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N. 31 - Dicembre 2007

LA ZARINA TEDESCA E IL MUJIK

Impressioni di un viaggio a San Pietroburgo

di Leila Tavi

 

Uno straniero si riconosce dallo sguardo “strano”, da come osserva tutto e tutti, anche quello che noi consideriamo di poca importanza. Puškin narrava di quello sguardo negli stranieri, lo stesso che ho avuto in questi giorni di fine agosto a San Pietroburgo.

 

Mi hanno incuriosito le cose più insolite: i gradini delle scale mobili nelle stazioni della metropolitana, numerate di dieci in dieci; i gettoni della metro che diventano, allo stesso prezzo, carte magnetiche se si porta con sé una valigia ingombrante o un bambino; citofoni dei palazzi con i cifral, i codici per accedere agli interni e per aprire i portoni; i cartelloni pubblicitari e le insegne dei negozi; i telefoni pubblici.

 

Agli inizi dell’Ottocento un italiano in visita a Pietroburgo, il marchese Federigo Fagnani, rimase impressionato dalle stufe, tanto da dedicare pagine e pagine sull’argomento nei suoi diari. Ma la cosa più strabiliante di Pietroburgo è la gente, che il marchese, per i tempi in cui è vissuto, non ha mai avuto la possibilità di conoscere. Gli abitanti di Pietroburgo sono un tipo particolare di slavi, diversi da quelli che sono abituata a frequentare; essi stessi si considerano più europei che slavi: amanti della musica, intellettuali, cortesi.

 

I veri slavi, dicono, li puoi incontrare a Mosca. Essere una turista e allo stesso tempo italiana a Pietroburgo è un grande vantaggio; qualcuno mi fa notare che gli Italiani non hanno solo costruito la città: “Non puoi alzare gli occhi senza imbatterti in un nome italiano di un albergo, di un ristorante, di un negozio alla moda”. Pietroburgo, la città marinara dei quadri di Aivazovsky, dei giovani cadetti dell’Accademia navale che, con le loro uniformi, sembrano guazzi di colore blu nell’anonimato della folla che riempie, giorno e notte, tutti i giorni, il Nevskij.

 

Pietroburgo e la sua Neva, i suoi canali: la Fontanka, con le sue fontane sparite, la Mojka, con la casa di Puškin, e la Cernaja Recka, dove, si dice, il celebre poeta sfidò nel fatale duello il barone Georges d'Anthès. Puškin si respira in questa città. Mentre sediamo a un tavolino del Caffé Letterario, ex Wolff et Béranger, dove il poeta incontrò il suo padrino Danzas prima del duello, la mia amica Irina ci racconta con trasporto di Anna Petrovna Kern, la musa ispiratrice dei versi di Puškin: «Io ricordo il meraviglioso momento: / Tu mi sei apparsa, / Come un'apparizione fuggitiva, / Come il Genio della bellezza pura». Dopo il Caffé Letterario ci aspetta  il Puškinskij dom, l’Accademia delle scienze, accanto all’Universita, che compirà il suo centenario a dicembre di questo anno e sarà il luogo di festeggiamenti con studiosi da tutto il mondo.

 

Lì incontro Anton, che conosce tutti i meandri e i passaggi segreti del dom; consultiamo i cataloghi più vecchi e polverosi e, come se fossi un ospite illustre, mi porta a vedere la famosa sala dei congressi. Forse tale cerimoniale è più in onore della amica russa che mi ha accompagnato, e che è una nota e stimata traduttrice di narrativa italiana, che per me, ma non importa. Mi vergogno del mio russo improvvisato, Anton parla un italiano che farebbe impallidire i nostri poeti; alla fine mi confessa che in Italia non sarebbe in grado di ordinare un caffé senza apparire bizzarro: l’italiano che conosce è quello che ha imparato comparando le poesie di Metastasio con le traduzioni in russo di Michail Derjavin. Nonostante la mia garbata e stimata accompagnatrice sono inutili i tentativi di violare la porta chiusa dell’Archivio storico sulla Senatskaja, nessuno si lascia corrompere: si riapre forse tra due anni, forse tra cinque. Al suo posto è previsto un grande albergo di lusso, dicono voci indiscrete.

