[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 154 / OTTOBRE 2020 (CLXXXV)


attualità

sugli accordi di abramo

UN'OPPORTUNITÀ PER IL MEDIO ORIENTE subsahariano

di Gian Marco Boellisi


Alla storia piacciono le simmetrie si sa, nel bene e nel male, e lo scorso 15 settembre 2020 il mondo ha assistito a una di esse. In questa data infatti, allo stesso modo degli accordi nel 13 settembre 1993 tra Rabin e Arafat, sono stati sottoscritti a Washington tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein i cosiddetti Accordi di Abramo, ovvero dei trattati internazionali che regolamentano le relazioni diplomatiche tra questi 3 stati, a lungo rimasti sospesi a causa di profonde inimicizie tra lo stato ebraico e in generale il mondo arabo.

 

Nonostante il retaggio storico dalla Guerra dei 6 Giorni in poi, Israele sembra essersi mossa negli ultimi mesi verso una politica distensiva con svariati partner arabi, sia per motivi economici ma soprattutto strategici. Risulta interessante quindi comprendere in quale nuova direzione si sta muovendo il Medio Oriente e quali conseguenze possono avere questi accordi sull’intera regione.

 

Partiamo dal retaggio storico con cui è arrivato Israele alla firma dei suddetti accordi.

 

Prima del 15 settembre gli unici paesi arabi a riconoscere lo stato ebraico erano l’Egitto e la Giordania. Molti storici concordano che i rapporti tra Israele e il mondo arabo si sono infranti nel giorno in cui lo stato ebraico ha visto la propria nascita e sono definitivamente affondati a seguito della vittoria schiacciante oltre ogni misura nella Guerra dei 6 Giorni del 1967 tra Israele e svariati stati appartenenti al mondo arabo.

 

Da allora le relazioni diplomatiche nei confronti di Tel Aviv si sono ridotte ai minimi termini da parte di tutti, se non per alcune piccolissime eccezioni. Risale infatti al 1979 quando il Cairo decise di normalizzare le proprie relazioni diplomatiche con Israele, anche a seguito della Guerra dello Yom Kippur del 1973. Nel 1989 fu il turno della Giordania, la quale a sua volta arrivò a un accordo di pace con Tel Aviv, e infine si arrivarono agli accordi del 1993 tra Rabin e Arafat dove venne di fatto sancita la nascita dell’Autorità nazionale palestinese.

 

Come si può notare, la storia di Israele è connotata da pochi accordi diplomatici con il mondo arabo e purtroppo nel corso della sua esistenza sono state più le occasioni di conflitto che di incontro. Tuttavia, dall’analisi delle scelte che lo stato ebraico sta portando avanti negli ultimi mesi, sembra che la ragion di stato sia tornata al vertice dell’agenda, superando differenze religiose o ideologiche.

 

Ciò viene dimostrato ampiamente dal fatto che non sono più un segreto i contatti tra lo Israele e tutte le petromonarchie del Golfo che avvengono ormai da mesi. Ed è proprio per questo che l’annuncio degli accordi non risulta essere un fulmine a ciel sereno praticamente per nessuno. Il percorso che ha portato alla firma a Washington del 15 settembre tuttavia è stato lento e graduale.

 

Il primo segnale importante è arrivato il 12 agosto da Abu Dhabi, il cui governo ha annunciato la prossima normalizzazione dei rapporti con Israele, ovvero, traducendo dal linguaggio diplomatico, l’elaborazione di un comune accordo di pace tra i due stati. Solo poche settimane dopo è arrivato una comunicazione del tutto analoga da parte di Re Hamad bin Isa Al Khalifa, sovrano del Bahrein, il quale ha annunciato di voler stringere accordi diplomatici a sua volta con Israele.

 

Gli accordi a tre sono stati firmati ufficialmente il 15 settembre 2020, in occasione del ventisettesimo anniversario degli accordi di Oslo del 1993. Un aspetto tuttavia non affrontato dei media è stata la composizione formale e giuridica degli accordi. Infatti non si tratta di un unico trattato tra tre nazioni, ma di tre distinti trattati formali.

 

Il primo è una dichiarazione generale d’intenti tra tutte e tre le parti, in cui si parla molto in generale e senza alcuna misura pratica della pace in Medio Oriente e della collaborazione tra gli stati ivi presenti. Per farla breve, una cornice molto elaborata, ma senza alcuna incisione di rilievo per valorizzare l’opera che racchiude.

