L’affaire Dreyfus, i cui prodromi si
manifestarono nel settembre del 1894, scoppiò in tutta
la sua veemenza solo più tardi, quando venne dimostrato
che l’imputazione e la condanna del capitano d’origine
ebraica erano state frutto di un processo che esulava
dalle norme della giustizia militare, e che l’accusa si
era basata su prove false e fabbricate ad arte.
Dalla condanna (1894) alla riabilitazione (1906), l’affaire
mise in luce le profonde divisioni della società
francese, che si manifestarono in un esacerbato
infuriare di antisemitismo, antimilitarismo e
nazionalismo: questi gli aspetti che si profilarono
lungo lo svolgimento di un caso che resterà uno dei
principali motivi degli scontri interni alla società
francese e getterà le basi per molti dei temi, tragici,
che domineranno il panorama del Novecento.
Con la vicenda del capitano Alfred Dreyfus nasceranno il
moderno antisemitismo, lucidamente teorizzato,
perseguito ed applicato, ma anche quel sionismo che
troverà – dopo il genocidio hitleriano – compimento
nella proclamazione dello Stato di Israele, il 27 aprile
1948.
Con esso si rivelerà anche una nuova classe di
“intellettuali” (il termine verrà coniato proprio in
questa occasione) impegnati, come gruppo organico, nella
vita sociale e politica. Nasceranno nuovi strumenti
comunicativi, dalla lettera aperta alla petizione
popolare, ma, soprattutto, si affermerà il ruolo
pervasivo della stampa.
Giacché – come ha scritto Pierre Miquel – l’affaire
sarà innanzitutto una questione di opinione, il ruolo
principe lo assumerà la stampa, una stampa spesso
partigiana, aggressiva, provocatoria, volontariamente
manipolatrice.
Sarà in buona parte la stampa, soprattutto quella di
tendenze nazionaliste, antisemite e militariste, che
contribuirà a dipingere il caso come pregno di
ambiguità, sconcertante, enigmatico. In molte occasioni
lancerà delle false accuse per poter alimentare il
dibattito e lo scandalo, grazie alle inevitabili
smentite. Essa, in molti momenti, si sostituirà alla
giustizia, alla polizia, al Parlamento stesso. Non
guarderà in faccia nessuno, creerà e distruggerà
reputazioni, incurante di ricadute e possibili danni.
Emergerà così come quel ‘quarto potere’ di cui parlarono
a suo tempo Babington Macaulay e Thomas Carlyle capace
di dare linfa vitale alla battaglia politica, ma anche
spostare consensi, opinioni (e voti), approfittando di
una opinione pubblica sempre più famelica di notizie
sensazionali e scandalistiche.
Per concludere, si può tranquillamente affermare che, a
dispetto della proposta di secolo breve di Eric Hobsbawm,
è con l’affaire che si getteranno le basi del
Novecento, il quale diventerà in tal modo piuttosto un
Lungo Novecento.
La drammatica vicenda del capitano d’artiglieria
dell’esercito francese Alfred Dreyfus ebbe inizio il 26
settembre 1894, con la scoperta di un biglietto anonimo
e non datato (bordereau) in cui un ufficiale di
Stato Maggiore francese comunicava all’addetto militare
dell’ambasciata tedesca von Schwartzkoppen, un elenco di
documenti da inviare, relativi all’organizzazione
dell’esercito francese e ad alcuni piani di strategia
militare.
L’elenco era stato trovato, strappato in mille pezzi,
dentro un cestino dei rifiuti da Marie Bastian, una
donna delle pulizie dell’ambasciata tedesca. Quel
lavoro, la signora Bastian, doveva svolgerlo con una
certa solerzia visti i 250 franchi che il
controspionaggio francese le passava per ottenere quei
fogli finiti nel cestino. La donna fece pervenire quel
biglietto al maggiore Hubert-Joseph Henry, del
controspionaggio francese.
In realtà, in quel periodo e specificamente negli anni
che vanno dal 1888 al 1894 gli scandali collegati
all’attività di spie erano all’ordine del giorno.
Maurice Baumont, nel suo libro Aux sorces de
l’Affaire, ricorda come in questo arco di tempo vi
sono almeno cinque casi di spionaggio scoperti (senza
contare i clamorosi affaires Milleschamps e Giletta):
nel 1888 era stato l’aiutante Chatelein ad essere
arrestato; nel 1890 era toccato al tenete Jean Bonnet,
al capitano Guillot ed all’artificiere Thomas. Due anni
dopo era stata la volta di Joseph Greiner, figlio di un
farmacista di Toul e impiegato civile presso il
Ministero della Marina: sarebbe stato condannato a venti
anni di lavori forzati.
Come ricorda Baumont, all’epoca si parlava con una certa
frequenza di un “vero traffico di mappe di
fortificazioni, specialmente della zona della Mosa e
della regione di Nizza”. Nel marzo del 1894, un agente
francese, che intascava un assegno mensile per passare
le sue informazioni al controspionaggio, il marchese di
Val Carlos, vecchio addetto militare spagnolo a Parigi,
consigliava di “raddoppiare la sorveglianza al ministero
della Guerra”. Secondo lui, negli uffici dello Stato
Maggiore, c’era un ufficiale che informava
“ammirabilmente” tedeschi e italiani.
