attualità
sugli accordi di abramo
UN'OPPORTUNITÀ PER IL MEDIO ORIENTE
subsahariano
di Gian Marco Boellisi
Alla storia piacciono le simmetrie si
sa, nel bene e nel male, e lo scorso 15
settembre 2020 il mondo ha assistito a
una di esse. In questa data infatti,
allo stesso modo degli accordi nel 13
settembre 1993 tra Rabin e Arafat, sono
stati sottoscritti a Washington tra
Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein i
cosiddetti Accordi di Abramo,
ovvero dei trattati internazionali che
regolamentano le relazioni diplomatiche
tra questi 3 stati, a lungo rimasti
sospesi a causa di profonde inimicizie
tra lo stato ebraico e in
generale il mondo arabo.
Nonostante il retaggio storico dalla
Guerra dei 6 Giorni in poi, Israele
sembra essersi mossa negli ultimi mesi
verso una politica distensiva con
svariati partner arabi, sia per motivi
economici ma soprattutto strategici.
Risulta interessante quindi comprendere
in quale nuova direzione si sta muovendo
il Medio Oriente e quali conseguenze
possono avere questi accordi sull’intera
regione.
Partiamo dal retaggio storico con cui è
arrivato Israele alla firma dei suddetti
accordi.
Prima del 15 settembre gli unici paesi
arabi a riconoscere lo stato ebraico
erano l’Egitto e la Giordania. Molti
storici concordano che i rapporti tra
Israele e il mondo arabo si sono
infranti nel giorno in cui lo stato
ebraico ha visto la propria nascita e
sono definitivamente affondati a seguito
della vittoria schiacciante oltre ogni
misura nella Guerra dei 6 Giorni del
1967 tra Israele e svariati stati
appartenenti al mondo arabo.
Da allora le relazioni diplomatiche nei
confronti di Tel Aviv si sono ridotte ai
minimi termini da parte di tutti, se non
per alcune piccolissime eccezioni.
Risale infatti al 1979 quando il Cairo
decise di normalizzare le proprie
relazioni diplomatiche con Israele,
anche a seguito della Guerra dello Yom
Kippur del 1973. Nel 1989 fu il turno
della Giordania, la quale a sua volta
arrivò a un accordo di pace con Tel
Aviv, e infine si arrivarono agli
accordi del 1993 tra Rabin e
Arafat dove venne di fatto sancita
la nascita dell’Autorità nazionale
palestinese.
Come si può notare, la storia di Israele
è connotata da pochi accordi diplomatici
con il mondo arabo e purtroppo nel corso
della sua esistenza sono state più le
occasioni di conflitto che di incontro.
Tuttavia, dall’analisi delle scelte che
lo stato ebraico sta portando avanti
negli ultimi mesi, sembra che la ragion
di stato sia tornata al vertice
dell’agenda, superando differenze
religiose o ideologiche.
Ciò viene dimostrato ampiamente dal
fatto che non sono più un segreto i
contatti tra lo Israele e tutte le
petromonarchie del Golfo che avvengono
ormai da mesi. Ed è proprio per questo
che l’annuncio degli accordi non risulta
essere un fulmine a ciel sereno
praticamente per nessuno. Il percorso
che ha portato alla firma a Washington
del 15 settembre tuttavia è stato lento
e graduale.
Il primo segnale importante è arrivato
il 12 agosto da Abu Dhabi, il cui
governo ha annunciato la prossima
normalizzazione dei rapporti con
Israele, ovvero, traducendo dal
linguaggio diplomatico, l’elaborazione
di un comune accordo di pace tra i due
stati. Solo poche settimane dopo è
arrivato una comunicazione del tutto
analoga da parte di Re Hamad bin Isa Al
Khalifa, sovrano del Bahrein, il quale
ha annunciato di voler stringere accordi
diplomatici a sua volta con Israele.
Gli accordi a tre sono stati firmati
ufficialmente il 15 settembre 2020, in
occasione del ventisettesimo
anniversario degli accordi di Oslo del
1993. Un aspetto tuttavia non affrontato
dei media è stata la composizione
formale e giuridica degli accordi.
Infatti non si tratta di un unico
trattato tra tre nazioni, ma di tre
distinti trattati formali.
Il primo è una dichiarazione generale
d’intenti tra tutte e tre le parti, in
cui si parla molto in generale e senza
alcuna misura pratica della pace in
Medio Oriente e della collaborazione tra
gli stati ivi presenti. Per farla breve,
una cornice molto elaborata, ma senza
alcuna incisione di rilievo per
valorizzare l’opera che racchiude.
Il trattato tra Israele e Emirati Arabi
Uniti invece come anticipato è
costituito da un vero e proprio trattato
di pace tra le due nazioni. Questo
costituisce un documento sottostante il
diritto internazionale e quindi deve
essere discusso, analizzato e infine
approvato dai rispettivi parlamenti.
