecento anni, si sentivano cittadini piuttosto che per l’Impero del Kaiser.


In più, le sue condizioni economiche erano di tutta tranquillità. Oltre che sullo stipendio, la sua famiglia poteva contare su una rendita di circa quattrocentomila franchi, investiti nell’azienda familiare. A questo capitale si era poi aggiunto quello della cospicua dote della moglie, Lucie Hadamard, ebrea anch’essa, figlia di un facoltoso commerciante in preziosi.

 

Un tradimento per lucro o per necessità, così come uno per semplici simpatie filotedesche, era a dir poco improbabile.


La condotta militare e la vita privata del capitano erano irreprensibili. Le carte del suo dossier personale non lasciano ombra di dubbio: aveva un “carattere facile, un’educazione ottima, una istruzione generale vasta” e soprattutto “una condotta molto buona”. Montava anche bene a cavallo.

 

Unico neo spiacevole: era miope e doveva portare gli occhiali. Ammesso all’Ecole Polytechnique come sessantasettesimo su ottantuno, ne era uscito nono su ottantuno. Uno studente modello, quindi.


“Le uniche riserve – scrive Coen – riguardavano piuttosto il suo carattere, il suo comportamento di ufficiale in un certo senso ‘anomalo’. Lavorava appartato dai suoi colleghi, non entrava nei pettegolezzi, né nei discorsi così frequenti tra gli ufficiali: donne, avventure, serate mondane, gioco… Era al contrario silenzioso e riservato. Questo faceva ritenere a molti che fosse superbo, che si sentisse superiore agli altri in quanto ricco.”


Quando il bordereau cominciò a circolare negli uffici dello Stato Maggiore, vi furono due grafologi dilettanti, il maggiore Du Paty de Clam ed il colonnello D’Aboville, che si orientarono verso la grafologia dell’ufficiale di artiglieria Dreyfus.


Du Paty de Clam, uomo dedito a vaste e disorganiche letture poliziesche, appassionato di occultismo e spiritismo, oltre che pretenziosamente convinto di avere escogitato delle ‘prove psicologiche’ inconfutabili per leggere nell’animo degli altri, fui incaricato il 7 ottobre 1894 di valutare la scrittura del documento ritrovato e scoprirne il misterioso autore.

 

Egli dichiarò che tra la grafia di Dreyfus e quella del bordereau c’era “una somiglianza sufficiente per giustificare una perizia legale”.

 

Intanto il Vice-Capo di Stato Maggiore Charles Gonse aveva provveduto ad informare i suoi superiori, a cominciare dal generale Charles Boisdeffre, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, di quanto stava accadendo. Boisdeffre, a sua volta, trasmise la notizia al Ministro della Guerra, il generale Auguste Mercier. Quest’ultimo passò la notizia al Presidente Jean Casimir-Périer, il quale convocò il premier Charles Dupuy.


Visto il responso di Du Paty de Clam, il ministro Mercier fece appello a un esperto grafologo della Banca di Francia, Alfred Golbert.

 

Costui accertò che: il bordereau era rapido e spontaneo; vi erano uguaglianze con la grafia di Dreyfus nei caratteri generali, vi erano anche uguaglianze nei particolari, ma vi erano anche numerose ed importanti diversità.

 

Vale la pena sottolineare a tal proposito – come fa Coen – che il tipo di scrittura impiegato anche dall’autore del bordereau era alquanto diffuso all’epoca e reperibile in una gran quantità di carte, relazioni, rapporti, provvedimenti amministrativi, lettere private. La spiegazione è semplice: il sistema scolastico francese non si era ancora emancipato dalle cosiddette ‘scritture a modello unico’ (più note in Italia come ‘versioni in bella scrittura’) su cui a scuola, fin dalla prima classe elementare, tutti gli studenti si esercitavano correntemente

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In considerazione delle valutazioni di Golbert, il Ministro della Guerra si indirizzò ad Alphonse Bertillon, che all’epoca dirigeva il Servizio d’identità giudiziaria della prefettura di polizia.

 

Questo personaggio merita due parole di approfondimento: Alphonse Bertillon era, all’epoca, il massimo specialista di fotografia giudiziaria e, dopo la sua morte, avvenuta nel 1914, il suo nome sarebbe rimasto legato alla pratica dell’antropometria giudiziaria.