 

Allora sconsolata mi fermo a guardare l’imponente statua a cavallo di Pietro il Grande con la corona d’alloro a mo’ di romano e lo sguardo rivolto alla Neva. La statua fu voluta da Caterina e, si racconta, che alla zarina non piacque affatto, tanto da rimproverare allo scultore francese Etienn Falconet, a cui l’aveva commissionata, che lo zar sembrava un mujik, un contadino, piuttosto che un imperatore romano. L’artista ebbe una tale vergogna che volle tornare immediatamente in Francia senza neanche aspettare l’inaugurazione del monumento in onore di Pietro I.

 

Guardo l’enorme forma di bronzo, il Mednyj vsadnik, ancora una volta e spero di non fare la fine dell’Eugenio del poema di Puškin. Mi vengono in mente le parole della mia amica Irina: “Puškin  è il sole della letteratura russa, è il nostro tutto”. Ad un tratto vengo distolta dalle risate allegre di una coppia, poi un'altra, poi una terza coppia di sposi, che si avvicinano alla statua per farsi fotografare: tutti hanno una coppa di champagne in mano e sono giovanissimi. A Piter, come la chiamano affettuosamente i suoi abitanti, ci si sposa tutti i giorni ed è di buon augurio per i giovani sposi andare in giro per la città a farsi fotografare e a visitare i monumenti più importanti, così, vicino ad ogni monumento, capita di incontrare tre, quattro coppie appena sposate che brindano felici con i testimoni e gli amici, assomigliano a quelle coppie di amanti leggiadre dei quadri di Chagall.

 

Pietroburgo si sviluppa sul delta della Neva e si affaccia sul golfo di Finlandia, che dista solo 300 km. dalla città. I suoi ”battelli con le ali”, i rostry, collegano in meno di un’ora Petrodvoretz, residenza estiva voluta da Pietro I, con il Sud della città; dal battello uno scorcio sull’isola Vassilevskij, il quartiere sul mare. Alexandre Dumas, che una volta visitò San Pietroburgo, proprio dalla Strelka dell'isola Vassilievskij disse: "Non so se esista al mondo un'altra veduta che possa paragonarsi a questo panorama che si svolge davanti a me". Durante il nostro viaggio a bordo del battello vediamo da lontano nell’estensione della città un punto rilucere: è la cupola dell’ Isaakievskij sobor, che con i suoi 101, 5 m. supera in altezza gli altri edifici ed è visibile da vari punti della città. Nei sobor russi si respira un’atmosfera diversa dalle nostre cattedrali; nel  Kazanskij sobor, la cattedrale dedicata alla Madonna di Kazan, all’ingresso rimango colpita dalla confusione dei fedeli accalcati davanti a un banco di souvenir, mentre a pochi metri, nella navata principale, viene celebrata una funzione scenografica e solenne: fedeli e officianti cantano rivolti verso altare con il quadro della Madonna che, la leggenda dice, sia apparsa ai Russi durante la battaglia di Kazan, condotta vittoriosamente da Ivan IV sui Tartari.

 

La cattedrale divenne dopo la battaglia del 1812 il monumento della gloria russa e dopo la morte di Mihail Illarionović Kutuzov, vincitore su Napoleone ed eroe nazionale, le reliquie del generale sono custodite nella cripta della cattedrale. Nelle chiese ortodosse russe le donne sono obbligate a coprire il capo solo se entrano per pregare, l’abbigliamento ha poca importanza. Coprire il capo significa raccogliersi in preghiera, nessun pope russo giudica sconcia una donna a capo coperto, anche se in minigonna. A nessun pope russo sembra bizzarro mettere un bancomat in una chiesa: se ne trova uno proprio all’entrata della Spas-na-krovi, la Chiesa della Resurrezione, detta anche del Sangue Versato o del Salvatore, sorta sul canale Griboedov in memoria di Alessandro II, ucciso in quel luogo il 1. marzo 1881 da Ignatij Grinevitskij, membro della Narodnaja Volja. La cattedrale è stata riaperta in questi giorni al pubblico dopo anni. Insieme al biglietto di ingresso viene consegnata una piccola bustina di celophan ripiegata: sono le sovrascarpe da indossare per non rovinare i mosaici del pavimento.