Nulla fa intuire che ciò non avvenga,
tuttavia il peso di questa carta firmata
dai due stati è tutto fuorché
indifferente.
Per quanto riguarda invece il trattato
tra Israele e Bahrein questo è una
dichiarazione ufficiale di pace, ossia
un accordo che impegna entrambe le parti
a percorrere una strada comune nella
normalizzazione dei propri rapporti. Per
quanto sia senza alcuna ombra di dubbio
importante e simbolico anche questo
accordo, esso ha decisamente un peso
differente rispetto al precedente e avrà
sicuramente anche differenti
conseguenze.
Alla firma degli accordi erano presenti
il premier israeliano Benjamin
Netanyahu, il ministro degli Esteri
degli Emirati Arabi Uniti Abdullah
bin Zayed Al Nahyan e l’omologo del
Bahrein Abdullatif Al Zayani, il
tutto con Donald Trump come
ospite di casa e in veste di improbabile
testimone per i posteri.
Sotto il profilo politico, gli Accordi
di Abramo sono una vittoria
schiacciante, sia interna che verso gli
esteri, per tutti i partecipanti.
Infatti il messaggio che si è voluto
trasmettere al mondo è solo uno: il
riavvicinamento di Israele con gli stati
arabi del Golfo è iniziato e questo è
solamente il primo passo di una serie
ancora molto lunga.
Tra tutti i presenti alla firma degli
accordi, il più felice sicuramente è
stato Donald Trump. Ormai prossimo al
grande test elettorale americano, Trump
ha incassato un’importante vittoria da
spendere proficuamente nel confronto con
il suo avversario democratico.
Da svariato tempo ormai Trump cerca di
ergersi a pacificatore del Medio
Oriente, con mosse che non sempre danno
i risultati sperati (vedi il ritiro
delle truppe dalla Siria e il
conseguente abbandono degli alleati
curdi o il celeberrimo “Accordo del
Secolo”). Tuttavia, nonostante la dubbia
efficacia delle politiche mediorientali
della Casa Bianca, l’amministrazione
Trump è stata molto attenta a questa
parte del mondo, e in particolar modo a
tutto ciò che riguarda Israele.
Trump infatti non è uno stupido e sa
perfettamente che l’elettorato di
matrice ebraica è molto forte negli
Stati Uniti e ha una voce molto
importante nella scelta dell’inquilino
della Casa Bianca. Si spiega quindi la
proattività del presidente e di tutto il
suo staff per raggiungere la firma di
questi accordi prima delle elezioni di
novembre. Unendo questa vittoria
diplomatica alle altre promesse
mantenute negli anni ai suoi elettori,
tra le quali il ritiro delle truppe
americane dall’Iraq, dall’Afghanistan e
dalla Siria nonché svariate decisioni di
politica interna, ci si rende conto che
Trump risulti essere ancora un candidato
papabile per la vittoria nonostante
venga dato dai sondaggi circa 10 punti
sotto il duo Biden-Harris. D’altronde
anche nell’ultima tornata elettorale
venne dato per sconfitto fino
all’ultimo, ma quella volta sappiamo
perfettamente come andò a finire.
Gli Accordi di Abramo sono una vittoria
anche per Israele, la quale ha
dimostrato di non essere più una
tartaruga chiusa in sé stessa in mezzo a
un Medio Oriente a lei ostile. Questo
piccolo segnale di apertura può far ben
sperare per il futuro, anche se la
strada da percorrere è ancora tanta.
Tuttavia non vi è da illudersi, poiché
se Israele ha stretto degli accordi
diplomatici così espliciti con due stati
del Golfo è solamente perché vi sono
degli obiettivi economici, politici ma
soprattutto geostrategici comuni molto
rilevanti.
Il primo fra tutti è l’avversione per
l’Iran, che risulta essere il polo di
attrazione per tutte le forze sciite
dell’area. La volontà di isolare Teheran
e di vederla sprofondare da sola senza
alleati è tale da portare Israele ad
allearsi anche con stati con i quali
vent’anni fa non avrebbe sognato di fare
neanche una telefonata. Proprio questa
strategia comune sta portando Tel Aviv a
muovere i primi passi verso lo scoglio
più grande di tutta la penisola arabica:
l’Arabia Saudita.
Già a gennaio il fatto che Israele abbia
autorizzato viaggi verso l’Arabia
Saudita ha portato non poca sorpresa tra
tutte le Cancellerie del mondo. Il
potenziale avvicinamento con Riyad sarà
il più difficile di tutte le
petromonarchie del Golfo per due
ragioni.
La prima, e forse la più importante, è
che l’Arabia Saudita è sede di tutti i
luoghi sacri dell’Islam e proprio per
questo soffre di un’avversità nei
confronti di Israele unica nel mondo
arabo. La seconda ragione è che il
principe ereditario Mohammed bin Salman
attualmente non ha lo spazio di manovra
dal punto di vista politico interno per
iniziare delle trattative con Israele.