Il 12 gennaio 1895, una quindicina di giorni dopo la
condanna di Dreyfus da parte del Consiglio di Guerra, il
principe Clovis de Hohenlohe-Schillingsfurt, cancelliere
tedesco, con un passato di ambasciatore a Parigi dal
1874 al 1885, incontrando l’ambasciatore francese
Herbetta, ammetteva di essere poco favorevole
all’istituto degli addetti militari.
Lo spionaggio, dunque, era all’ordine del giorno. Ma non
sempre si trattava di operazioni serie e, ancor più,
utili alla causa nazionale. Tutt’altro.
Considerato che venivano retribuite lautamente, queste
spie, pur di intascare il denaro, non disdegnavano di
amplificare o, addirittura inventare di sana pianta
fatti ed eventi che dessero, agli occhi dei ‘committenti’,
“prova di zelo”, facendogli guadare denaro. Come si
espresse il duca di Otranto Joseph Fouché, “se essi non
sanno niente, se lo inventano”, se per caso scoprivano
qualcosa, lo amplificavano per rendersi importanti.
Peraltro, non erano solo i francesi ad avere il pallino
dello spionaggio.
Nel 1893, due ufficiali della marina transalpina, Degouy
e Delguey-Malays, erano stati arrestati tedeschi a Kiel
con l’accusa di spionaggio. Il capitano Romani era stato
condannato da un tribunale italiano, a Sanremo, sempre
per spionaggio, mentre madame Ismert, moglie di un
anziano ispettore speciale di polizia di
Pagny-sur-Moselle, era stata arrestata in Germania per
spionaggio alla fine di agosto del 1894.
Tuttavia, i casi di Madame Milleschamps e quello del
generale italiana Giletta di san Giuseppe – il primo
venuto alla luce poco prima dello scoppio dell’Affaire,
il secondo rivelatosi quasi un mese prima dell’inizio
del processo di revisione per Dreyfus - furono gli
eventi più clamorosi, quelli che calamitarono
maggiormente l’attenzione di giornali ed opinione
pubblica francesi.
Il primo di questi casi fu quello che vide protagonista
Madame Foret, soprannominata Millescahmps, amante di
Brucker, importante agente francese.
Costei aveva denunciato il suo amante al ministro della
Guerra, il generale Loinzillon, predecessore di Mercier,
perché, nel corso di una conversazione, Brucker aveva
confessato che, nel caso in cui i tedeschi gli avessero
offerto quarantamila o cinquantamila franchi, non
avrebbe avuto remore ad accettare, fornendo – s’intende
–informazioni riservate.
Saputo della denuncia della donna, Brucker ricambiò con
la stessa pariglia: la denunciò, accusandola, in più, di
avergli sottratto delle carte segrete per passarle ai
tedeschi.
In un altalenarsi di accuse e controaccuse, l’intricata
vicenda, in cui affari di donne e retorica patriottarda
si fondevano in una miscela che rasentava il ridicolo,
la donna, ufficialmente accusata di spionaggio ed
arrestata il 28 dicembre 1893, venne condannata a cinque
anni di reclusione il 3 gennaio 1894.
Il secondo caso scoppia il 13 giugno 1899 (il processo
di Rennes sarebbe iniziato l’8 agosto). Il generale
italiano Giletta di San Giuseppe venne arrestato a Nizza
con l’accusa di spionaggio. Si trova in possesso di
carte topografiche della zona alpina francese contornate
da appunti, note, misurazioni di strade, ponti e quant’altro.
Nel corso del primo interrogatorio il generale italiano
sostenne che si trattava di annotazioni personali dovute
alla sua mania di prendere appunti su tutto ciò che
vedeva, da acuto ed attento viaggiatore, ma non venne
creduto.
La vicenda venne gestita dai dicasteri degli esteri dei
due Paesi, a capo dei quali c’erano Visconti Venosta e
Delcassé, i quali agirono per il tramite dei rispettivi
ambasciatori, Tornielli a Parigi e Barrère a Roma.
Visto che un processo contro il generale – nel clima
infervorato dell’Affaire - non poteva essere
evitato, venne trovato un compromesso accettabile tra le
parti.
Il processo ci fu (a porte chiuse) e il generale venne
condannato a cinque anni di carcere. Gli italiani, in
cambio della rinuncia a presentare appello, ottennero
che venisse concessa la grazia. I francesi accettarono,
purché il governo italiano, al rientro del generale in
Italia, provvedesse a comminargli una sanzione
disciplinare.
Tutto avvenne secondo quanto stabilito.
Il 26 giugno Giletta venne condannato, il 7 luglio
Delcassé presentò al Consiglio dei Ministri la domanda
di grazia, l’11 luglio il generale venne rilasciato ed
accompagnato alla frontiere, presso Ventimiglia. Se la
cavò con un biasimo ufficiale da parte dello Stato
Maggiore italiano.
In questo contesto, pertanto, la scoperta di un caso di
spionaggio non giunse inaspettata: nei ranghi
dell’esercito francese echeggiava con insistenza, fin
dal 1870, la parola “tradimento”, con cui si cercava di
spiegare la sconfitta subita a Sedan nella guerra contro
la Prussia. Inoltre – come nota Eugen Weber – la Francia
era un paese in cui da un secolo non vi era stata
generazione che non avesse conosciuto una rivoluzione o
un colpo di stato, “un paese che ondeggiava tra l’una e
l’altro quando Dreyfus fu processato nel 1894 e nel
1899”.