 

Figlio di un medico, era entrato come protocollista alla Prefettura di Polizia e si era interessato alla identificazione dei criminali, che allora era empirica, grossolana e si prestava ad errori, frodi e corruzioni. Egli ebbe l’intuizione ed il coraggio di applicare all’identificazione dei criminali i criteri dell’antropometria, ossia della misurazione di certe variabili del corpo: testa (lunghezza e larghezza), diametro bizigomatico, piedi, dita, ecc.

 

Era, in buona sostanza, l’applicazione alla criminalistica della metodologia etnologica del Quetelet, integrata dal cosiddetto ‘ritratto parlato’, inventato dal Bertillon medesimo, che è una descrizione analitica dei tratti somatici e delle peculiarità (i contrassegni) quali nei, cicatrici, angiomi, ecc...

 

Il funzionario, al contrario, guardava con molta diffidenza all’identificazione basata sulla dattiloscopia, alle impronte digitali, insomma, in cui vedeva una pericolosa concorrente del suo metodo, piuttosto che un avanzamento della scienza.

 

Come ricorda Nicholas Halasz, “quando le impronte digitali furono presentate come metodo d’identificazione più sicuro e meno scomodo, egli non le prese neanche in considerazione ed il suo prestigio era tale che le impronte digitali per ancora vent’anni non fecero molta strada fra la polizia”.

 

Il colpo di grazia al metodo antropometrico di Bertillon venne da un avvenimento tanto curioso quanto prevedibile (col senno di poi).

 

Il fatto accadde a Leavenworth, una prigione del Kansas, negli Stati Uniti. “Un prigioniero in arrivo – ricorda ancora Halasz – venne fotografato nel solito modo e fatto passare per le normali misure antropometriche Bertillon. Si chiamava William West.

 

L’archivio Bertillon della prigione mostrò che egli era già stato incarcerato per omicidio. Egli negava ostinatamente e continuò a proclamarsi innocente di questa colpa anche quando fu posto di fronte al fatto che sette delle undici caratteristiche Bertillon erano uguali a quelle di William West detenuto per omicidio e che le altre quattro differivano solo minimamente.”

 

Il prigioniero non venne creduto finché non si andò a scartabellare tra i registri degli ospiti. Venne fuori, allora, che il William West che era stato imprigionato per omicidio stava scontando la pena nello stesso Leavenworth da dieci anni.

 

“Fu un colpo – aggiunge Halasz - da cui l’antropometria non si rimise mai del tutto. Ma Bertillon sì, con il semplice sistema di passare alle impronte digitali”.


Bertillon, nonostante non fosse un perito grafico, limitandosi invece a fotografare i documenti per uso poliziesco o giudiziario ed a ingrandirli per renderli più facilmente esaminabili, accettò l’incarico.

 

Improvvisando tutto, fermò la sua attenzione sulla valutazione dei caratteri intrinseci del bordereau piuttosto che sul confronto tra la grafia di Dreyfus e quella del documento incriminato. E fu un errore fatale.

 

Egli, suggestionato anche dallo Stato maggiore che gli insinuò esserci prove schiaccianti contro il capitano ebreo, concluse col dire: “Se si scarta l’ipotesi di un documento falsificato con la più grande diligenza, appare manifesto per noi che è la stessa persona che ha scritto tutti i documenti di comparazione e quello incriminato”.

 

A questo proposito c’è da ricordare che solo successivamente egli maturò l’ipotesi della cosiddetta ‘autofalsificazione’, che divenne il cardine della sua teoria.

 

Tale autofalsificazione consisterebbe, in breve, in un artificio messo in opera coscientemente dall’autore del bordereau al fine di alterare lievemente il grafismo, intercalando ritocchi, incertezze, errori, cioè difetti propri dell’imitazione.

