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> Storia Antica

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N. 10 - Marzo 2006

TALAMON/TELAMONE

La battaglia e il tempio – Parte I

di Antonio Montesanti

 

Talamone è un paesino che si trova sulla propaggine che volge a meridione di quel promontorio che rappresenta la parte più a sud della catena costiera dei Monti dell'Uccellina. Da quella posizione domina la costa tirrenica che va dal golfo omonimo fino all’Argentario, spingendo il suo sguardo fin nel profondo dell’Etruria. 

Da questo punto nei giorni in cui la foschia è poco consistente è possibile osservare le coste della Sardegna e della Corsica, inoltre il suo porto, per la posizione arcuata gli consente di poter vantare uno degli attracchi più sicuri del Mar Tirreno. 

Parte integrante del paese è il colle ad oriente il quale è indice di un primo insediamento umano. Il colle di Talamonaccio presenta tracce del periodo neolitico con rinvenimenti sporadici messi in relazione con la presenza al termine del pendio che si affaccia sul mare di una grotta rupestre marina: le tracce di una antropizzazione del sito sono date dal ritrovamento di punte di frecce, lame in selce, pietre focaie che attestano anche un uso abitativo dell’area. 

Da questo periodo gli insediamenti hanno una contiguità abitativa proseguendo nell’Età del Bronzo Antico e Medio (dal XVII sec. a.C.) fino a raggiungere con ceramiche e suppellettili domestiche risalenti all’Età del Ferro (dall'XI al VIII sec. a.C.) che coprono estensioni sempre maggiori. 

Dopo queste premesse è normale che la località venisse interessata da insediamenti Etruschi. La fondazione del centro portuale che si completava con quello cultuale del Talamonaccio rientra in una politica di controllo marittimo, commerciale e militare delle coste dell’intero Tirreno, politica attuata già dal pieno VI sec. a.C. 

Oltre a rappresentare, come detto un ottimo riparo per i naviganti, l’importanza di Talamone è fondamentalmente legata all'esistenza del santuario che doveva fungere da punto di riferimento costiero e interno, il quale deve aver avuto un’importanza tale da poter giustificare un’importanza notevole anche dopo la conquista romana. 

Gli autori attribuiscono al colle e al santuario un’aurea di sacralità che viene giustificata in termini giuridici da una sorta di extraterritorialità, di porto franco per la popolazione indigena interna non urbanizzata, divenendo il centro di riunificazione per coloro che erano dediti alle attività rurali: contadini, pastori, liberti e forse schiavi etruschi spossessati delle loro terre mantengono in questo periodo di crisi una loro identità storica ed artistica che si esprime nei rilievi del frontone del tempio. 

Per questo è piuttosto normale che il “popolare” Mario, nell'87 a.C., trovasse in questi luoghi terreno fertile, nella guerra civile contro Silla: Telamone divenne una base strategica e reclutativa per la costituzione di un vero e proprio esercito. Per questo motivo Silla distrusse totalmente abitato e santuario. 

Scomparsa ogni manifestazione urbana di Talamone, il territorio circostante del tutto romanizzato e pacificato viene ‘infestato’ da una serie di nuclei più piccoli ma estremamente ricchi: si tratta di grandi ville rustiche spesso di enormi dimensioni dedite alla produzione agricola che iniziano ad essere presenti sin dal I sec. a.C. 

L’accrescimento economico dell’area legato alla bellezza dei luoghi portarono l’area intera a divenire parte integrante dei possedimenti imperiali che avevano come centro la villa in località Le Terme-Santa Francesca. 

Della città etrusca attualmente non è visibile più nulla e nulla è stato neanche possibile rintracciare a livello archeologico. In epoca imperiale venne mantenuto fermamente in vita il porto, che doveva essere anche quello etrusco, localizzato nella località La Puntata, che forniva una comoda base di esportazione dei prodotti della campagna. 

La caduta dell’Impero produsse su questi luoghi un abbandono e una disperazione che è difficile ritrovare in altre parti d’Italia in questo periodo, ciò fu dovuto probabilmente al graduale insabbiamento ed abbandono della via Aurelia alla quale vennero preferite, da ora in avanti le vie Cassia e Flaminia. 