Una lunga serie di scandali aveva scosso la repubblica
ed indebolito il prestigio dei suoi leaders. “La classe
politica temeva un colpo di stato: persino Pissarro
riteneva che ve ne fosse uno in preparazione”.
Sul piano internazionale, la Francia si trovava in
pessimi rapporti non solo con la Germania e tutto
l’Impero austro-ungarico, ma anche con l’Italia e con
l’Inghilterra. Con l’Italia i problemi riguardavano i
dissapori per la questione tunisina (1881), conclusasi a
vantaggio della Francia, e per i tentativi italiani –
garante la Germania, in virtù dell’inserimento della
seconda clausola in occasione del rinnovo della Triplice
Alleanza del 1887 – di estendere la propria influenza in
Marocco e Tunisia.
Ancora più complessi erano le relazioni con
l’Inghilterra. Nell’estate e nell’autunno del 1898
scoppiò la contesa per il controllo delle sorgenti del
Nilo.
“La crisi di Fashoda fu così grave - ricorda Weber – che
Paul Valery, che allora lavorava al ministero della
Guerra, affermò che presto sarebbe scoppiato un
conflitto armato con l’Inghilterra”.
Sul piano interno, nel 1882 era fallito l’Istituto di
credito cattolico Union Générale e dieci anni dopo i
piccoli risparmiatori erano stati rovinati dal
fallimento della Compagnia che avrebbe dovuto gestire il
Canale di Panama.
Intanto, gli anni 1886-1889 erano stati segnati
dall’ascesa della stella del generale Boulanger e del
suo tentativo – sostenuto da clero, monarchici e destra
reazionaria, comprese alcune alte gerarchie militari -
di instaurare un regime autoritario.
Ad infervorare maggiormente gli animi era intervenuto,
nel 1886, il libro di Edouard Drumont, La France
juive.
In questo libro, che aveva ottenuto un clamoroso
successo di pubblico, Drumont indicava negli ebrei i
massimi responsabili dei mali della Francia. Una teoria
che colpì nel segno, vista la grave crisi economica in
cui si dibatteva il Paese. Come ricorda Fausto Coen, “le
teorie di Drumont – che pure in politica si professava
repubblicano e non conservatore – erano non solo
antisemite ma esplicitamente razziste.
Nella sua opera interpretava secoli di storia come una
eterna contesa tra ariani e semiti, anticipando di
cinquant’anni le teorie di Hitler. Dopo il successo del
suo libro, Drumont fondò il giornale La libre parole,
che avrebbe avuto un ruolo chiave nella vicenda Dreyfus.
Nei primi anni Novanta, inoltre, si era radicalizzato il
nazionalismo in chiave aggressiva nei confronti dei
lavoratori stranieri immigrati, in particolare gli
italiani, presenti in gran numero nella Francia
meridionale, come attestano i sanguinosi episodi di
caccia allo straniero verificatisi nel 1893 ad
Aigues-Mortes ed un anno dopo a Lione.
Il punto di partenza dell’affaire fu
l’intercettazione da parte dei Servizi Segreti francesi
del famoso bordereau.
Cosa c’era scritto? E chi ne era l’autore?
Il foglio trovato da Mme Bastian diceva:
“Pur in assenza di notizie che mi indichino se Lei
desidera vedermi, Le invio intanto qualche informazione
interessante: una nota sul freno idraulico 120 e in che
modo si è comportato quel pezzo (une note sur le
frein hydraulique du 120 et la manierère dont s’est
conduite cette pièce) una nota sulle truppe di
copertura (al nuovo piano verranno apportate alcune
modifiche); una nota su una modifica alle formazioni di
artiglieria; una nota relativa al Madagascar; il
Progetto del manuale di tiro dell’artiglieria da
campagna (è del 14 marzo 1894). Il documento di cui al
punto 5 è molto difficile da ottenere e io posso averlo
a disposizione solo per pochi giorni. Il ministero della
Guerra infatti ne ha inviato un numero stabilito ai
reggimenti ciascuno dei quali è responsabile della copia
ricevuta. Ogni ufficiale che lo ha in consegna dovrà
restituirlo dopo le manovre. Se Lei vuol ricavarne la
parte che interessa e poi farmelo riavere, me lo farò
dare. A meno che Lei non preferisca che io lo faccia
ricopiare integralmente e che io Le invii la copia. Sto
per partire per le manovre (je vais partir en
manoeuvres)”.
Preliminarmente, qualcuno ha notato come apparisse
strano che un ufficiale come Dreyfus, uscito dal
Politecnico con un voto decisamente alto, commettesse
degli errori evidenti come quelli più sopra evidenziati.
Infatti, parlando del freno idraulico, non avrebbe
scritto – come nota Baumont – “(…) la manière dont se
conduite cette pièce”, ma più correttamente “(…) la
manière dont s’est comportée cette pièce”. Inoltre, non
avrebbe scritto “partir en manoeuvres”, ma “partir aux
manoeuvres”.
Il bordereau pervenne all’ambasciata tedesca
intorno al 25 o al 26 di settembre 1894, mentre
l’addetto militare Schwartzkoppen si trovava a Berlino.
