Adolf Eichmann
Sulle domande di grazia per la
condanna a morte
di Francesco Cappellani
Adolf Eichmann fu uno dei massimi
artefici ed esecutore della
“soluzione finale della questione
ebraica” (Endlösung der Judenfrage)
decisa nella conferenza di Wannsee,
un sobborgo berlinese, del 20
gennaio 1942, che, nel verbale
redatto dallo stesso Eichmann,
pianificava lo sterminio fisico
mediante deportazione, destinazione
ai lavori forzati ed infine
eliminazione totale di 11 milioni di
ebrei, elencati per nazione a
partire dai 5.000.000 di russi ai
200 albanesi. Nel 1939 era stato
istituito l’RSHA (Reichssicherhaitshautant)
(Ufficio Centrale di Sicurezza del
Reich), Eichmann venne assegnato al
dipartimento Amt 4 Geheime
Staatpolizei (Polizia Politica),
Gestapo, a capo della sezione IV-B4
“Questioni Ebraiche ed Evacuazione”.
Grazie a questo incarico ebbe mano
libera nell’organizzare
minuziosamente e coordinare i
carichi di deportati che
cominciarono a confluire verso i
campi di concentramento e di
sterminio da tutta Europa.
Finita la guerra Eichmann, toltasi
la divisa di Obersturmbannführer
(tenente colonnello ) delle SS, da
Praga, dove risiedeva dal 1939 con
la moglie Vera, sposata nel 1935, ed
i suoi tre figli, inizia una lunga
fuga, dopo che la famiglia si era
trasferita in Austria ad Altaussee.
Si dirige in Austria per
consigliarsi con Kaltenbrunner, il
capo dell’RSHA, avviandosi poi a
piedi verso Bad Ischl dove viene
fermato da una pattuglia americana
che lo lascia proseguire, ma una
seconda pattuglia lo ferma e lo
rinchiude in un campo di transito.
Sottoposto a visita medica, si
scopre il tatuaggio del gruppo
sanguigno che era norma comune per
gli ufficiali delle SS per cui deve
confessare di aver fatto parte di un
reparto di Waffen-SS. Internato nel
campo di prigionia di Weiden
dichiara di chiamarsi Otto Eckmann e
di essere originario di Breslavia;
nel luglio del 1945 è trasferito al
campo permanente di Oberdachstetten
dove è interrogato ripetutamente dal
servizio di controspionaggio alleato
che non riesce né a contestargli la
mancanza di documenti né a
ipotizzare chi potesse essere in
realtà quell’incolore ufficiale con
una logora uniforme
dell’aeronautica.
La tranquilla vita di Eckmann cambia
quando inizia nel novembre del 1945
il Processo di Norimberga dove, fin
dalle prime giornate, il nome di
Eichmann come colpevole dello
sterminio di milioni di ebrei viene
ripetutamente citato soprattutto da
un suo ex-collega, il capitano delle
SS Dieter Wisliceny che aveva
operato, quale suo rappresentante,
per la “soluzione finale” in
Slovacchia, Grecia ed Ungheria:
nella seduta del 3 gennaio 1946 il
capitano descrive in dettaglio
l’attività criminale dell’
Obersturmbannführer. Wisliceny sarà
condannato a morte e impiccato a
Bratislava nel 1948. Eichmann viene
a conoscenza del processo e capisce
che deve fuggire dal campo, ci
riesce grazie all’aiuto di altri
ufficiali nazisti prigionieri che
gli prepararono documenti falsi a
nome Otto Heninger, e gli trovano
rifugio presso un simpatizzante
nazista a Prien. Da lì, dopo un mese
e mezzo, si sposta a Celle, nella
Bassa Sassonia, accolto dal
guardaboschi fratello di un suo
compagno di prigionia, dove si
nasconde per tre anni facendo il
boscaiolo senza mai dare notizie di
sé alla famiglia. Nel maggio del
1945 la moglie Vera era stata
facilmente rintracciata dagli
Alleati in Austria, ed interrogata a
lungo anche negli anni successivi
sulla sorte del marito; lei aveva
spiegato che avevano divorziato e
che, secondo la testimonianza di un
ufficiale ceco suo cognato, Eichmann
era stato ucciso il 28 aprile 1945 a
Praga e lei ne aveva registrato il
decesso presso le autorità di Bad
Ischl nel 1947. Come si seppe poi,
pare che la moglie fosse realmente
convinta della fine del marito.
