N. 106 - Ottobre 2016
(CXXXVII)
ADRIANOPOLI
9
AGOSTO
378
d.C.
LA
FINE
DELL’INCLUSIONE
ROMANA
–
PARTE
I
di
Alessandro
Ciuffetelli
La
data
convenzionale
della
caduta
dell’Impero
romano
d’Occidente
è il
476
d.C.
In
quell’anno,
infatti,
il
barbaro
Odoacre,
dopo
avere
ucciso
il
suo
rivale
Oreste,
depose
l’ultimo
imperatore,
il
giovane
Romolo
Augustolo,
e
rimandò
a
Bisanzio
le
insegne
imperiali.
Ma
la
crisi
istituzionale
dell’Impero
romano
è di
molto
precedente,
risale
ad
almeno
mezzo
secolo
prima.
Se
volessimo
indicare
una
data
dovremmo
scegliere
l’anno
378
d.C.,
quando
le
legioni
di
Roma
vennero
disfatte
dai
goti
nella
piana
di
Adrianopoli
e lo
stesso
Valente
II,
l’Imperatore
di
Oriente,
cadde
sul
campo
di
battaglia.
Fu,
per
l’esercito
romano,
la
più
grave
disfatta
dopo
la
battaglia
di
Canne.
Quest’evento,
segnò
la
prima
grande
vittoria
militare
dei
barbari
su
Roma
e
aprì
la
strada
alle
grandi
invasioni
che
caratterizzarono
il V
secolo.
Ancora
oggi
non
c’è
accordo
fra
gli
storici
sulla
data
in
cui
si
dovrebbe
cessare
di
utilizzare
la
definizione
di
epoca
“romana”
per
sostituirla
con
quella
di
“bizantina”,
anche
perché
entrambe
sono
utilizzate
da
molti,
spesso
indistintamente
insieme,
per
designare
l’area
europea
orientale
fino
ai
regni
di
Giustiniano
ed
Eraclio
o
anche
oltre,
fino
al
secolo
VII.
Oggi,
studi
approfonditi
dell’area
che
va
dal
medio
corso
del
Danubio
e
fino
allo
stretto
dei
Dardanelli
indicano
le
caratteristiche
culturali
fondamentali
per
la
caratterizzazione
del
dominio
romano-bizantino:
senza
dubbio
l’originale
fisionomia
dell’impero
bizantino
nasce
dall’incontro
della
struttura
burocratico-statale
romana
con
la
cultura
greca
e la
religione
cristiana.
Più
difficile
è
definire
una
demarcazione
forte
tra
ciò
che
era
romano
da
ciò
che
sarà
bizantino.
Da
pochi
anni
studi
storici
sostengono
che
uno
dei
punti
fondamentali
per
lo
sviluppo
dell’Europa
tardo
antica
e
medievale
è la
suggestiva
immagine
dell’attraversamento
del
Danubio
nel
376
d.C.
da
parte
delle
tribù
gotiche
che
avevano
ottenuto
dall’imperatore
il
permesso
di
stabilirsi
entro
i
confini
dell’impero.
Questa
anabasi
gotica,
che
si
concluderà
due
anni
dopo
con
la
più
disastrosa
sconfitta
militare
romana
dai
tempi
di
Canne,
segnerà
uno
spartiacque
fondamentale
nella
storia
delle
invasioni
barbariche
e
della
storia
Europea
più
in
generale.
Scopo
di
questo
articolo
è
mettere
in
risalto
questo
evento
ed
indicarne
le
cause
che
portarono
all’inizio
della
fine
dell’impero
romano:
cause
che
nel
corso
dei
secoli,
attraverso
studi,
pongono
l’accento
non
più
sull’arrivo
dei
barbari
dalla
Germania
per
distruggere
le
strutture
imperiali,
quanto
sui
mali
interni
all’impero
che
alla
lunga
ne
minarono
la
coesione.
Gli
Imperatori,
che
si
succedevano
con
drammatica
rapidità,
non
erano
più
gli
amministratori
che
da
Roma
dirigevano
la
vita
sociale
dell’impero
dei
tempi
di
Augusto
e
Marco
Aurelio.
Avevano
cambiato
capitale
spostandola
ora
a
oriente,
Costantinopoli,
ora
a
occidente,
Treviri
e
poi
Ravenna,
dividendo
la
carica
con
un
altro
Augusto.