Infatti i suoi piani per “Vision 2030”,
il faraonico piano di ristrutturazione
infrastrutturale e amministrativo dello
stato saudita, è in dubbio più che mai
vista la crisi dei prezzi del mercato
petrolifero.
Questo, unito alla grave crisi del
lavoro sempre più importante nel regno,
porta il principe a doversi concentrare
più sugli aspetti di politica interna
rispetto a quella estera riguardante
Israele, la quale potrebbe portargli
ancora meno consensi da parte dei propri
cittadini. Proprio per queste difficoltà
strutturali con il regno saudita molti
hanno visto nel Bahrein un ottimo
intermediario per intavolare delle
trattative, anche a medio o lungo
termine, tra Riyad e Tel Aviv. Quindi vi
è la possibilità che l’inclusione del
Bahrein negli accordi dello scorso 15
settembre altro non sia stata che una
mossa propedeutica ad accordi ancora più
importanti. Tuttavia queste sono solo
ipotesi di cui probabilmente non avremo
mai risposta.
L’Arabia Saudita però non è l’unico
obiettivo di Israele nel Golfo. Da
alcuni punti di vista infatti Kuwait e
Oman sono dei traguardi ancora più
importanti da raggiungere per il governo
di Tel Aviv. Entrambi questi stati
ospitano un’opinione pubblica molto
ferma sulla tematica dei rapporti con lo
stato ebraico. Gruppi religiosi,
politici ed etnici sono estremamente
restii al volersi avvicinare a Israele
ed è molto difficile che questo scenari
cambi nel breve-medio termine.
Tra i due stati il Qatar è quello che fa
più gola, in particolare agli Stati
Uniti in un’ottica strategica. Esso
infatti è uno degli stati sunniti più
importanti nella regione e portare Doha
a normalizzare i rapporti con Tel Aviv
causerebbe una grande disfatta alle
ambizioni strategiche turche, delle
quali il Qatar è un principale alleato e
sostenitore economico. Proprio a questo
scopo gli Stati Uniti vorrebbero
attribuire al Qatar lo status di
“importante alleato non Nato”.
Washington si trova in difficoltà in
questo momento, dovendo tenere sempre
più in considerazione una Turchia, stato
peraltro membro della NATO, che cerca di
aumentare sempre più la propria sfera di
influenza per diventare un attore
regionale di conto nelle dinamiche
dell’area MENA (Middle East and North
Africa) e non solo. Ciò ci mostra
come il Medio Oriente risulti essere
ancora, oggi come sempre, un domino
intricatissimo in cui il rovesciamento
di una sola tessera può portare l’intero
tavolo a cadere sotto il proprio peso.
Infine un’altra questione su cui si
riflettono inevitabilmente gli Accordi
di Abramo è la situazione palestinese.
Inutile dirlo, i palestinesi si sono
sentiti traditi dai propri fratelli
appartenenti al mondo arabo, vedendo
questo trattato come il segnale
dell’essere stati abbandonati al proprio
destino.
Nel giorno stesso della firma si sono
susseguite proteste lungo tutta la
Striscia di Gaza e si sono avuti anche
numerosi lanci di missili provenienti da
territori palestinesi. Lo sdegno
palestinese risulta più che
comprensibile, essendo la Palestina la
grande assente degli Accordi di Abramo e
portando il premier Abu Mazen a definire
il trattato una “pugnalata alle spalle”.
La questione principale verterà ora su
chi la Palestina farà affidamento.
Infatti è molto probabile che i rapporti
tra i palestinesi e i suoi partner
storici, come Iran e il Libano, o i suoi
recentissimi alleati, come la Turchia,
possano solo intensificarsi da qui ai
mesi a venire. E, come si può intuire,
ciò difficilmente porterà a una
soluzione pacifica.
In conclusione, gli Accordi di Abramo
finiranno molto probabilmente nei libri
di storia per le importanti conseguenze
che avranno sul mondo arabo e sul Medio
Oriente tutto. È infatti praticamente la
prima volta dal 1948, ovvero dalla
nascita di Israele, che si assiste a un
clima di concreta distensione e dialogo
tra i paesi arabi e lo stato ebraico e
ciò può fare solo ben sperare per il
futuro.
Nonostante questo trattato così
importante, non ci si può permettere di
fare illusioni. Infatti Israele si è
mossa in questa direzione per puro
interesse politico ed economico, in
particolare per creare una coalizione
araba anti-iraniana così da isolare
completamente lo stato degli Ayatollah.
La sua è autoconservazione, nulla più.
Sarà anche molto importante monitorare
lo spostamento degli equilibri nei
prossimi mesi di tutta l’area del Golfo
Persico e dell’Asia Centrale, così da
vedere se effettivamente il Medio
Oriente è pronto ad accogliere questa
nuova, importante e delicata fase della
sua storia moderna. |