Nel 1949 Eichmann decide che era
arrivato il momento di tentare una
fuga definitiva verso un paese dove
potere vivere in libertà e
ricongiungersi con la famiglia.
Sapeva che esistevano organizzazioni
naziste clandestine che
provvedevano, mediante agenti
soprattutto in Svizzera ed in
Italia, ad organizzare il viaggio di
ex-gerarchi verso paesi del Medio
Oriente o per l’Argentina di Juan
Domingo Peron nota per la sua
benevola ospitalità verso tanti
criminali nazisti nel dopoguerra. La
più efficiente era ODESSA (Organisation
der Ehemaligen SS Angehöerige)
(Organizzazione di ex-membri delle
SS) ed Eichmann la contatta agli
inizi del 1950. In maggio lascia
Celle ed entra in Italia attraverso
l’Austria spostandosi a Genova
accolto da un frate francescano di
simpatie naziste che collaborava per
il successo di queste fughe. Già nel
1948 aveva ottenuto grazie
all’appoggio di Alois Pompanin,
vicario generale della diocesi di
Bressanone e noto collaborazionista
nazista, un documento d’identità
rilasciato dalla Croce Rossa
Internazionale a nome Ricardo
Klement nato a Termeno (BZ) il 23
maggio 1913.
Tramite il Centro Soccorso Profughi
del Vaticano, riceve ai primi di
Giugno 1950 un passaporto intestato
a Ricardo Klement ed una settimana
dopo il visto argentino. Il 17
Giugno Eichmann salpa per
l’Argentina rimanendo alcuni mesi a
Buenos Aires presso amici della
ricca colonia tedesca di quella
città. Si trova in seguito un lavoro
a Tucuman e nel 1951 scrive alla
moglie di raggiungerlo in Argentina
in massima segretezza temendo che la
stessero sorvegliando, senza nulla
dire ai bambini. Vera tramite un
ufficio speciale di Zurigo per le
domande di passaporto per profughi
tedeschi residenti all’estero,
ottiene il passaporto a suo nome,
Veronica Liebl e per i figli Klaus,
Dieter e Horst, col cognome Eichmann.
Scompare da Altaussee senza che
nessuno controlli e sappia perché e
dove sia andata. Questa leggerezza
nella sorveglianza causerà un
ritardo di otto anni nella cattura
di Eichmann. Imbarcatasi a Genova ai
primi di luglio raggiunge il marito
a Tucuman nell’agosto del 1952 dopo
sette anni dal loro ultimo incontro
per poi, avendo Eichmann trovato
posto come caporeparto presso la
filiale della Mercedes Benz a Buenos
Aires, trasferirsi nella capitale
Argentina. Nel 1955 nascerà il
quarto figlio che si chiamerà
Ricardo Francisco Klement.