 

E ciò per poter sostenere, nel caso in cui venisse smascherato, che si trattava dell’imitazione della sua scrittura fatta da altri. Bertillon si innamorò a tal punto della sua stramba teoria che per assecondare le sue fantasie adattò il bordereau alle sue conclusioni, trattando, manipolando, il documento primitivo sulle tavole fotografiche, sicché la nota, malamente ricostruito a mosaico (si ricorderà che era stato trovato a pezzetti da Mme Bastian) ne risultò alterata, ingrandita, rimpicciolita, ritoccata, ricalcata, ritagliata, incollata, truccata, ad uso e consumo della teoria dell’autofalsificazione.

 

Fu in base a queste cervellotiche assunzioni (definite da Georges Clemenceau “ipotesi abracadabresche”) che venne fuori la famosa esposizione durante le udienze del primo processo, in cui dipinse Dreyfus come una sorta di genio del male attento a difendersi da ogni tipo di attacco, da destra e da sinistra, da pericoli reali o immaginari, capace di asserragliarsi in una cittadella fortificata di multipli e sottomultipli, di misure arzigogolate e codici segreti per rovinare la Francia ed il suo glorioso esercito.


Al parere di Bertillon fu deciso di affiancarne degli altri. I nuovi periti furono: Pelletier, Charavay e Theyssonieres. Pelletier, redattore al Ministero delle Belle Arti, terzo perito, rifiutò l’offerta non certo disinteressata di ‘aiuto’ fattagli da Bertillon.

 

Charavay, quarto perito, commerciante di autografi accettò di essere ‘aiutato’ e produsse una perizia ‘logica’. Secondo lui, il bordereau era segreto e pericoloso: dunque, doveva essere dissimulato. Conseguentemente, le uguaglianze contavano e le diversità no.

 

In base a questo bizzarro ragionamento, concluse per la colpevolezza di Dreyfus. Theyssonieres, quinto perito, incisore, accettò anch’egli di essere ‘aiutato’ da Bertillon. Fece una perizia ‘calligrafica’. Non si occupò di caratteri generali. Si soffermò su pretese sovrapponibilità parziali e approssimative, per sostenere il ricalco. Concluse per la colpevolezza di Dreyfus.


Pertanto dei cinque calligrafi consultati, solo tre si dichiararono favorevoli a riconoscere nel capitano sospettato l’autore dell’elenco. Ciò nonostante, a conclusione dell’inchiesta si ritenne che le prove fossero sufficienti per portare Dreyfus davanti al Consiglio di Guerra, cioè alla Corte marziale, con l’accusa di alto tradimento.


Le alte gerarchie, il Presidente della Repubblica, Jean Camir-Périer (succeduto a Sadi Carnot, assassinato dall’anarchico italiano Sante Caserio il 24 giugno precedente) e un’opinione pubblica avvelenata da idee antisemite e da un acceso nazionalismo, spingevano per fare di Dreyfus il colpevole. Il 5 ottobre 1894 il bordereau venne attribuito ufficialmente al sospettato.


Dieci giorni dopo, il 15 ottobre, Dreyfus fu convocato al Ministero della Guerra da Du Paty de Clam, il quale gli dettò un lettera da confrontare poi con il bordereau.


Du Paty de Clam era anch’egli un personaggio – diciamo così – originale. Si interessava di studi di parapsicologia, interrogava tavolini parlanti, evocava spettri ed aveva nel sangue il culto della spy-story. Naturalmente era un antisemita viscerale ed era ossessionato, come tutti nello Stato Maggiore, dalle “gole profonde”. Si illudeva di essere anche un fine psicologo.


Per due settimane Dreyfus, preso in consegna dal maggiore Forzinetti, che lo aveva rinchiuso in una cella di detenzione, venne interrogato a oltranza. L’unico che, grazie alla sua lunga esperienza di prigionieri, si fosse convinto dell’assoluta innocenza del capitano era Forzinetti.


Il 29 ottobre, in un trafiletto di sei righe, nel giornale di Drumont, La libre parole, chiedeva retoricamente: “è vero che recentemente è stato operato un arresto molto importante per ordine dell’autorità militare? L’arrestato sarebbe accusato di spionaggio. Se la notizia è vera, perché l’autorità militare serba un silenzio assoluto? Una risposta s’impone”.