Fuori dalla chiesa dal canale si vedono passare le imbarcazioni che portano i turisti in giro sotto i ponti di Piter. Le piccole imbarcazioni passano sotto al ponte davanti alla cattedrale Spas-na-krovi; l’acqua è talmente alta che i viaggiatori sono costretti a piegarsi per potervi passare sotto. Un suonatore ambulante sopra il ponte accenna tristemente le note di Moi Peterburg per i turisti.

 

Spostarsi non è difficile neanche via terra: oltre a quattro linee della metropolitana, ci sono autobus e microbus, il tutto per pochi rubli. Nei microbus i passeggeri siedono comodamente e  si passano di mano in mano i rubli fino al conducente che fa anche da controllore. Negli autobus di periferia invece sono in pochi a sedersi perché i posti sono scomodi e dell’imbottitura non resta che la fodera lacerata. Se vi capita di trovare un sedile integro o magari con una coperta variopinta sopra non sedetevi, molto probabilmente è il posto del controllore.

Pietroburgo, città della cultura a buon mercato, con i suoi mille negozi di musica, dove un CD originale costa dai 29 ai 200 rubli, e con la sua Krupa (grano), il mercato di libri, paradiso per i bibliofili. Krupa è l’abbreviazione del cognome della moglie di Lenin, Nadejda Krupskaja, da cui l’edificio della “Casa della cultura”, dove si trova il mercato, prende il nome.

 

Dalla terrazza del ristorante Baron Munchausen sul Krestovskij ostrov, l’isola della croce, i Pietroburghesi si siedono e ammirano la casa dei sogni: un complesso residenziale in costruzione moderno e dotato di tutti i confort vicino al parco dei divertimenti; da lì camminando per venti minuti lungo la cancellata blu del cantiere si arriva al delfinario, dove Asi, Daši, Flop e Vol’ki, ex-sminatori a riposo, divertono i bambini con i loro numeri di acrobazia. Il delfinario è così popolare tra gli abitanti che è stato addirittura indetto un concorso nazionale per dare un nome al nuovo nato di casa “Leningradsky Delfinar”. Se parliamo di acrobati non possiamo dimenticare gli artisti del circo della Fontanka, dove i trapezisti per impressionare gli spettatori fingono di sbagliare i salti per aumentare la suspense e ottenere un fragoroso applauso a esercizio riuscito. Rischiano la vita più per l’ovazione del pubblico che per il magro stipendio.

 

Nonostante la nostra padrona di casa cucini il borsh migliore di tutta la città ci lasciamo tentare per una volta dal Kavkas bar dove ci servono dell’ottimo chaciapuri. Un’alternativa ai fast food americani che dilagano in città è mangiare i blinny, le Palatschinken per gli Europei “centrali”,  le omelette per i Francesi, magari accompagnati da un Russkij čaj, il famoso tè russo. Dal ristorante giapponese sul Moskovskij prospekt, il primo ristorante panoramico di Pietroburgo, si gode di una vista mozzafiato sulle cupole e sui tetti della città.

 

Ad ogni angolo di Piter, fuori dalle stazioni della metropolitana, in centro e in periferia, si trovano banchetti che vendono fiori, a rispetto della tradizione per cui, una volta che si va in visita in casa di qualcuno, non ci si presenta mai, sottolineo mai, senza un mazzo di fiori per la padrona di casa. Una città di quattro milioni di abitanti, con il traffico lungo la Neva terrificante come sul nostro lungotevere, soprattutto alla fine di agosto, quanto tutti i Pietroburghesi ritornano dalla dacia alla fine delle vacanze. Anche i mendicanti e i venditori ambulanti sui vagoni del metrò riappaiono alla fine dell’estate, la più calda che gli abitanti ricordino. Dopo alcuni giorni riceviamo il nostro primo invito a cena a casa di russi e anche noi ci presentiamo con il “tradizionale” mazzo di fiori.