Passavano
il
tempo
più
a
cavallo
che
a
corte,
cercando
di
tamponare
le
falle
che
si
aprivano
lungo
i
confini
dell’Impero.
Ed a
questa
nuova
generazione
di
imperatori
appartenevano
Flavio
Valentiniano
e
suo
fratello
Flavio
Giulio
Valente.
Si
dice
che
Valentiniano
morì
proprio
in
una
di
queste
disperate
difese,
nel
375
d.C.
in
Pannonia,
per
causa
di
una
crisi
d’ira,
durante
una
conversazione
di
pace
con
i
Quadi,
una
tribù
trasdanubiana,
germanica
e
vicina
agli
Alamanni,
che
si
era
resa
protagonista
di
numerose
scorrerie;
mentre
egli
inveiva
contro
il
capo
di
questi
Germani
accusandolo
del
tradimento
dei
patti
e
dei
saccheggi,
un
infarto,
o
forse
un’emorragia,
lo
colse
e se
lo
portò
via
nel
giro
di
pochi
secondi.
Si
dice
inoltre
che
l’imperatore
romano,
pur
colto
dal
malore,
volle
rimanere
in
piedi
e si
fece
sostenere
dai
suoi,
pronunciando
una
frase
che
divenne
famosissima
per
descrivere
lui,
il
suo
carattere
e il
suo
orgoglio:
“Un
imperatore
muore
in
piedi!”.
Valentiniano
era
stato
un
grande
imperatore,
uno
dei
migliori
che
abbia
prodotto
il
“basso
impero”.
Altrettanto
non
si
può
dire
del
fratello,
Valente,
di
religione
ariana,
una
primissima
variante
del
cristianesimo
che
si
rifaceva
agli
insegnamenti
del
prete
Ario:
Ammiano
Marcellino,
grande
storico
della
decadenza
dell’Impero,
definisce
Valente
rozzo,
crudele,
ignorante,
lento
e
pigro,
seppur
efficiente
nel
governo,
implacabile
verso
i
funzionari
disonesti,
rigido
nel
far
rispettare
sia
la
disciplina
militare
che
l’ordine
pubblico.
Proprio
a
questo
imperatore,
più
girovago
del
suo
predecessore,
toccò
in
sorte
di
gestire
l’arrivo
in
massa
dei
Goti
in
fuga
dagli
Unni.
L’improvviso
arrivo
dei
feroci
cavalieri
dalle
lontane
steppe
orientali
e la
distruzione
del
regno
goto
situato
a
cavallo
tra
l’odierna
Ucraina
e la
Crimea,
risale
proprio
al
periodo
370-375
d.C.
quando
ormai
l’Impero
romano
non
era
più
da
tempo
quella
formidabile
struttura
autoritaria
e
organizzatissima
che
riusciva
a
digerire
nuovi
popoli
arrivati
includendoli
nei
propri
territori.
È in
questo
contesto
che
i
Goti,
nella
tarda
primavera
del
376
d.C.
si
affacciarono
sul
Danubio,
incalzati
dall’ansia
di
essere
assorbiti
e
scomparire
nell’orda
unna.
Quella
dei
goti
fu
una
mareggiata
di
impetuose
dimensioni.
Mentre
la
parte
che
si
era
stanziata
più
a
oriente
dei
goti
non
riuscì
ad
evitare
di
essere
assorbita
nel
grande
calderone
unno,
il
grosso
del
popolo,
sotto
le
guida
del
Re
Fritigerio
intraprese
una
lunga
marcia
verso
sud
ovest,
fino
al
Danubio.
Si
ammassarono
sulla
riva
sinistra
del
grande
fiume,
pressappoco
dove
oggi
corre
il
confine
fra
Bulgaria
e
Romania.
Era
il
limes.
“Agitando
le
braccia
e
piangendo,
supplicavano
che
un
ponte
di
barche
fosse
gettato
per
lasciarli
passare”
racconta
lo
storico
Eunapio.
Gli
ufficiali
romani
a
guardia
dell’unico
ponte
danubiano
non
erano
nuovi
ad
accogliere
piccoli
contingenti
di
germani,
piccole
tribù,
nell’impero
come
coloni
o
soldati.
Mai,
però,
si
erano
visti
arrivare
un
numero
così
elevato
di
genti
che
chiedessero
volontariamente
asilo.