 

Il trattato tra Israele e Emirati Arabi Uniti invece come anticipato è costituito da un vero e proprio trattato di pace tra le due nazioni. Questo costituisce un documento sottostante il diritto internazionale e quindi deve essere discusso, analizzato e infine approvato dai rispettivi parlamenti. Nulla fa intuire che ciò non avvenga, tuttavia il peso di questa carta firmata dai due stati è tutto fuorché indifferente.

 

Per quanto riguarda invece il trattato tra Israele e Bahrein questo è una dichiarazione ufficiale di pace, ossia un accordo che impegna entrambe le parti a percorrere una strada comune nella normalizzazione dei propri rapporti. Per quanto sia senza alcuna ombra di dubbio importante e simbolico anche questo accordo, esso ha decisamente un peso differente rispetto al precedente e avrà sicuramente anche differenti conseguenze.

 

Alla firma degli accordi erano presenti il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed Al Nahyan e l’omologo del Bahrein Abdullatif Al Zayani, il tutto con Donald Trump come ospite di casa e in veste di improbabile testimone per i posteri.

 

Sotto il profilo politico, gli Accordi di Abramo sono una vittoria schiacciante, sia interna che verso gli esteri, per tutti i partecipanti. Infatti il messaggio che si è voluto trasmettere al mondo è solo uno: il riavvicinamento di Israele con gli stati arabi del Golfo è iniziato e questo è solamente il primo passo di una serie ancora molto lunga.

 

Tra tutti i presenti alla firma degli accordi, il più felice sicuramente è stato Donald Trump. Ormai prossimo al grande test elettorale americano, Trump ha incassato un’importante vittoria da spendere proficuamente nel confronto con il suo avversario democratico.

 

Da svariato tempo ormai Trump cerca di ergersi a pacificatore del Medio Oriente, con mosse che non sempre danno i risultati sperati (vedi il ritiro delle truppe dalla Siria e il conseguente abbandono degli alleati curdi o il celeberrimo “Accordo del Secolo”). Tuttavia, nonostante la dubbia efficacia delle politiche mediorientali della Casa Bianca, l’amministrazione Trump è stata molto attenta a questa parte del mondo, e in particolar modo a tutto ciò che riguarda Israele.

 

Trump infatti non è uno stupido e sa perfettamente che l’elettorato di matrice ebraica è molto forte negli Stati Uniti e ha una voce molto importante nella scelta dell’inquilino della Casa Bianca. Si spiega quindi la proattività del presidente e di tutto il suo staff per raggiungere la firma di questi accordi prima delle elezioni di novembre. Unendo questa vittoria diplomatica alle altre promesse mantenute negli anni ai suoi elettori, tra le quali il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, dall’Afghanistan e dalla Siria nonché svariate decisioni di politica interna, ci si rende conto che Trump risulti essere ancora un candidato papabile per la vittoria nonostante venga dato dai sondaggi circa 10 punti sotto il duo Biden-Harris. D’altronde anche nell’ultima tornata elettorale venne dato per sconfitto fino all’ultimo, ma quella volta sappiamo perfettamente come andò a finire.

 

Gli Accordi di Abramo sono una vittoria anche per Israele, la quale ha dimostrato di non essere più una tartaruga chiusa in sé stessa in mezzo a un Medio Oriente a lei ostile. Questo piccolo segnale di apertura può far ben sperare per il futuro, anche se la strada da percorrere è ancora tanta. Tuttavia non vi è da illudersi, poiché se Israele ha stretto degli accordi diplomatici così espliciti con due stati del Golfo è solamente perché vi sono degli obiettivi economici, politici ma soprattutto geostrategici comuni molto rilevanti.

 

Il primo fra tutti è l’avversione per l’Iran, che risulta essere il polo di attrazione per tutte le forze sciite dell’area. La volontà di isolare Teheran e di vederla sprofondare da sola senza alleati è tale da portare Israele ad allearsi anche con stati con i quali vent’anni fa non avrebbe sognato di fare neanche una telefonata. Proprio questa strategia comune sta portando Tel Aviv a muovere i primi passi verso lo scoglio più grande di tutta la penisola arabica: l’Arabia Saudita.

 

Già a gennaio il fatto che Israele abbia autorizzato viaggi verso l’Arabia Saudita ha portato non poca sorpresa tra tutte le Cancellerie del mondo. Il potenziale avvicinamento con Riyad sarà il più difficile di tutte le petromonarchie del Golfo per due ragioni.

 

La prima, e forse la più importante, è che l’Arabia Saudita è sede di tutti i luoghi sacri dell’Islam e proprio per questo soffre di un’avversità nei confronti di Israele unica nel mondo arabo. La seconda ragione è che il principe ereditario Mohammed bin Salman attualmente non ha lo spazio di manovra dal punto di vista politico interno per iniziare delle trattative con Israele. Infatti i suoi piani per “Vision 2030”, il faraonico piano di ristrutturazione infrastrutturale e amministrativo dello stato saudita, è in dubbio più che mai vista la crisi dei prezzi del mercato petrolifero.