Ovviamente non si poteva pensare di trovare un
‘traditore’ tra gli ufficiali dello stato maggiore, che
era una casta rigidamente selezionata di origine
prevalentemente nobiliare. Si pensò quindi che il
colpevole potesse annidarsi fra i giovani ufficiali che
svolgevano il loro tirocinio presso lo stesso Stato
Maggiore e fra questi spiccò subito un nome che nobile
non era, ma suonava piuttosto come ebreo e come tedesco:
Alfred Dreyfus, alsaziano.
Dreyfus, per certi versi, era un predestinato ad essere
sospettato. Sgobbone, introverso, freddo, intelligente,
emergente, alsaziano (e, quindi, per molti, ad alto
rischio di ‘tedeschizzazione’), ma soprattutto ebreo.
In realtà, l’attaccamento alla Francia da parte del
Capitano Dreyfus era profondo e sincero, tanto che la
sua famiglia, all’indomani della disfatta di Sedan del
1870, aveva optato senza indugio per il paese di cui, da
più di duecento anni, si sentivano cittadini piuttosto
che per l’Impero del Kaiser.
In più, le sue condizioni economiche erano di tutta
tranquillità. Oltre che sullo stipendio, la sua famiglia
poteva contare su una rendita di circa quattrocentomila
franchi, investiti nell’azienda familiare. A questo
capitale si era poi aggiunto quello della cospicua dote
della moglie, Lucie Hadamard, ebrea anch’essa, figlia di
un facoltoso commerciante in preziosi.
Un tradimento per lucro o per necessità, così come uno
per semplici simpatie filotedesche, era a dir poco
improbabile.
La condotta militare e la vita privata del capitano
erano irreprensibili. Le carte del suo dossier personale
non lasciano ombra di dubbio: aveva un “carattere
facile, un’educazione ottima, una istruzione generale
vasta” e soprattutto “una condotta molto buona”. Montava
anche bene a cavallo.
Unico neo spiacevole: era miope e doveva portare gli
occhiali. Ammesso all’Ecole Polytechnique come
sessantasettesimo su ottantuno, ne era uscito nono su
ottantuno. Uno studente modello, quindi.
“Le uniche riserve – scrive Coen – riguardavano
piuttosto il suo carattere, il suo comportamento di
ufficiale in un certo senso ‘anomalo’. Lavorava
appartato dai suoi colleghi, non entrava nei
pettegolezzi, né nei discorsi così frequenti tra gli
ufficiali: donne, avventure, serate mondane, gioco… Era
al contrario silenzioso e riservato. Questo faceva
ritenere a molti che fosse superbo, che si sentisse
superiore agli altri in quanto ricco.”
Quando il bordereau cominciò a circolare negli
uffici dello Stato Maggiore, vi furono due grafologi
dilettanti, il maggiore Du Paty de Clam ed il colonnello
D’Aboville, che si orientarono verso la grafologia
dell’ufficiale di artiglieria Dreyfus.
Du Paty de Clam, uomo dedito a vaste e disorganiche
letture poliziesche, appassionato di occultismo e
spiritismo, oltre che pretenziosamente convinto di avere
escogitato delle ‘prove psicologiche’ inconfutabili per
leggere nell’animo degli altri, fui incaricato il 7
ottobre 1894 di valutare la scrittura del documento
ritrovato e scoprirne il misterioso autore.
Egli dichiarò che tra la grafia di Dreyfus e quella del
bordereau c’era “una somiglianza sufficiente per
giustificare una perizia legale”.
Intanto il Vice-Capo di Stato Maggiore Charles Gonse
aveva provveduto ad informare i suoi superiori, a
cominciare dal generale Charles Boisdeffre, Capo di
Stato Maggiore dell’Esercito, di quanto stava accadendo.
Boisdeffre, a sua volta, trasmise la notizia al Ministro
della Guerra, il generale Auguste Mercier. Quest’ultimo
passò la notizia al Presidente Jean Casimir-Périer, il
quale convocò il premier Charles Dupuy.
Visto il responso di Du Paty de Clam, il ministro
Mercier fece appello a un esperto grafologo della Banca
di Francia, Alfred Golbert.
Costui accertò che: il bordereau era rapido e
spontaneo; vi erano uguaglianze con la grafia di Dreyfus
nei caratteri generali, vi erano anche uguaglianze nei
particolari, ma vi erano anche numerose ed importanti
diversità.
Vale la pena sottolineare a tal proposito – come fa Coen
– che il tipo di scrittura impiegato anche dall’autore
del bordereau era alquanto diffuso all’epoca e
reperibile in una gran quantità di carte, relazioni,
rapporti, provvedimenti amministrativi, lettere private.
La spiegazione è semplice: il sistema scolastico
francese non si era ancora emancipato dalle cosiddette
‘scritture a modello unico’ (più note in Italia come
‘versioni in bella scrittura’) su cui a scuola, fin
dalla prima classe elementare, tutti gli studenti si
esercitavano correntemente
.
In considerazione delle valutazioni di Golbert, il
Ministro della Guerra si indirizzò ad Alphonse Bertillon,
che all’epoca dirigeva il Servizio d’identità
giudiziaria della prefettura di polizia.
Questo personaggio merita due parole di approfondimento:
Alphonse Bertillon era, all’epoca, il massimo
specialista di fotografia giudiziaria e, dopo la sua
morte, avvenuta nel 1914, il suo nome sarebbe rimasto
legato alla pratica dell’antropometria giudiziaria.