Nel
corso
delle
epoche
pre-cristiane
la
Repubblica
e
poi
il
primo
impero
Romano
erano
sopravvissuti
a
decine
di
“migrazioni”.
Fino
all’epoca
di
Marco
Aurelio
poi
ancora
fino
a
Diocleziano
a
Roma
furono
in
grado
di
accogliere
e,
quando
necessario,
integrare
i
migranti
provenienti
dal
nord
Europa.
Ma
ora
non
più.
Corruzione,
disorganizzazione,
affarismo
avevano
preso
il
sopravvento
sulle
politiche
economiche
e
sociali.
Alla
vista
di
una
massa
così
enorme
di
“rifugiati”
goti,
gli
ufficiali
romani
stanziati
sul
Danubio
non
vollero
assumersi
responsabilità:
un
conto
era
accogliere
poche
sparse
tribù,
un’altra
accogliere
un
popolo
intero.
Chiesero
pazienza.
Si
rimisero
alla
decisione
dell’imperatore
Valente
che
in
quel
momento
si
trovava
a
più
di
duemila
chilometri
di
distanza,
ad
Antiochia
un
po’
per
poter
meglio
gestire
il
conflitto
in
corso
con
i
Persiani
Sassanidi
e un
po’
per
tenersi
lontano
dalla
folla
e
dalla
corte
di
Costantinopoli
cui
era
inviso
perché
ariano.
Passarono
settimane
al
di
là
del
fiume
in
attesa
del
responso
di
Valente.
Quindi
vennero
accolti.
L’accordo
con
gli
ambasciatori
inviati
dall’imperatore
romano
d’Oriente,
venne
raggiunto
dopo
diverse
settimane
di
attesa,
sulla
base
del
reciproco
rispetto:
l’Impero
s’impegnava
a
concedere
ai
Goti
il
permesso
per
un
insediamento
sparso
in
Mesia,
in
Tracia
e
nella
Dacia
Ripense.
In
cambio
Fritigerno,
capo
dei
Visigoti,
s’impegnò
a
consegnare
le
armi
dei
suoi
guerrieri
e a
consegnare
ai
Romani
alcuni
ostaggi
scelti
tra
i
fanciulli
di
più
nobile
origine.
L’intesa raggiunta sembrava essere vantaggiosa per entrambe le parti:
i
Goti
si
sarebbero
sentiti
al
sicuro,
dietro
la
protezione
dell’esercito
e
del
limes
romano,
mentre
i
Romani
avrebbero
avuto
l’insediamento
goto
a
far
da
cuscinetto
tra
le
province
interne
e i
popoli
barbari
di
oltre
Danubio;
inoltre
Valente
contava
di
ricavare
dai
Goti
un
gran
numero
di
ottimi
soldati
per
rimpolpare
l’esercito
sempre
a
corto
di
uomini.
In attesa che venissero sistemati i dettagli per la nuova sistemazione,
il
popolo
goto
avrebbe
dovuto
pazientare
ancora
in
una
sorta
di
“grande
campo
profughi”
costituito
nei
pressi
del
fiume
Danubio.
In
cambio
avrebbero
dovuto
ricevere
dai
Romani
sussidi
in
cibo
per
affrontare
il
periodo
d’insediamento.
Terminata
l’opera
di
trasbordo
i
profughi
vennero
raggruppati
e li
lasciati
in
attesa.
Non
si
capisce
perché,
per
mesi,
nessuno
ripartisse
questi
nuovi
arrivati
nelle
varie
zone
dell’Impero.
O
meglio,
lo
storico
Eunapio
e
Ammiano
Marcellino
ce
lo
lasciano
intuire.
I
generali
e
gli
ufficiali
romani
preposti
al
controllo
di
questi
arrivati
si
erano
accorti
che
da
Costantinopoli
arrivavano
sussidi
per
garantirne
la
sopravvivenza
dei
Goti.
Naturalmente
i
Goti
di
questi
fondi
non
ne
videro
neanche
l’ombra.
I
romani
pensarono
bene
di
intascarsi
questi
sussidi
e di
costringere
i
Goti
a
rivendersi
le
poche
cose
che
si
erano
portati
dietro
durante
la
fuga.
Presto
anche
i
loro
risparmi
terminarono
e
allora
furono
costretti
a
rivendere
i
propri
figli
come
schiavi
(il
che
richiamò
in
loco
i
peggiori
mercanti
di
schiavi
dell’Impero).