La quieta vita sudamericana di
Eichmann è interrotta nel pomeriggio
dell’11 maggio 1960 dall’intervento
di alcuni uomini del Mossad che lo
rapiscono al ritorno dal lavoro e
nove giorni dopo lo trasferiscono in
Israele a bordo di un aereo
israeliano, anestetizzato e
travestito da pilota della El Al. Fu
un vero “kidnapping” in quanto
l’Argentina non avrebbe mai dato il
permesso per una normale
estradizione, ne seguirono infatti
per qualche mese attriti tra il
governo Argentino ed Israele. Come
sia arrivato il Mossad a catturare
dopo ben 15 anni dalla fine della
guerra il criminale nazista lo si
deve non a qualche
superinvestigatore israeliano ma ad
un ebreo tedesco, Lothar Hermann,
divenuto cieco dopo le torture
subite nel campo di concentramento
di Dachau, rifugiatosi in Argentina
a Buenos Aires dopo la tragica
Kristallnacht nel 1938. Nel 1956
Sylvia, la bella figlia di Hermann,
aveva stretto amicizia con i figli
di Klement, in particolare col
maggiore Klaus che le aveva
raccontato del suo cognome Eichmann
e del suo antisemitismo. Sylvia non
era mai andata a casa Klement e non
sapeva che il padre di Klaus vivesse
sotto falso nome. La famiglia
Hermann si trasferisce in seguito a
Coronel Suarez a 300 miglia dalla
capitale, perdendo i contatti con la
famiglia Klement, ma nel 1957 il
nome del criminale Eichmann appare
sui giornali per un processo in
corso a Francoforte.
Hermann inizia a sospettare che
quell’uomo possa essere il padre di
Klaus, scrive al giudice del
processo una lettera dove afferma di
ritenere che Eichmann si trovi in
Argentina. Il giudice inoltra la
missiva al Procuratore Generale del
distretto dell’Assia Fritz Bauer che
dava la caccia ai nazisti fuggiti
dalla Germania, il quale esorta
Hermann a procurarsi l’indirizzo di
Eichmann a Buenos Aires. Sylvia si
reca nella capitale e trova
facilmente l’abitazione del
ricercato, bussa alla porta
chiedendo di Klaus, un uomo le
risponde che non c’era in quanto
lavorava fuori fino a tardi, al che
lei chiede “Lei è il signor Eichmann?”,
l’uomo non risponde ma poi fa capire
che è il padre di Klaus. Sylvia gli
dice che avrebbe voluto rivedere
Klaus, poi saluta cordialmente e se
ne va. Hermann spedisce
immediatamente una lettera a Bauer
dicendosi sicuro di avere
identificato Eichmann e fornendone
l’indirizzo esatto.
Bauer, non fidandosi della polizia
tedesca, informa Israele nel
settembre del 1957 ma il Mossad
accoglie la notizia con un certo
distacco, manda uno dei suoi a
Buenos Aires nel gennaio del 1958
per investigare sulla veridicità
delle affermazioni di Hermann, e
conclude che l’indirizzo si riferiva
ad una zona molto modesta della
metropoli ed era impossibile che un
uomo del rango di Eichmann potesse
vivere lì. Ma Bauer non demorde ed
insiste, il Mossad invia una seconda
missione per contattare Hermann e la
figlia Sylvia ed avere da loro delle
prove definitive. Anche questa volta
il Mossad non sembra convinto allora
Hermann, stimolato dalla lettura sui
giornali che Tuviah Friedman dell’Haifa
Documentation Centre in Israele
offriva una ricompensa di 10.000 $
per la cattura di Eichmann, scrive
il 17 ottobre 1959 una prima lettera
a Friedmann dicendo che possedeva
dettagli esatti di Eichmann ed una
seconda nel marzo del 1960 molto
dura: “Sembra che lei dia poco
valore ad una rapida conclusione
della questione o che non abbia
alcun interesse ad arrestare
Eichmann”.
A questo punto il Mossad si prepara
per la missione che porterà alla
cattura definitiva di Klement/Eichmann.
Gli uomini del Mossad arrivano a
Buenos Aires e cominciano a seguire
e registrare i movimenti di Klement
fotografandolo di nascosto.
Confrontano le foto con quelle che
hanno in repertorio che sono però di
troppi anni fa (Eichmann aveva
accuratamente distrutto le sue
immagini del dopoguerra) per cui la
somiglianza tra un aitante ufficiale
in divisa e quell’uomo magro e
stempiato appare discutibile. Una
sera vedono Klement scendere
dall’autobus dirigendosi verso casa
con un gran mazzo di fiori.