Figlio di un medico, era entrato come protocollista alla
Prefettura di Polizia e si era interessato alla
identificazione dei criminali, che allora era empirica,
grossolana e si prestava ad errori, frodi e corruzioni.
Egli ebbe l’intuizione ed il coraggio di applicare
all’identificazione dei criminali i criteri
dell’antropometria, ossia della misurazione di certe
variabili del corpo: testa (lunghezza e larghezza),
diametro bizigomatico, piedi, dita, ecc.
Era, in buona sostanza, l’applicazione alla
criminalistica della metodologia etnologica del Quetelet,
integrata dal cosiddetto ‘ritratto parlato’, inventato
dal Bertillon medesimo, che è una descrizione analitica
dei tratti somatici e delle peculiarità (i contrassegni)
quali nei, cicatrici, angiomi, ecc...
Il funzionario, al contrario, guardava con molta
diffidenza all’identificazione basata sulla
dattiloscopia, alle impronte digitali, insomma, in cui
vedeva una pericolosa concorrente del suo metodo,
piuttosto che un avanzamento della scienza.
Come ricorda Nicholas Halasz, “quando le impronte
digitali furono presentate come metodo d’identificazione
più sicuro e meno scomodo, egli non le prese neanche in
considerazione ed il suo prestigio era tale che le
impronte digitali per ancora vent’anni non fecero molta
strada fra la polizia”.
Il colpo di grazia al metodo antropometrico di Bertillon
venne da un avvenimento tanto curioso quanto prevedibile
(col senno di poi).
Il fatto accadde a Leavenworth, una prigione del Kansas,
negli Stati Uniti. “Un prigioniero in arrivo – ricorda
ancora Halasz – venne fotografato nel solito modo e
fatto passare per le normali misure antropometriche
Bertillon. Si chiamava William West.
L’archivio Bertillon della prigione mostrò che egli era
già stato incarcerato per omicidio. Egli negava
ostinatamente e continuò a proclamarsi innocente di
questa colpa anche quando fu posto di fronte al fatto
che sette delle undici caratteristiche Bertillon erano
uguali a quelle di William West detenuto per omicidio e
che le altre quattro differivano solo minimamente.”
Il prigioniero non venne creduto finché non si andò a
scartabellare tra i registri degli ospiti. Venne fuori,
allora, che il William West che era stato imprigionato
per omicidio stava scontando la pena nello stesso
Leavenworth da dieci anni.
“Fu un colpo – aggiunge Halasz - da cui l’antropometria
non si rimise mai del tutto. Ma Bertillon sì, con il
semplice sistema di passare alle impronte digitali”.
Bertillon, nonostante non fosse un perito grafico,
limitandosi invece a fotografare i documenti per uso
poliziesco o giudiziario ed a ingrandirli per renderli
più facilmente esaminabili, accettò l’incarico.
Improvvisando tutto, fermò la sua attenzione sulla
valutazione dei caratteri intrinseci del bordereau
piuttosto che sul confronto tra la grafia di Dreyfus e
quella del documento incriminato. E fu un errore fatale.
Egli, suggestionato anche dallo Stato maggiore che gli
insinuò esserci prove schiaccianti contro il capitano
ebreo, concluse col dire: “Se si scarta l’ipotesi di un
documento falsificato con la più grande diligenza,
appare manifesto per noi che è la stessa persona che ha
scritto tutti i documenti di comparazione e quello
incriminato”.
A questo proposito c’è da ricordare che solo
successivamente egli maturò l’ipotesi della cosiddetta ‘autofalsificazione’,
che divenne il cardine della sua teoria.
Tale autofalsificazione consisterebbe, in breve, in un
artificio messo in opera coscientemente dall’autore del
bordereau al fine di alterare lievemente il
grafismo, intercalando ritocchi, incertezze, errori,
cioè difetti propri dell’imitazione.
E ciò per poter sostenere, nel caso in cui venisse
smascherato, che si trattava dell’imitazione della sua
scrittura fatta da altri. Bertillon si innamorò a tal
punto della sua stramba teoria che per assecondare le
sue fantasie adattò il bordereau alle sue
conclusioni, trattando, manipolando, il documento
primitivo sulle tavole fotografiche, sicché la nota,
malamente ricostruito a mosaico (si ricorderà che era
stato trovato a pezzetti da Mme Bastian) ne risultò
alterata, ingrandita, rimpicciolita, ritoccata,
ricalcata, ritagliata, incollata, truccata, ad uso e
consumo della teoria dell’autofalsificazione.
Fu in base a queste cervellotiche assunzioni (definite
da Georges Clemenceau “ipotesi abracadabresche”) che
venne fuori la famosa esposizione durante le udienze del
primo processo, in cui dipinse Dreyfus come una sorta di
genio del male attento a difendersi da ogni tipo di
attacco, da destra e da sinistra, da pericoli reali o
immaginari, capace di asserragliarsi in una cittadella
fortificata di multipli e sottomultipli, di misure
arzigogolate e codici segreti per rovinare la Francia ed
il suo glorioso esercito.
Al parere di Bertillon fu deciso di affiancarne degli
altri. I nuovi periti furono: Pelletier, Charavay e
Theyssonieres. Pelletier, redattore al Ministero delle
Belle Arti, terzo perito, rifiutò l’offerta non certo
disinteressata di ‘aiuto’ fattagli da Bertillon.