Il 31 ottobre, l’agenzia ufficiale Havas rispondeva: “Presunzioni molto serie hanno motivato l’arresto provvisorio di un ufficiale sospettato di aver comunicato a uno straniero alcuni documenti di scarsa importanza ma di natura confidenziale. L’inchiesta prosegue con tutta quella discrezione che è di regola in simili casi”.


La sera stessa, il giornale Le Soir rivelava in anteprima assoluta il nome del traditore: “L’ufficiale in questione si chiama Dreyfus”.


Il giorno dopo La libre parole titolava a caratteri cubitali: “Alto tradimento. Arresto dell’Ufficiale ebreo A. Dreyfus. L’indegno ufficiale è il capitano Dreyfus. Una comunicazione anonima (poi, si scoprirà essere stata opera del vice comandante dell’Ufficio Statistica, il Maggiore Hubert-Joseph Henry) che abbiamo ricevuto ieri sera dice testualmente: Dicono che l’ufficiale sia in missione, ma non è vero. L’affare sarà soffocato perché l’ufficiale è israelita… Arrestato da quindici giorni, ha fatto una confessione completa e si ha la PROVA ASSOLUTA che ha venduto i nostri segreti alla Germania…”


Il giorno successivo, 2 novembre, tutti i giornali aprirono con questo argomento.

 

Per Le petit journal, Dreyfus sarebbe stato colto in una trappola tesagli dal controspionaggio: era sospettato da tempo di rivelare al nemico i nomi degli ufficiali in missione segreta in Italia e Germania.

 

Le Matin spiegava che la condotta del capitano era stata ispirata da un desiderio di “vendetta personale: tutti i suoi colleghi venivano mandati in missione speciale all’estero, tranne lui”.

 

La Verité suggeriva al Presidente della Repubblica di “vietare subito agli ebrei la carriera militare”.

 

Drumont, sulla Libre parole del 3 novembre, attaccò a fondo: “Gli ebrei come Dreyfus sono probabilmente solo spie in sottordine, che lavorano per i grandi finanziari israeliti. Sono i meccanismi del grande complotto ebraico che ci consegnerebbe al nemico, mani e piedi legati, se non ci decidessimo, il giorno in cui scoppiasse la guerra, ad adottare misure di ‘salute pubblica’ nei loro confronti”.


Il 4 novembre, Drumont alzò il tiro: “Gli ebrei, che grazie alla complicità del ministro della Guerra hanno potuto, per quindici giorni, sperare che il crimine di Dreyfus non venisse divulgato, hanno avuto un momento di sbandamento quando la notizia è esplosa come un fulmine a ciel sereno. Ma si sono già ripresi, e stanno mettendo in opera di tutto per salvare la testa del loro correligionario…”


Sui giornali di destra, Mercier veniva duramente attaccato: “L’incuria, l’ignoranza e la malafede del ministro della Guerra fanno di lui quasi un complice del traditore”, scriveva Rochefort su L’Intransigeant. E Drumont incalzava: “Il vero furfante non è Dreyfus, è quel ministro che ha familiarità con tutte le bassezze…”


Già dal 1 novembre, il governo aveva deciso – nonostante l’opposizione del Ministro degli Esteri, Hanotaux, che temeva si venisse a sapere in che modo si fosse entrati in possesso del bordereau – di dar corso alla giustizia.

 

Il giorno 3, il generale Saussier, pur restando fermo nelle sue convinzioni (dieci giorni dopo confiderà al Presidente della Repubblica: “Dreyfus non è colpevole. Quell’imbecille di Mercier si è cacciato ancora una volta un dito nell’occhio!”), autorizzò l’apertura dell’istruttoria, che viene affidata al Maggiore d’Ormescheville.


L’istruttoria durò dal 7 novembre al 3 dicembre. Non rivelò nulla di nuovo, oltre al nulla già scoperto da Du Paty. Il processo venne fissato per il giorno 19 dicembre, in una sala della prigione di Cherche-Midi.

Il Consiglio di Guerra, presieduto dal colonnello Maurel e composto da sette giudici. Pubblico Ministero, il Maggiore Brisset. Avvocato di Dreyfus, un civile, Demange.