Scrive
Eunapio:
“Non
c’è
ufficiale
che
nel
marasma
non
ne
abbia
approfittato
per
costringere
in
schiavitù
uno
o
due
goti
o
che
da
questi
non
si
fosse
fatto
corrompere”.
Le
strutture
destinate
all’accoglienza
collassarono
sia
per
il
peso
eccessivo
dei
profughi,
sia
perché
l’operazione
umanitaria,
venne
gestita
nel
modo
più
corrotto
da
generali
che
intravidero
la
possibilità
di
intascare
grossi
profitti
costringendo
i
Goti
a
pagare
anche
le
razioni
di
cibo
che
avrebbero
dovuto
essere
distribuite
gratuitamente
e
per
cui
il
governo
aveva
stanziato
i
fondi.
Di
fatto
si
ritardò
con
ogni
mezzo
lo
smantellamento
del
“campo
profughi”.
Passarono
dei
mesi,
aumentò
il
malcontento
e
con
esso
l’odio
verso
il
romano
che
da
soccorritore
divenne
sopraffattore.
Alla
lunga
controllare
una
massa
così
ampia
di
disperati
divenne
impossibile,
tanto
che
si
decise
lo
sgombero
del
campo
e lo
spostamento
verso
il
sud
dei
Balcani
dei
Goti.
Tra
le
fila
dei
funzionari
di
frontiera,
al
cui
vertice
stavano
il
comes
Lupicino
e il
dux
Massimino,
la
corruzione
era
enorme
e
diffusissima.
Già
durante
il
passaggio
del
Danubio
molti
Goti,
prostituendo
le
loro
donne,
riuscirono
a
conservare
le
loro
armi.
Ad
aumentare
la
confusione
i
Goti
Greutungi
o
Ostrogoti
cioè
Goti
dell’est,
che
vivendo
a
contatto
coi
popoli
della
steppa
si
erano
trasformati
in
ottimi
cavalieri,
approfittarono
del
caos
per
sfuggire
al
giogo
unno
ormai
stringente
e
passare
a
loro
volta
il
Danubio,
con
i
loro
capi
Alateo
e
Safrace,
nonostante
non
ne
avessero
ricevuto
il
permesso
dall’imperatore.
Tra la fine del 376 d.C. e l’inizio 377 d.C. i Visigoti, che avevano
trovato
in
Fritigerno
un
capo
abile
e
risoluto,
spinti
dalla
fame,
erano
in
piena
sollevazione
e,
riunitisi
ai
cugini
Ostrogoti
ai
quali
si
erano
aggregati
contingenti
unni
e
alani,
mossero
verso
Marcianopolis
sede
del
quartier
generale
del
comes
Lupicino.
Qui,
si
pensava,
che
si
potessero
stanziare
i
barbari
in
attesa
che
le
provincie
concordate
per
lo
stanziamento
definitivo
fossero
predisposte
all’accoglienza.
Fu
un’altra
lunga
marcia
fino
alle
porte
della
città.
Mentre
i
parlamentari
dei
Goti
furono
invitati
in
qualità
di
ambasciatori
all’interno
della
città,
fuori
si
accese
una
zuffa
tra
l’esercito
romano
di
scorta
a
Marcianopolis
e il
popolo
germanico
sempre
più
esasperato.
La
zuffa
si
trasformò
in
battaglia
in
cui
i
barbari
misero
in
fuga
la
scorta
romana
che
era
uscita
dalla
città
per
tenere
a
bada
i
nuovi
arrivati.
Accorsi
dalla
città
i
capi
Goti
non
riuscirono
a
calmare
i
propri
confratelli.
Decisero
di
continuare
il
saccheggio
delle
campagne
intorno
Marcianopolis.
Saccheggiando
e
devastando
arrivarono
fino
alle
porte
di
Costantinopoli.
Furono
respinti,
ma
poterono
continuare
a
saccheggiare
tornando
sui
loro
passi.
L’imperatore,
ancora
in
Persia,
venne
costretto
ad
accorrere
per
chiudere
una
buona
volta
questa
questione.
Si
fermò
a
Costantinopoli
dove
venne
fischiato
e
sbeffeggiato
dai
cittadini.
Quindi
partì
alla
ricerca
dei
Goti,
dispersi
chissà
dove
nei
Balcani.