Charavay, quarto perito, commerciante di autografi
accettò di essere ‘aiutato’ e produsse una perizia ‘logica’.
Secondo lui, il bordereau era segreto e
pericoloso: dunque, doveva essere dissimulato.
Conseguentemente, le uguaglianze contavano e le
diversità no.
In base a questo bizzarro ragionamento, concluse per la
colpevolezza di Dreyfus. Theyssonieres, quinto perito,
incisore, accettò anch’egli di essere ‘aiutato’ da
Bertillon. Fece una perizia ‘calligrafica’. Non si
occupò di caratteri generali. Si soffermò su pretese
sovrapponibilità parziali e approssimative, per
sostenere il ricalco. Concluse per la colpevolezza di
Dreyfus.
Pertanto dei cinque calligrafi consultati, solo tre si
dichiararono favorevoli a riconoscere nel capitano
sospettato l’autore dell’elenco. Ciò nonostante, a
conclusione dell’inchiesta si ritenne che le prove
fossero sufficienti per portare Dreyfus davanti al
Consiglio di Guerra, cioè alla Corte marziale, con
l’accusa di alto tradimento.
Le alte gerarchie, il Presidente della Repubblica, Jean
Camir-Périer (succeduto a Sadi Carnot, assassinato
dall’anarchico italiano Sante Caserio il 24 giugno
precedente) e un’opinione pubblica avvelenata da idee
antisemite e da un acceso nazionalismo, spingevano per
fare di Dreyfus il colpevole. Il 5 ottobre 1894 il
bordereau venne attribuito ufficialmente al
sospettato.
Dieci giorni dopo, il 15 ottobre, Dreyfus fu convocato
al Ministero della Guerra da Du Paty de Clam, il quale
gli dettò un lettera da confrontare poi con il
bordereau.
Du Paty de Clam era anch’egli un personaggio – diciamo
così – originale. Si interessava di studi di
parapsicologia, interrogava tavolini parlanti, evocava
spettri ed aveva nel sangue il culto della spy-story.
Naturalmente era un antisemita viscerale ed era
ossessionato, come tutti nello Stato Maggiore, dalle
“gole profonde”. Si illudeva di essere anche un fine
psicologo.
Per due settimane Dreyfus, preso in consegna dal
maggiore Forzinetti, che lo aveva rinchiuso in una cella
di detenzione, venne interrogato a oltranza. L’unico
che, grazie alla sua lunga esperienza di prigionieri, si
fosse convinto dell’assoluta innocenza del capitano era
Forzinetti.
Il 29 ottobre, in un trafiletto di sei righe, nel
giornale di Drumont, La libre parole, chiedeva
retoricamente: “è
vero che recentemente è stato operato un arresto molto
importante per ordine dell’autorità militare?
L’arrestato sarebbe accusato di spionaggio. Se la
notizia è vera, perché l’autorità militare serba un
silenzio assoluto? Una risposta s’impone”.
Il 31 ottobre, l’agenzia ufficiale Havas rispondeva:
“Presunzioni molto serie hanno motivato l’arresto
provvisorio di un ufficiale sospettato di aver
comunicato a uno straniero alcuni documenti di scarsa
importanza ma di natura confidenziale. L’inchiesta
prosegue con tutta quella discrezione che è di regola in
simili casi”.
La sera stessa, il giornale Le Soir rivelava in
anteprima assoluta il nome del traditore: “L’ufficiale
in questione si chiama Dreyfus”.
Il giorno dopo La libre parole titolava a
caratteri cubitali: “Alto tradimento. Arresto
dell’Ufficiale ebreo A. Dreyfus. L’indegno ufficiale è
il capitano Dreyfus. Una comunicazione anonima (poi, si
scoprirà essere stata opera del vice comandante
dell’Ufficio Statistica, il Maggiore Hubert-Joseph Henry)
che abbiamo ricevuto ieri sera dice testualmente: Dicono
che l’ufficiale sia in missione, ma non è vero. L’affare
sarà soffocato perché l’ufficiale è israelita… Arrestato
da quindici giorni, ha fatto una confessione completa e
si ha la PROVA ASSOLUTA che ha venduto i nostri segreti
alla Germania…”
Il giorno successivo, 2 novembre, tutti i giornali
aprirono con questo argomento.
Per Le petit journal, Dreyfus sarebbe stato colto
in una trappola tesagli dal controspionaggio: era
sospettato da tempo di rivelare al nemico i nomi degli
ufficiali in missione segreta in Italia e Germania.
Le Matin spiegava che la condotta del capitano
era stata ispirata da un desiderio di “vendetta
personale: tutti i suoi colleghi venivano mandati in
missione speciale all’estero, tranne lui”.
La Verité suggeriva al Presidente della
Repubblica di “vietare subito agli ebrei la carriera
militare”.
Drumont, sulla Libre parole del 3 novembre,
attaccò a fondo: “Gli ebrei come Dreyfus sono
probabilmente solo spie in sottordine, che lavorano per
i grandi finanziari israeliti. Sono i meccanismi del
grande complotto ebraico che ci consegnerebbe al nemico,
mani e piedi legati, se non ci decidessimo, il giorno in
cui scoppiasse la guerra, ad adottare misure di ‘salute
pubblica’ nei loro confronti”.
