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N. 5 - Ottobre 2005

VIAGGIO IN AUSTRALIA

Nel cuore della mitologia aborigena

di Salvatore Liberti

 

Sono le ore 7 del 26 gennaio: l’ Australian Day, giorno di festa nazionale. Aeroporto di Sydney: eccomi pronto ad affrontare una emozionante avventura. La scoperta di un mito, il "dream-time". Mi sento pervaso da uno stato d’ animo di eccitazione misto ad ansia; le immagini di Sydney, che sto per lasciare, si sovrappongono a quelle dell’Ayers Rock, un sogno vissuto solo attraverso le pagine di National Geographic e queste immagini, che mi scorrono di fronte come in un film, sembrano annodarsi tra di loro.

 

Dopo circa due ore dal decollo dell’aereo, scorgo sotto di me attraverso il finestrino un paesaggio assolutamente straordinario, una immensa distesa di terra color ocra con macchie di grigio e di verde senza rilievo. Ho la sensazione che il tempo e lo spazio siano quasi senza spessore.

 

Atterriamo ad  Alice Springs: un nome di forte suggestione, forse perché custodisce luoghi circondati da un alone di mistero, o dovuta alla presenza di una numerosa comunità aborigena. Senza dubbio, sono anche influenzato e sensibilmente affascinato dalla lettura del libro di Bruce Chatwin “Le vie dei canti”: leggere trovandosi negli stessi luoghi descritti dallo scrittore costituisce una esperienza assolutamente unica. Le “vie dei canti” sono, nella mitologia aborigena, un labirinto di sentieri invisibili che corre lungo tutto il territorio australiano. I miti della creazione  raccontano di antenati totemici che, nel “tempo del sogno”, crearono se stessi e poi partirono per un viaggio attraverso il continente, cantando il nome di tutto ciò che vedevano e dando così origine al mondo per mezzo del canto.

 

Prendo possesso della mia stanza al “Toddy’s Resort” e mi immergo (è un eufemismo, perché fa molto caldo) nella magica atmosfera di Alice Springs. Attraverso Todd Street ed ho l’opportunità di incontrare, per la prima volta da quando sono in Australia, alcuni aborigeni del luogo. La loro attuale condizione di emarginazione  mi fa pensare a quanto sia oggi distante, per loro, lo spirito del “tempo dei sogni”.

 

Dopo una breve sosta alla Scotty’s Tavern (uno dei più vecchi e caratteristici pub di Alice Spring) ho modo di scambiare due chiacchiere in francese con una ragazza belga molto carina (lavora come stilista) in viaggio con il marito da sette mesi per un giro intorno al mondo che durerà un anno intero (hanno già attraversato il medio oriente, l’ India e l’Asia): beati loro...

E’ sera, ed a sorpresa, il cielo si incupisce; un ragazzo tedesco con cui ho fatto amicizia mi dice che il Northern Territory (la mia tappa successiva) è poco praticabile a causa delle forti piogge: speriamo bene...

 

27 gennaio

 

Questa notte è piovuto, ma all’alba è ricomparso uno spicchio di cielo ed alle 7 partiamo con destinazione la mitica Ayers Rock. Viaggiamo con due Land Rover: insieme a me (unico italiano) ci sono due ragazze tedesche, una belga, due ragazzi svizzeri, una ragazza canadese, un tedesco, un americano ed una coppia sempre canadese.

Io e l’ americano siamo i più grandi, perché l’età media degli altri è tra i 25 ed i 30 anni.

Il cielo, in Australia, sembra più vicino alla terra; lo spazio immenso esaspera il concetto di infinito e ti induce a liberare la mente: sono i pensieri che mi accompagnano durante il tragitto lungo una strada che sembra una striscia rossa nel deserto.

 

La prima tappa è costituita dai “Monti Olgas” (Kata Tjuta, che per gli aborigeni significa “molte teste”): 28cupole tondeggianti di arenaria rossa che sembrano degli immensi pagliai. Si ritiene che questo sito fosse un immenso letto di roccia sedimentaria modellato nella attuale struttura, nel corso di milioni di anni, da continue erosioni causate da tempeste di sabbia e agenti atmosferici.

Dopo un trekking fra le “cupole” degli Olga’s Mountains, raggiungiamo, finalmente, il mitico Ayers Rock.

 

E’ veramente imponente e carico di suggestioni. In un deserto che sembra senza limiti, appare come un magico miraggio senza peso; provo una indescrivibile emozione, affascinato da questo monolito, che al tramonto si carica di un colore rosso fuoco, assumendo una dimensione quasi mistica.

 

Mentre calano le prime ombre della sera, ci dirigiamo al nostro accampamento all’Ayers Rock Resort (Yulara Village).

E infine, una notte magica sotto le stelle. Il cielo è stupendo e sembra quasi di poter toccare con le dita le migliaia di stelle che illuminano un universo spettacolare. Chiudo la zip del sacco a pelo e rimango estasiato ad ammirare le costellazioni: il grande ed il piccolo carro, orione, la via lattea, ….