Solamente nel VI secolo d.C., grazie alla presenza del fronte bizantino in prossimità venne rioccupato in chiave difensiva il Poggio del Talamonaccio; qui vi sorse la fortezza detta di Marta. I reperti rinvenuti nelle necropoli circostanti confermano tuttavia che l'abitato si sia spento definitivamente poco dopo il VII sec. d.C., forse in contemporanea con l’occupazione e la fondazione Longobarda di Grosseto. 

La conferma arriverebbe che proprio nel VII sec. d.C. si intravedono tracce di insediamenti longobardi, mentre bisognerà attendere la fine del X sec. d.C. perché si manifesti un ritorno a condizioni di vita accettabili quando viene edificata l'abbazia di S. Rabano, sui Monti dell'Uccellina, che contempla un sistema di fortificazioni di cinta, per difesa dalle incursioni dei pirati saraceni. 

Il nome del paese, porta ancora le tracce dell’antico nome datogli da Tirreni stessi: Telmun, Tlmun, Tlamun, Telamon. L’origine onomastica può aver avuto origine probabilmente da due motivi: il voler vedere nel nome greco Telamon da una parte il significato originario della parola che in lingua ellenica significa appunto ‘cintura’ e che da una visione dall’alto è riconoscibile nella curvatura dello stretto golfo (così come Zankle, odierna Messina, significava ‘falce’ per la forma del suo porto); mentre dall’altra parte la relazione che sarebbe intercorsa tra il luogo e l’eroe Teucro Telamonio, connesso con la leggenda degli Argonauti. 

Area archeologica di Talamonaccio 

L’unità d’Italia e l’appoggio fornito dalla base portuale toscana di Telamone, concessa per l’impresa garibaldina dei 1000, portarono alla sua possibilità di essere gratificato e sfruttato in senso militare. Sul Poggio di Talamonaccio a partire dal 1888 iniziarono gli scavi per la realizzazione di una fortezza militare. I primi scavi, del tutto incontrollati, cancellarono totalmente la necropoli etrusca sulle pendici, probabilmente parte dell’abitato, con la distruzione di due cinte murarie, case, strade che probabilmente erano attribuibili sia al periodo etrusco sia all’età altomedievale. 

Durante questi lavori venne chiesto urgentemente l’intervento degli organi statali che controllassero gli scavi, anche se ormai il grosso era andato perduto. Fortunatamente sotto la supervisione di un funzionario della “Real Publica Istruzione”, l'11 maggio 1892, durante il completamento per lo scavo dell’invaso delle fondamenta del forte militare, vennero rinvenuti elementi di fondazione relativi ad un grande tempio e ancora più sensazionale ad esso adiacente venne rinvenuta una cisterna da dentro la quale vennero estratti numerosi frammenti di una serie di rilievi in terracotta. 

Vennero così recuperate tante enormi “placche” ceramiche estremamente frammentarie che facevano parte di una unica raffigurazione che ben presto venne riconosciuta nella raffigurazione del frontone del tempio. Questo rappresenta il primo nucleo di frammenti frontonali e decorazioni architettoniche templari, poiché un secondo gruppo, sarà rinvenuto solo con una campagna di scavi archeologici regolari, possibili solo dopo la smilitarizzazione dell'area, negli anni '60. 

L’enorme “puzzle” restituiva un quantitativo di connessioni e di personaggi legati ad azioni ben specifiche che era impossibile non individuare la narrazione che si mostrava: le enormi ‘placche’ di per se molto frammentarie restituivano le figure di Edipo, Eteocle, Polinice, Adrasto e molti altri eroi, protagonisti della saga dei "Sette contro Tebe". 

Il tempio di cui facevano parte i frammenti frontonali si affacciava sul lato sud-est del colle, l’ingresso era rivolto a Sud e questo lo rendeva un punto di riferimento per le navi prossime all’attracco. 

Dalle fondazioni è stato possibile dedurre che si trattava di un tetrastylos sine postico, con quattro colonne sulla fronte ed il lato posteriore chiuso, rispettava con queste caratteristiche i canoni del tipo architettonico tipicamente etrusco-italico. Secondo una delle ipotesi principali, il tempio venne innalzato nella seconda metà del IV sec. a.C., in un luogo probabilmente già sacro in antico, ed era dedicato probabilmente a Tinia, lo Zeus greco. 