Consultano i dati biografici del
fuggitivo e si accorgono che in quel
giorno, il 21 marzo, erano state
celebrate 25 anni fa le nozze di
Eichmann con Vera. Non ci sono più
dubbi: è proprio lui, mandano un
telegramma al Mossad in Israele:
“Ha’ish hu ha’ish “ (l’uomo è
l’uomo).
Il pomeriggio del 23 maggio 1960,
mentre alla Knesset, il Parlamento
israeliano, era in corso un
dibattito sul bilancio, Ben Gurion
prese la parola e annunciò che era
stato catturato Adolf Eichmann «uno
dei più grandi criminali di guerra
nazisti» e che era «già in Israele
in stato d’arresto».Non disse però,
come sottolinea Uki Goni, che un
cieco “aveva realizzato ciò che
sembrava impossibile. Non solo era
riuscito a scovare da solo un noto
criminale nazista, ma era anche
riuscito a galvanizzare un letargico
Mossad, che aveva dimostrato
decisamente poco interesse nel
portare avanti il caso”. Il
fondamentale contributo di Hermann
rimase secretato in Israele fino al
1971 quando il direttore del Mossad
Isser Harel lo rivelò alla stampa.
Hermann allora riprese a bombardare
Friedmann per avere la sua
ricompensa che gli fu finalmente
concessa nel luglio 1972 dal primo
ministro israeliano Golda Meier.
La notizia dell’arresto di Eichmann
fece enorme scalpore in Israele ma
soprattutto il successivo lungo
processo trasmesso in televisione ed
articolato con centinaia di
documenti, di dichiarazioni di
sopravvissuti e le tragiche immagini
dei deportati e delle montagne di
cadaveri, ebbe una vastissima
risonanza mediatica e tutto il mondo
dovette riconsiderare l’enormità
dell’olocausto nella sua immane
dimensione ed efferata crudeltà. Il
processo iniziò il 10 aprile 1960 e
si protrasse fino al 15 dicembre
1961 quando il Tribunale
Distrettuale di Gerusalemme emise la
sentenza di condanna a morte per
impiccagione che sarà confermata
dalla Suprema Corte oltre cinque
mesi dopo, il 29 maggio 1962. La
sentenza venne eseguita intorno alla
mezzanotte dell’1 giugno 1962 nel
carcere di Ramla. Nei mesi tra la
sentenza di primo grado e la sua
esecuzione, si levarono varie voci,
anche di intellettuali ebrei, che,
pur riconoscendo la totale
colpevolezza di Eichmann, erano in
disaccordo con la condanna a morte.
Tra coloro che si opposero alla
decisione del Tribunale vi furono lo
scrittore Arthur Koestler, lo
storico inglese Arnold Toynbee, la
poetessa Nelly Sachs, sopravvissuta
all’olocausto, premio Nobel nel
1966, che scrisse al Primo Ministro
dicendo che essendo stata lei una
vittima del Nazismo, lo implorava di
non giustiziare Eichmann per
sottolineare il bene nel mondo
contro il male, e la scrittrice
americana Pearl S. Buck, che
sosteneva che la pena capitale
poteva essere vista come un atto di
vendetta soprattutto adesso che la
guerra era finita da parecchi anni.