 

28 gennaio

 

Sveglia alle 4,10 e partenza alle 4,50 per la agognata ascesa alla vetta dell’Ayers Rock, da dove potremo godere “the desert sunrise”.

 

E’ ancora buio, ma quando raggiungiamo the top of the rock con il fiato corto ed il cuore trepidante posso godere di una vista stupenda: i raggi del sole, spuntando dal deserto, illuminano questo imponente monolito che sembra quasi caduto sulla terra da chissà quale galassia.

 

L’ Ayers Rock (Uluru per gli aborigeni) è considerato un luogo sacro, dimora degli “antenati” all’epoca del “dream time”, ossia tempo dei sogni inteso non secondo il significato tradizionale della nostra cultura occidentale, ma come concetto globale di esistenza che racchiude in sé stesso il passato, il presente ed il futuro. La legge degli aborigeni (tjukurpa), che regola il comportamento degli individui nei rapporti reciproci e nei riguardi della natura, non vuole che Uluru venga scalato dai turisti, in quanto rappresenta il tradizionale sentiero seguito dagli uomini Mala e perciò riveste grande valore spirituale.

 

Pur se con rispetto, abbiamo contravvenuto a questa regola, ma d’altra parte la curiosità e la presunzione di compiere qualcosa di eccitante hanno prevalso.

Scesi dall’Ayers Rock, percorriamo un sentiero che costeggia la base della montagna e ci porta a scoprire  la mitologia degli aborigeni, le loro leggende, i siti sacri, sedi di cerimonie e riti spirituali. Sulla roccia sono incisi dei graffiti raffiguranti soprattutto rettili, canguri, pesci, mani; alcuni di questi graffiti si dice possano risalire addirittura ad oltre 20.000 anni fa.

 

Dopo la visita al Centro culturale aborigeno del Parco Nazionale di Uluru KataTjuta, ci dirigiamo al King’s Canyon Resort.

Durante il tragitto, ci imbattiamo in una tempesta di sabbia nel deserto: è una sensazione unica, un vortice che colora il cielo di rosso.

 

E’ sera. Dopo una improvvisata partita di cricket organizzata da Catherine, ceniamo intorno al fuoco nel campo di King’s Canyon e quando calano le luci della notte mi rinchiudo nel sacco a pelo. Il cielo (siamo sul Tropico del Capricorno) è ancora più luminoso della sera precedente: sembra quasi che la volta del cielo stellato possa all’ improvviso precipitarmi addosso e rapirmi nello spazio più profondo.

 

29 gennaio

 

Deve ancora albeggiare e già siamo in trekking sulle rocce del King’s Canyon. Ciò che più colpisce la mia immaginazione è l’ Anfiteatro: uno scenario naturale maestoso. Una parete verticale di roccia granitica di colore rosso arancio che sembra quasi tagliata con un coltello, precipita a strapiombo da una altezza di circa 300 metri in una gola fino ad una incantevole oasi naturale chiamata Eden Garden per la presenza di una folta vegetazione di palme ed eucalipti. Camminare sul ciglio della parete mette delle strane sensazioni; all’ improvviso ho quasi la sensazione di essere un’ aquila, ma per fortuna l’ istinto di sopravvivenza mi trattiene con i piedi a terra…

 

Mentre rientriamo in Land Rover ad Alice Spring ed osservo il paesaggio, rifletto sulla dimensione del tempo e dello spazio (capita, quando si è in viaggio). Nel centro di questo enorme continente australiano tutto è immensamente dilatato e puoi spaziare con lo sguardo all’ infinito, senza interferenze. E’ una sensazione che amplifica anche il concetto temporale, perché apparentemente tutto sembra immutabile; il presente, in una dimensione di estrema grandezza, annulla il senso del passato e del futuro.

 

Percorriamo chilometri e chilometri senza incontrare una macchina o presenza apparente di vita, soltanto bush e deserto. Colori dominanti sono il verde degli spinifex e degli arbusti, il rosso della terra e l’azzurro del cielo.

In una stazione di rifornimento nel deserto, riserva aborigena, incontro dei bambini: uno in particolare mi colpisce. Il colore assolutamente nero della pelle contrasta con il colore biondissimo dei capelli lunghi ed incolti. Gioca con una specie di carriola costruita con due pezzi di legno ed un vecchio barattolo e mi sorride; vorrei fotografarlo, ma ho qualche remora ed allora, anziché sulla pellicola, imprimo la sua immagine in un cassetto della mia memoria.

La sera, rientrati ad Alice Spring,  siamo tutti a cena in un ristorante italiano: è l’occasione per rivivere insieme le straordinarie emozioni provate nel corso di questa breve, ma intensa esperienza.

 

30 Gennaio

 

La programmata escursione a Rainbow Walley (la Valle dell’ Arcobaleno) e Chambers Pillar (un blocco di arenaria alto circa 50 metri, luogo simbolico del “dream time” per gli aborigeni) non ha potuto essere effettuata per… mancanza di partecipanti. Essendo un tour in 4wd erano necessarie almeno 3 persone. Mi accontento di acquistare alcune foto, prenotando per il giorno seguente una escursione a Palm Valley. Trascorro la giornata in walk about per Alice Spring ed approfitto per spedire qualche cartolina ad amici.