 

Entriamo in un appartamento grande, in una di quelle che viene definita “una casa di Stalin”: cucina, studio, soggiorno, bagno con vasca enorme, panoramico, nei pressi della Cernaja Recka. Noi, invece, abitiamo in una palazzina del 1964 di 14 piani e con 98 interni vicino a park Pobedy, al parco della Vittoria, in una ”casa di Chruščëv”: un soggiorno che fa da studio e anche da camera da letto, una cucina e un bagno senza lavandino.  I nostri ospiti sono una coppia con la passione per l’Italia da molti molti anni: Irina, una traduttrice di romanzi italiani e Leone, un veterano di guerra, di mestiere registra televisivo e critico musicale, ormai in pensione da tempo. Leone ha fatto della passione per la musica, soprattutto per la lirica italiana, lo scopo della sua vita.

 

Ha imparato a conoscere la lirica da bambino ascoltando la radio dei suoi vicini attraverso le pareti, la sua famiglia era così povera negli anni Trenta da non poter permettersi neanche una radio. Poi il fronte da giovane, durante l’assedio di Leningrado, dove è stato ferito quasi mortalmente alla testa; oggi a 82 anni ogni tanto, mi dice, si fa ancora sentire. Una brillante carriera come registra di programmi musicali, ma le pellicole sono state tutte distrutte perché fatte con un materiale altamente infiammabile; allora mi mostra fiero tutti i libri da lui scritti, molti sono biografie di musicisti italiani, le vecchie fotografie con i compagni di corso dell’Accademia teatrale (ha anche recitato prima di concludere gli studi), infine mi mostra con orgoglio le congratulazioni che gli sono giunte da Mosca come veterano di guerra in occasione della parata per i 60 anni dalla fine della guerra e per la vittoria.

 

Nell’invito per partecipare alla parata, Pobeda, vittoria, è scritto in caratteri dorati; Leone però non è andato, da anni ormai non esce più di casa. Avere ospiti italiani lo ha messo di buonumore, ogni tanto si estranea dalla conversazione e canticchia un’aria in italiano, ma non si ricorda da quale opera è tratta, non ricorda neanche quanti anni ha suo figlio. Poi è il momento di tutte le sue medaglie al valore, ce le mostra come un bambino fiero di mostrare la sua collezione di figurine, poi si ferma, una smorfia di dolore sul viso: è la ferita alla testa, dopo 60 anni fa ancora male. Di ritorno dalla dacia passano a trovare l’anziana coppia la nipotina Katja e la seconda moglie del figlio Ol’ga. Appena Irina apre la porta rimango colpita dal contrasto tra la giovane donna e il suo vecchio suocero: Ol’ga e Leone, 65 ani di differenza,  lo stesso lavoro e due modi diversi di vivere oggi a San Pietroburgo; due anime di questa meravigliosa città che convivono.

 

Ol’ga con i suoi 27 anni, le lunghe chiome curate, uno splendido sorriso e la sua borsa di Gucci, dove trilla incessantemente il cellulare, sembra uscita da una pagina patinata di Vogue, una che appartiene all’enclave dei nuovi oligarchi; Leone con i suoi 82 anni, il panciotto di pelle imbottito, i suoi cimeli impolverati e le arie incise sui 78 giri appartiene al glorioso ma doloroso passato russo. Siedono accanto sul divano del soggiorno e mi fanno pensare alle facciate dei palazzi di Pietroburgo, come se ne vedono molte in giro per la città, le vecchie accanto a quelle ristrutturate. Come quei due palazzi vicino al Museo russo e al Museo delle tradizioni popolari: un palazzo ha i muri sporchi e crepati, il colore ingiallito dallo smog e dal tempo, melanconico ma affascinante allo stesso tempo; il palazzo adiacente appena ristrutturato ha la facciata di un colore giallo sgargiante e bianco candido, chiassosa ma che mette allegria.

 

A breve inizierà la stagione dei venti e poi l’inverno che gelerà le acque della Neva, così come sono, increspate. Ma questa è una città che non ho ancora visto, quella che riaffiora alla mente in una Roma dalle piogge torrenziali ai primi di settembre è quella con le cupole dorate dei sobor che scintillano al sole, mentre scorro al computer il blog di Rago Vita a San Pietroburgo: cronaca quasi quotidiana, dove… non è tutto oro quello che luccica.

 



 

 

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