 

Il processo avanzò rapidamente. Il Pubblico Ministero cominciò ad usare i classici stereotipi sul marito infedele, il giocatore incallito che la stampa aveva già utilizzato per sotterrare Dreyfus. Queste notizie, nei fatti, erano vere. Peccato che si riferissero ad un omonimo.

 

Sfilarono alla sbarra anche i testimoni chiamata a difesa dell’imputato, tra i quali anche il rabbino capo di Parigi Zadoc-Kahn. Tutti giurarono sull’onestà del capitano. I testimoni a carico furono Henry e Du Paty. Quest’ultimo insistette sulle cosiddette ‘prove psicologiche’. Bertillon sostenne la bizzarra tesi dell’autofalsificazione: l’autore del documento era Dreyfus, ma, per redigerlo, egli aveva parzialmente modificato la propria scrittura, imitando quella di suo fratello Mathie.


All’improvviso Henry si fece richiamare alla sbarra. Dichiarò che una persona rispettabile, di cui non poteva fare il nome, lo aveva avvertito fin da marzo del fatto che un ufficiale del Ministero della Guerra tradiva. La medesima persona gli aveva precisato in luglio che il traditore apparteneva al Secondo Ufficio, “e il traditore eccolo qui davanti a voi!” esclamò.

 

Al che Dreyfus balzò in piedi, gridando che voleva conoscere il nome di colui che lo accusava. Ma Henry, flemmaticamente, rispose che “nella testa di un ufficiale ci sono segreti che neppure il suo kepi deve conoscere!”.

 

A questo punto, il Presidente del tribunale, piuttosto che insistere affinché si facesse il nome o, in mancanza, non si sarebbe tenuto conto della rivelazione, fece giurare Henry sul suo onore di militare che il traditore fosse proprio Dreyfus. Ed Henry giurò.


Il processo, a porte chiuse, durò solo tre giorni. I giudici si ritirarono in Camera di Consiglio. Demange era sicuro dell’assoluzione: non c’era alcuna prova della colpevolezza del suo cliente.

 

Ma la permanenza in camera di Consiglio si prolungava più del previsto. Perché? Cosa stava succedendo? Accadde che venne presentato ai giudici, all’insaputa del difensore, in violazione di qualsiasi norma di diritto processuale, un “dossier segreto”, consistente in quattro documenti corredati da un commento di Du Paty.

 

I primi tre riguardavano nell’ordine: i frammenti di una nota di Schwartzkoppen ai suoi superiori di Berlino in cui costui affermava di trovarsi in una “situazione pericolosa per me con un ufficiale francese…”; una lettera di Panizzardi a Schwartzkoppen del seguente tenore: “per la faccenda dei richiami alle armi limitati ad alcune regioni, i bandi sono diffusi solo nelle regioni interessate o in tutto lo Stato? Ho scritto al colonnello Davignon (responsabile delle relazioni con gli addetti militari stranieri, una sorta di capo ufficio stampa, che comunica tutte le notizie non coperte da segreto militare, n.d.a.); ma se lei ha l’occasione di parlarne col suo amico, lo faccia…”; una dichiarazione di Henry sulle rivelazioni dell’addetto militare spagnolo Val Carlos - al soldo dell’Ufficio di Statistica - (il quale avrebbe dichiarato che negli uffici dello Stato Maggiore c’era un ufficiale che informava “mirabilmente” il nemico: “avete un lupo nell’ovile” aggiungeva lo spagnolo).

 

In merito alla nota di accompagnamento di Du Paty, costui assicurava che i riferimenti delle lettere riguardavano tutte Dreyfus. Ma il documento più importante, compreso nel fascicolo, era una lettera dell’addetto militare italiano, Panizzardi, al collega tedesco Schwartzkoppen, firmata Alexandrine (la sigla che entrambi usano per la loro corrispondenza).

 

Questa lettera recava la seguente frase: “Mi spiace di non averla vista prima della mia partenza… Le accludo 12 piani direttivi di Nizza, che quella canaglia di D. mi ha dato per lei…”.

 

In realtà, l’Ufficio di statistica non aveva accluso al fascicolo un documento che dimostrava che quella canaglia di D. era un certo Dubois, agente da quattro soldi, il quale aveva venduto i piani direttivi di Nizza a 10 franchi l’uno.