 

L’ozio mi stimola alcune riflessioni. In Australia convivono diversi tipi di culture e stili di vita. Oltre alla cultura aborigena, oggi relegata ad un ruolo di emarginazione, prevalgono la mitologia del bushman e la cultura metropolitana.

 

La cultura del bushman è la cultura rurale, la cultura dell’ outback, costituito dall’ entroterra selvaggio e deserto. Nell’ immaginario europeo, i bushman sono i mandriani che, indossando il tipico cappello di feltro, conducono le vacche al pascolo in sella ai loro cavalli, uomini dalla pelle ruvida cotta sotto il sole, uomini rudi e spacconi che scolano pinte di birra.

 

La maggior parte degli australiani (oltre i due terzi), forse intimorita dalla vastità e dalla asprezza dell’ ambiente circostante, vive invece nelle città costiere (quasi un quarto della popolazione risiede a Sydney) conducendo un’ esistenza molto simile a quella degli abitanti di New York, Londra o Parigi, sia pure con un tasso molto inferiore di stress urbano. Le immagini di giovani aitanti che, con la tavola da surf sotto il braccio, popolano le vaste spiagge oceaniche o, sullo stile californiano, praticano jogging, polo e cricket, sono ormai divenuti degli stereotipi.

 

31 Gennaio

 

Alle 6,30 parto per l’ escursione a Palm Valley. Siamo in 8: una coppia di olandesi, una ragazza tedesca, un australiano, una coppia di israeliani ed una ragazza argentina di nome Laura, che parla un po’ di italiano (ci voleva).

Con una jeep 4wd raggiungiamo Palm Valley traversando il fiume Finke. E’ una bellissima oasi di palme ed eucalipti nel cuore del deserto, racchiusa in una gola formata dalla catena della West McDonnell Ranger.

 

Le piante crescono nelle immediate vicinanze del fiume insieme ad alcune rare specie di cycad, resti della foresta pluviale che copriva il Red Centre molti milioni di anni fa. Ci sono ottimi scorci panoramici e ne approfitto per scattare diverse foto.  L’unico problema è rappresentato da nugoli di mosche che si infilano dappertutto: nelle orecchie, nel naso, negli occhi; per difenderci, dobbiamo indossare un retino calato sotto il cappelletto.

 

Visitiamo anche la Missione aborigena di Hermannsburg fondata da un prete luterano nel 1878. Si tratta di una missione che ha svolto un ruolo molto importante per la “civilizzazione” delle tribù aborigene ed è divenuta famosa per la presenza di una scuola di pittura dalle tendenze naif. Nella missione facciamo la conoscenza di una numerosa tribù di…canguri. E’ straordinario vedere spuntare la testa di un piccolo canguro dal marsupio della mamma.

Fa molto caldo (circa 40 gradi) ed il cielo è pulitissimo.

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Lungo il tragitto per il rientro ad Alice Spring mi vengono alla mente alcune citazioni tratte dalle tante letture di questi giorni e che mi piace riportare chiamandole “riflessioni sull’ inquietudine e sull’ istinto di movimento”:

 

“…la fonte di tutte le nostre sofferenze è l’ incapacità di stare tranquilli in una stanza. Ciò, probabilmente, a causa della naturale infelicità della nostra debole condizione mortale” (Pascal)

“in origine l’uomo peregrinava per il deserto arido e infuocato del mondo e per riscoprire la sua umanità egli deve liberarsi dai legami e mettersi in cammino” (Dostoyeskj)

“la nostra natura consiste nel movimento. La quiete assoluta è morte” (Pascal)

“... chi non viaggia non conosce il valore degli uomini” (proverbio moresco)

 “…anche i cieli girano continuamente, il sole sorge e tramonta, la luna cresce, stelle e pianeti mantengono un moto costante, l’ aria è agitata dai venti, le maree montano e

defluiscono, gli uccelli migrano, gli alberi disperdono al vento i loro semi: senza dubbio, per conservarsi e insegnarci che dovremmo sempre essere in movimento”.

 

C’è un sito, a circa 350 km. a nord di Alice Spring, disseminato di Devil’s Marbles, massi di granito arrotondati levigati nel corso del tempo dall’ azione erosiva del vento e della sabbia. Secondo una antica leggenda degli aborigeni Warramunga, che abitano la zona, questi massi rappresenterebbero le uova deposte dal Serpente Arcobaleno durante il suo peregrinare.

Io non ho disseminato uova lungo il mio “walkabout” nel deserto e nelle foreste australiane, ma mi piace pensare di aver lasciato delle tracce, sulle rocce, dei miei piedi e delle mie mani e che questa tracce possano costituire un anello di congiunzione tra me e questo meraviglioso ed affascinante continente.



 

 

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