 

Questo, unito alla grave crisi del lavoro sempre più importante nel regno, porta il principe a doversi concentrare più sugli aspetti di politica interna rispetto a quella estera riguardante Israele, la quale potrebbe portargli ancora meno consensi da parte dei propri cittadini. Proprio per queste difficoltà strutturali con il regno saudita molti hanno visto nel Bahrein un ottimo intermediario per intavolare delle trattative, anche a medio o lungo termine, tra Riyad e Tel Aviv. Quindi vi è la possibilità che l’inclusione del Bahrein negli accordi dello scorso 15 settembre altro non sia stata che una mossa propedeutica ad accordi ancora più importanti. Tuttavia queste sono solo ipotesi di cui probabilmente non avremo mai risposta.

 

L’Arabia Saudita però non è l’unico obiettivo di Israele nel Golfo. Da alcuni punti di vista infatti Kuwait e Oman sono dei traguardi ancora più importanti da raggiungere per il governo di Tel Aviv. Entrambi questi stati ospitano un’opinione pubblica molto ferma sulla tematica dei rapporti con lo stato ebraico. Gruppi religiosi, politici ed etnici sono estremamente restii al volersi avvicinare a Israele ed è molto difficile che questo scenari cambi nel breve-medio termine.

 

Tra i due stati il Qatar è quello che fa più gola, in particolare agli Stati Uniti in un’ottica strategica. Esso infatti è uno degli stati sunniti più importanti nella regione e portare Doha a normalizzare i rapporti con Tel Aviv causerebbe una grande disfatta alle ambizioni strategiche turche, delle quali il Qatar è un principale alleato e sostenitore economico. Proprio a questo scopo gli Stati Uniti vorrebbero attribuire al Qatar lo status di “importante alleato non Nato”.

 

Washington si trova in difficoltà in questo momento, dovendo tenere sempre più in considerazione una Turchia, stato peraltro membro della NATO, che cerca di aumentare sempre più la propria sfera di influenza per diventare un attore regionale di conto nelle dinamiche dell’area MENA (Middle East and North Africa) e non solo. Ciò ci mostra come il Medio Oriente risulti essere ancora, oggi come sempre, un domino intricatissimo in cui il rovesciamento di una sola tessera può portare l’intero tavolo a cadere sotto il proprio peso.

 

Infine un’altra questione su cui si riflettono inevitabilmente gli Accordi di Abramo è la situazione palestinese. Inutile dirlo, i palestinesi si sono sentiti traditi dai propri fratelli appartenenti al mondo arabo, vedendo questo trattato come il segnale dell’essere stati abbandonati al proprio destino.

 

Nel giorno stesso della firma si sono susseguite proteste lungo tutta la Striscia di Gaza e si sono avuti anche numerosi lanci di missili provenienti da territori palestinesi. Lo sdegno palestinese risulta più che comprensibile, essendo la Palestina la grande assente degli Accordi di Abramo e portando il premier Abu Mazen a definire il trattato una “pugnalata alle spalle”.

 

La questione principale verterà ora su chi la Palestina farà affidamento. Infatti è molto probabile che i rapporti tra i palestinesi e i suoi partner storici, come Iran e il Libano, o i suoi recentissimi alleati, come la Turchia, possano solo intensificarsi da qui ai mesi a venire. E, come si può intuire, ciò difficilmente porterà a una soluzione pacifica.

 

In conclusione, gli Accordi di Abramo finiranno molto probabilmente nei libri di storia per le importanti conseguenze che avranno sul mondo arabo e sul Medio Oriente tutto. È infatti praticamente la prima volta dal 1948, ovvero dalla nascita di Israele, che si assiste a un clima di concreta distensione e dialogo tra i paesi arabi e lo stato ebraico e ciò può fare solo ben sperare per il futuro.

 

Nonostante questo trattato così importante, non ci si può permettere di fare illusioni. Infatti Israele si è mossa in questa direzione per puro interesse politico ed economico, in particolare per creare una coalizione araba anti-iraniana così da isolare completamente lo stato degli Ayatollah.

 

La sua è autoconservazione, nulla più. Sarà anche molto importante monitorare lo spostamento degli equilibri nei prossimi mesi di tutta l’area del Golfo Persico e dell’Asia Centrale, così da vedere se effettivamente il Medio Oriente è pronto ad accogliere questa nuova, importante e delicata fase della sua storia moderna.

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]