Il 4 novembre, Drumont alzò il tiro: “Gli ebrei, che
grazie alla complicità del ministro della Guerra hanno
potuto, per quindici giorni, sperare che il crimine di
Dreyfus non venisse divulgato, hanno avuto un momento di
sbandamento quando la notizia è esplosa come un fulmine
a ciel sereno. Ma si sono già ripresi, e stanno mettendo
in opera di tutto per salvare la testa del loro
correligionario…”
Sui giornali di destra, Mercier veniva duramente
attaccato: “L’incuria, l’ignoranza e la malafede del
ministro della Guerra fanno di lui quasi un complice del
traditore”, scriveva Rochefort su L’Intransigeant.
E Drumont incalzava: “Il vero furfante non è Dreyfus, è
quel ministro che ha familiarità con tutte le bassezze…”
Già dal 1 novembre, il governo aveva deciso – nonostante
l’opposizione del Ministro degli Esteri, Hanotaux, che
temeva si venisse a sapere in che modo si fosse entrati
in possesso del bordereau – di dar corso alla giustizia.
Il giorno 3, il generale Saussier, pur restando fermo
nelle sue convinzioni (dieci giorni dopo confiderà al
Presidente della Repubblica: “Dreyfus non è colpevole.
Quell’imbecille di Mercier si è cacciato ancora una
volta un dito nell’occhio!”), autorizzò l’apertura
dell’istruttoria, che viene affidata al Maggiore d’Ormescheville.
L’istruttoria durò dal 7 novembre al 3 dicembre. Non
rivelò nulla di nuovo, oltre al nulla già scoperto da Du
Paty. Il processo venne fissato per il giorno 19
dicembre, in una sala della prigione di Cherche-Midi.
Il Consiglio di Guerra, presieduto dal colonnello Maurel
e composto da sette giudici. Pubblico Ministero, il
Maggiore Brisset. Avvocato di Dreyfus, un civile,
Demange.
Il processo avanzò rapidamente. Il Pubblico Ministero
cominciò ad usare i classici stereotipi sul marito
infedele, il giocatore incallito che la stampa aveva già
utilizzato per sotterrare Dreyfus. Queste notizie, nei
fatti, erano vere. Peccato che si riferissero ad un
omonimo.
Sfilarono alla sbarra anche i testimoni chiamata a
difesa dell’imputato, tra i quali anche il rabbino capo
di Parigi Zadoc-Kahn. Tutti giurarono sull’onestà del
capitano. I testimoni a carico furono Henry e Du Paty.
Quest’ultimo insistette sulle cosiddette ‘prove
psicologiche’. Bertillon sostenne la bizzarra tesi dell’autofalsificazione:
l’autore del documento era Dreyfus, ma, per redigerlo,
egli aveva parzialmente modificato la propria scrittura,
imitando quella di suo fratello Mathie.
All’improvviso Henry si fece richiamare alla sbarra.
Dichiarò che una persona rispettabile, di cui non poteva
fare il nome, lo aveva avvertito fin da marzo del fatto
che un ufficiale del Ministero della Guerra tradiva. La
medesima persona gli aveva precisato in luglio che il
traditore apparteneva al Secondo Ufficio, “e il
traditore eccolo qui davanti a voi!” esclamò.
Al che Dreyfus balzò in piedi, gridando che voleva
conoscere il nome di colui che lo accusava. Ma Henry,
flemmaticamente, rispose che “nella testa di un
ufficiale ci sono segreti che neppure il suo kepi deve
conoscere!”.
A questo punto, il Presidente del tribunale, piuttosto
che insistere affinché si facesse il nome o, in
mancanza, non si sarebbe tenuto conto della rivelazione,
fece giurare Henry sul suo onore di militare che il
traditore fosse proprio Dreyfus. Ed Henry giurò.
Il processo, a porte chiuse, durò solo tre giorni. I
giudici si ritirarono in Camera di Consiglio. Demange
era sicuro dell’assoluzione: non c’era alcuna prova
della colpevolezza del suo cliente.
Ma la permanenza in camera di Consiglio si prolungava
più del previsto. Perché? Cosa stava succedendo? Accadde
che venne presentato ai giudici, all’insaputa del
difensore, in violazione di qualsiasi norma di diritto
processuale, un “dossier segreto”, consistente in
quattro documenti corredati da un commento di Du Paty.
I primi tre riguardavano nell’ordine: i frammenti di una
nota di Schwartzkoppen ai suoi superiori di Berlino in
cui costui affermava di trovarsi in una “situazione
pericolosa per me con un ufficiale francese…”; una
lettera di Panizzardi a Schwartzkoppen del seguente
tenore: “per la faccenda dei richiami alle armi limitati
ad alcune regioni, i bandi sono diffusi solo nelle
regioni interessate o in tutto lo Stato? Ho scritto al
colonnello Davignon (responsabile delle relazioni con
gli addetti militari stranieri, una sorta di capo
ufficio stampa, che comunica tutte le notizie non
coperte da segreto militare, n.d.a.); ma se lei ha
l’occasione di parlarne col suo amico, lo faccia…”; una
dichiarazione di Henry sulle rivelazioni dell’addetto
militare spagnolo Val Carlos - al soldo dell’Ufficio di
Statistica - (il quale avrebbe dichiarato che negli
uffici dello Stato Maggiore c’era un ufficiale che
informava “mirabilmente” il nemico: “avete un lupo
nell’ovile” aggiungeva lo spagnolo).