A queste e tante altre persone si
aggiunse l’intellettuale ebreo
austriaco Martin Buber, espatriato
nel 1938 per trasferirsi a
Gerusalemme, che, contattato dal
docente di filosofia dell’Università
Ebraica di Gerusalemme Shmuel Hugo
Bermann, riunì diversi amici per
invocare clemenza scrivendo una
lettera al Presidente di Israele
Yitzak Ben Zevi. Tra i firmatari
della missiva vi erano alcuni noti
studiosi come il semitista e
studioso della Qabbalah Gershom
Scholem, la poetessa Leah Goldberg
ed il pittore Yehuda Bacon,
testimone al processo Eichmann,
internato da ragazzo nel ghetto di
Theresienstadt e deportato a fine
1943 nel campo di sterminio di
Auschwitz-Birkenau dove nel 1944 suo
padre sarà ucciso nelle camere a
gas; la madre e la sorella moriranno
di stenti nel lager di Stutthof
poche settimane prima della
liberazione. L’atteggiamento di
questi intellettuali “derivava
principalmente da ragioni morali e
da un’opposizione alla pena di
morte. Non cercavano di proteggere
Eichmann o di sminuire la gravità
delle sue azioni. Cercavano,
dicevano, di impedire al popolo
ebraico di commettere quella che a
loro sembrava un’ingiustizia morale.
Oltre a ciò, alcuni temevano che
l’esecuzione avrebbe fornito una
base per affermare che ciò avrebbe
espiato i peccati dei nazisti e
messo a tacere le rivendicazioni del
popolo ebraico contro i suoi
assassini e carnefici”. Su questo
tema così si era espresso Scholem
sulla rivista Amot agli inizi del
1962: “Non c’è alcun dubbio che
Eichmann meriti la pena di morte.
Non ho dubbi al riguardo, non chiedo
la sua assoluzione, né discuto le
argomentazioni riguardanti le sue
azioni e la sua responsabilità per
esse.
Tutto ciò rientra negli aspetti
legali di questo processo. La mia
ipotesi è che a questo riguardo non
si possa discutere nulla in sua
difesa, merita di morire mille volte
al giorno ed è indegno di
misericordia... non esiste una
punizione adeguata nelle leggi della
società umana per i crimini di
Eichmann... che venga impiccato o
meno, non esiste alcuna correlazione
immaginabile tra il suo crimine e la
sua punizione... La condanna a morte
di Eichmann è un finale sbagliato
[enfasi nell’originale]. Distorce il
significato storico del processo
creando l’illusione che qualcosa di
questo evento possa essere risolto
impiccando un uomo o annientando una
persona. Questa illusione è
estremamente pericolosa, perché può
far sorgere la sensazione che sia
stato fatto qualcosa per “espiare”
qualcosa per cui non esiste
espiazione”.
Oltre alla petizione inoltrata al
Presidente dello Stato, Buber chiese
di parlare direttamente col Primo
Ministro Ben Gurion per convincerlo
a concedere la grazia temendo che
l’impiccagione di Eichmann potesse
trasformarlo in un martire, ma dopo
ore di accesa discussione nella sua
abitazione l’ottantatreenne studioso
realizzò che oramai la condanna a
morte era irrevocabile.
Eichmann scrisse il 29 maggio 1962
una lettera al Presidente di Israele
Yitzhak Ben-Zvi chiedendo il perdono
e l’annullamento della sentenza di
morte: “Non è vero che io
personalmente fossi di un rango così
alto da poter perseguitare, o che io
stesso fossi un cacciatore di ebrei,
a fronte di una condanna così enorme
è chiaro che i giudici nella loro
sentenza ignoravano il fatto che io
non avevo mai ricoperto una
posizione così elevata come
richiesta per essere coinvolto in
modo indipendente in responsabilità
così decisive. Né ho dato alcun
ordine in nome mio, ma ho sempre
agito solo “per ordine di”. Anche se
fossi stato come i giudici
valutarono la forza motrice e
zelante nella persecuzione degli
ebrei, una cosa del genere sarebbe
stata evidenziata in promozioni e
altri premi. Eppure non ho ricevuto
tali vantaggi.
È anche sbagliato che non mi lasci
mai influenzare dalle emozioni
umane. Proprio dopo aver assistito
alle vergognose atrocità umane, ho
subito chiesto di essere trasferito.