Il Consiglio di Guerra, il 22 dicembre, emise all’unanimità il verdetto di colpevolezza, condannando il capitano alla degradazione e alla deportazione all’Isola del Diavolo, al largo delle coste della Caienna.

 

In realtà, secondo la legge 23 marzo 1872, promulgata in occasione della deportazione di coloro che avevano partecipato alla Comune di Parigi l’anno precedente, Dreyfus avrebbe dovuto essere deportato in Nuova Caledonia. Ma al governo il luogo era parso troppo ameno, paradisiaco quasi. E così, con una apposita legge varata il 9 febbraio 1895, alla Nuova Caledonia vennero aggiunte anche le Isole della Salute, nella Guyana francese, come “luogo di deportazione in recinto fortificato”.

 

L’isola di destinazione del capitano Dreyfus, l’Isola del Diavolo, è lunga 1200 metri per una larghezza di 400. “Così piccola e infinitamente triste” ha scritto Jacques Kayser, nipote e biografo del condannato, “che se non fosse stata una galera, si sarebbe potuto anche definirla una cella!”.


Ma prima occorreva espungergli i gradi militari. La cerimonia della degradazione ebbe luogo il 5 gennaio 1895, All’interno del cortile della Scuola Militare.

 

A Dreyfus vennero strappati i gradi e spezzata la spada di ordinanza. Egli si proclamava innocente e patriota. La folla urlava: “Morte al traditore!” ed appena uscì sotto scorta lo prese a bastonate, pugni e calci e solo con grande fatica la scorta riuscì ad evitargli il linciaggio.


All’indomani della cerimonia di degradazione, i giornali francesi, con in testa La libre parole e L’Intransigeant, ponevano l’accento sulla punizione inflitta non solo a un individuo, ma ad una intera, infida, razza: gli ebrei. Da più parte – compreso Jean Jaurès e George Clemenceau – si biasimò la corte per non aver accordato la pena di morte.


Improvvisamente si sparse la voce di una confessione di Dreyfus, tanto che occorse una smentita ufficiale per ripristinare la verità. Ma, intanto, La libre parole, a proposito della mancata condanna a morte, scriveva che si era giunti a tale scelta dopo che l’ambasciatore tedesco Munster, in un incontro con Mercier, si era richiamato al codice militare che prevedeva la deportazione a vita quale misura massima per l’alto tradimento.

 

Anche la smentita di quest’ultima notizia della Libre parole non venne creduta. Si pensò che la smentita servisse solo per calmare i tedeschi e ancora una volta l’ambasciatore Munster si trovò sotto il tiro della stampa.

 

Questa volta dovette intervenire il Kaiser, il quale impose a Munster di recarsi dal Presidente della Repubblica Casimir Perier per riferirgli che Sua Maestà si aspettava dal governo francese una azione decisa per far cessare ogni notizia in merito ad una implicazione tedesca nell’affare del capitano ebreo.

 

L’incontro avvenne il 6 gennaio. In quell’occasione Casimir Perier (che si sarebbe dimesso pochi giorni dopo, il 18 gennaio) rivelò a Munster l’esistenza del bordereau.

 

L’ambasciatore cadde dalle nuvole. Così come Schwartzkoppen, quando venne a sapere. E la cosa era vera. La smentita ufficiale francese, messa appunto d’intesa con i tedeschi, venne pubblicata dall’agenzia ufficiale Havas il 7 gennaio.


Intanto Dreyfus era stato trasferito a Cherche-Midi, in attesa di essere deportato all’Isola del Diavolo. Si aspettava che il tribunale condannasse un numero sufficienti di deportati per poter riempire la nave-prigione in partenza da La Rochelle.

 

Il 21 febbraio 1895, senza preavviso, mentre aspettava un’altra visita della moglie, venne fatto balzare sul St. Nazaire per il lungo viaggio verso l’Isola del Diavolo.

 

“Venne incatenato al sedile della cella. Furono fatti i preparativi per difendere la nave in caso di attacco in alto mare. Pensavano che gli ebrei avessero una loro marina? La storia tace su questo punto. Registra solo che i carcerieri di Dreyfus non lasciarono nulla al caso.”

 

 

 

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