In merito alla nota di accompagnamento di Du Paty,
costui assicurava che i riferimenti delle lettere
riguardavano tutte Dreyfus. Ma il documento più
importante, compreso nel fascicolo, era una lettera
dell’addetto militare italiano, Panizzardi, al collega
tedesco Schwartzkoppen, firmata Alexandrine (la sigla
che entrambi usano per la loro corrispondenza).
Questa lettera recava la seguente frase: “Mi spiace di
non averla vista prima della mia partenza… Le accludo 12
piani direttivi di Nizza, che quella canaglia di D. mi
ha dato per lei…”.
In realtà, l’Ufficio di statistica non aveva accluso al
fascicolo un documento che dimostrava che quella
canaglia di D. era un certo Dubois, agente da quattro
soldi, il quale aveva venduto i piani direttivi di Nizza
a 10 franchi l’uno.
Il Consiglio di Guerra, il 22 dicembre, emise
all’unanimità il verdetto di colpevolezza, condannando
il capitano alla degradazione e alla deportazione
all’Isola del Diavolo, al largo delle coste della
Caienna.
In realtà, secondo la legge 23 marzo 1872, promulgata in
occasione della deportazione di coloro che avevano
partecipato alla Comune di Parigi l’anno precedente,
Dreyfus avrebbe dovuto essere deportato in Nuova
Caledonia. Ma al governo il luogo era parso troppo
ameno, paradisiaco quasi. E così, con una apposita legge
varata il 9 febbraio 1895, alla Nuova Caledonia vennero
aggiunte anche le Isole della Salute, nella Guyana
francese, come “luogo di deportazione in recinto
fortificato”.
L’isola di destinazione del capitano Dreyfus, l’Isola
del Diavolo, è lunga 1200 metri per una larghezza di
400. “Così piccola e infinitamente triste” ha scritto
Jacques Kayser, nipote e biografo del condannato, “che
se non fosse stata una galera, si sarebbe potuto anche
definirla una cella!”.
Ma prima occorreva espungergli i gradi militari. La
cerimonia della degradazione ebbe luogo il 5 gennaio
1895, All’interno del cortile della Scuola Militare.
A Dreyfus vennero strappati i gradi e spezzata la spada
di ordinanza. Egli si proclamava innocente e patriota.
La folla urlava: “Morte al traditore!” ed appena uscì
sotto scorta lo prese a bastonate, pugni e calci e solo
con grande fatica la scorta riuscì ad evitargli il
linciaggio.
All’indomani della cerimonia di degradazione, i giornali
francesi, con in testa La libre parole e L’Intransigeant,
ponevano l’accento sulla punizione inflitta non solo a
un individuo, ma ad una intera, infida, razza: gli
ebrei. Da più parte – compreso Jean Jaurès e George
Clemenceau – si biasimò la corte per non aver accordato
la pena di morte.
Improvvisamente si sparse la voce di una confessione di
Dreyfus, tanto che occorse una smentita ufficiale per
ripristinare la verità. Ma, intanto, La libre parole,
a proposito della mancata condanna a morte, scriveva che
si era giunti a tale scelta dopo che l’ambasciatore
tedesco Munster, in un incontro con Mercier, si era
richiamato al codice militare che prevedeva la
deportazione a vita quale misura massima per l’alto
tradimento.
Anche la smentita di quest’ultima notizia della Libre
parole non venne creduta. Si pensò che la smentita
servisse solo per calmare i tedeschi e ancora una volta
l’ambasciatore Munster si trovò sotto il tiro della
stampa.
Questa volta dovette intervenire il Kaiser, il quale
impose a Munster di recarsi dal Presidente della
Repubblica Casimir Perier per riferirgli che Sua Maestà
si aspettava dal governo francese una azione decisa per
far cessare ogni notizia in merito ad una implicazione
tedesca nell’affare del capitano ebreo.
L’incontro avvenne il 6 gennaio. In quell’occasione
Casimir Perier (che si sarebbe dimesso pochi giorni
dopo, il 18 gennaio) rivelò a Munster l’esistenza del
bordereau.
L’ambasciatore cadde dalle nuvole. Così come
Schwartzkoppen, quando venne a sapere. E la cosa era
vera. La smentita ufficiale francese, messa appunto
d’intesa con i tedeschi, venne pubblicata dall’agenzia
ufficiale Havas il 7 gennaio.
Intanto Dreyfus era stato trasferito a Cherche-Midi, in
attesa di essere deportato all’Isola del Diavolo. Si
aspettava che il tribunale condannasse un numero
sufficienti di deportati per poter riempire la
nave-prigione in partenza da La Rochelle.
Il 21 febbraio 1895, senza preavviso, mentre aspettava
un’altra visita della moglie, venne fatto balzare sul St.
Nazaire per il lungo viaggio verso l’Isola del Diavolo.
“Venne incatenato al sedile della cella. Furono fatti i
preparativi per difendere la nave in caso di attacco in
alto mare. Pensavano che gli ebrei avessero una loro
marina? La storia tace su questo punto. Registra solo
che i carcerieri di Dreyfus non lasciarono nulla al
caso.”