Inoltre, durante le indagini della
polizia, ho rivelato volontariamente
orrori fino ad allora sconosciuti,
per contribuire a stabilire la
verità indiscutibile. Lo dichiaro
ancora una volta, come ho fatto
davanti al tribunale: detesto come
il più grande dei crimini gli orrori
perpetrati contro gli ebrei e
ritengo giusto che gli iniziatori di
queste terribili azioni siano
processati davanti alla legge ora e
in futuro. Ciononostante, è
necessario tracciare una linea tra i
leader responsabili e le persone
come me costrette a servire come
semplici strumenti nelle mani dei
leader. Non ero un leader
responsabile e come tale non mi
sento in colpa. Non posso
riconoscere giusta la sentenza della
Corte e chiedo, Vostro Onore Signor
Presidente, di esercitare il vostro
diritto di concedere la grazia e di
ordinare che non venga eseguita la
pena di morte. Adolf Eichmann”.
Questa ed altre lettere relative al
caso Eichmann sono state rese
pubbliche il 27 gennaio del 2016
dall’Archivio di Stato di Israele
durante una cerimonia per ricordare
il 55esimo anniversario del
processo.
Anche la moglie Vera inoltrò una
richiesta di grazia a seguito di una
precedente richiesta: “Dopo che il
mio appello è stato respinto, il
destino di mio marito è nelle vostre
mani. In quanto moglie e madre di
quattro figli, chiedo a Vostra
Eccellenza la vita di mio marito”.
Il Presidente Ben Zvi le rispose con
un biglietto scritto a mano con una
citazione biblica, le parole del
profeta Samuele prima di uccidere il
re Agag: “Proprio come la tua spada
ha privato di figli le donne, così
tua madre sarà privata di figli tra
le donne!” (1 Samuele 15:33).
I cinque fratelli di Eichmann si
unirono alla richiesta di grazia con
una lettera che terminava con una
dolente richiesta di grandezza
d’animo da parte del Presidente:
“Nel corso del processo il terribile
passato è stato nuovamente
riproposto davanti al mondo intero
// La conclusione di questo
rimprovero globale, attraverso un
atto di gentilezza, metterà in luce
la magnanimità del popolo ebraico e
lo aiuterà attraverso la promozione
dell’amicizia tra i popoli e le
razze. Affinché questa magnanimità
prevalga, chiediamo la sincera
attenzione di Vostro Onore”.
L’avvocato difensore, il tedesco
Robert Servatius che aveva
patrocinato alcuni gerarchi nazisti
al processo di Norimberga, chiese di
annullare la sentenza di morte in
quanto il suo cliente “era una
persona senza importanza che era
stata buttata dal destino in eventi
politici” e che il condannato “Non
ha agito per una posizione di
antisemitismo, ma perché vincolato
da un sistema burocratico che lo
obbligava a farlo”.
Il presidente di Israele Ben Zvi
respinse ogni richiesta di clemenza
con un breve comunicato al ministro
della giustizia Dov Josef il 31
maggio 1962: “Dopo aver considerato
le richieste di grazia avanzate a
nome di Adolf Eichmann, e dopo aver
esaminato tutto il materiale a mia
disposizione, sono giunto alla
conclusione che non vi è alcuna
giustificazione per concedere la
grazia a Eichmann o per alleggerire
la punizione inflitta dal Tribunale
di Gerusalemme il 15 dicembre 1961,
confermata dalla Corte suprema il 29
maggio 1962. Vi informo pertanto che
ho deciso di respingere le richieste
e di non usare i miei poteri per
perdonare e ridurre le pene in
questo caso”.
Rafi Eitan, l’agente del Mossad che
aveva diretto l’operazione di
arresto in Argentina, raccontò in un
documentario televisivo israeliano
sui criminali nazisti, che le ultime
parole di Eichmann, da lui
accompagnato al patibolo, furono:
“Spero che tutti voi mi seguirete”.