Tracce di distruzione totale in seguito ad un incendio riferibili a dopo il 100 a.C. con conseguente abbandono dell’area cultuale svelano la puntualità delle fonti che narrano di un’azione dimostrativa antimariana da parte degli uomini di Silla che distrussero la città (e quindi il tempio) come rappresaglia contro i talamonesi che avevano appoggiato e si erano uniti a Mario nell'87 a.C. 

Attualmente quello di Talamone è l'unico tempio etrusco-italico di epoca ellenistica rinvenuto completo di rivestimento, decorazioni architettoniche e di rilievo figurato. 

Da queste scoperte e da quest’analisi si è registrata una certa discrepanza tra i due elementi: la decorazione frontonale ed il tempio: il primo sembra non essere cronologicamente attinente o pertinente, ossia sembra essere stato collocato sul frontone in un periodo di molto posteriore, secondo alcuni intorno al 150 a.C., quando l’area era ormai da quasi due secoli sotto il saldo controllo dei romani. 

Queste differenze cronologiche relizzative hanno portato quindi a reinterpretare i dati di scavo secondo ipotesi più convincenti e a rivedere la datazione del bassorilievo epico in un’altra chiave, quella che riporta, secondo alcuni la realizzazione del frontone e secondo altri addirittura del tempio al 225 a.C., anno in cui si svolse, proprio alle pendici di questo colle, la battaglia tra Romani e Galli. 

Secondo alcuni, questo bassorilievo avrebbe commemorato la vittoria dei consoli romani sulle truppe galliche e al tempo stesso servire, come mostrato sul rilievo, da ammonimento agli abitanti di queste zone sempre causa di tensioni sociali innescate dall’occupazione romana, dalle confische e dalla colonizzazione che qui erano iniziata con la deduzione della colonia di Cosa già 150 anni prima. 

Questo tipo di tensioni sono state lette proprio nella rappresentazione della lotta fratricida fra Eteocle e Polinice che è la chiave del mito e del frontone, non a caso il mito compare in un territorio dove coabitavano etruschi e romani. 

La storiografia antica nomina due volte Talamon, la prima come teatro della battaglia tra Roma e i Galli del 225 a.C., da cui prende il nome e la seconda in qualità di porto dove sbarcò C. Mario nell’87 a.C. nella discesa verso Roma. 

La battaglia venne descritta dal senatore Fabio Pittore (che probabilmente fu presente di persona) che redasse la prima storia di Roma in lingua greca. Tuttavia la sua opera non ci è giunta in formato originale e quasi sempre la ritroviamo tramandata dagli annalisti ufficiali più tardi, Livio e Tacito. 

Il racconto fabiano venne però ripreso dal greco Polibio di Megalopoli, mentore ed amico di Cornelio Scipione l’Africano per riportarne gli eventi nella sua opera dedicata alla storia romana (Pol., II 21-31, 35). Questa fonte e l’altra, Diodoro Siculo, seppur in maniera più stringata, si rifanno ambedue al primo storiografo romano.

Anche se ripresa da testi ufficiali, la relazione polibiana ha creato notevoli problemi storici e topografici. I più gravi di questi sono dovuti all’identificazione di Clusium con la K(a)lousion delle fonti. 

Polibio ci racconta della calata dei Galli verso sud, i quali avrebbero intrapreso tale scelta poiché, quelli di questi che erano stanziati nella Pianura Padana, erano certi che il rafforzamento di Roma li avrebbe prima raggiunti e poi cacciati dai loro stanziamenti. La calata o invasione doveva fungere da deterrente per i Romani, un avvertimento che non aveva come obbiettivo né l’occupazione territoriale né la conquista di Roma stessa. 

I Galli della Cisalpina si unirono in una sorta di Lega che comprendeva: Boi, Insubri, Lingoni, Taurini, i Salassi, i Taurisci (non quelli del Norico) e gli Agoni. Ad essi, su loro chiamata si unirono i transalpini Gesati. 

Un timore piuttosto infondato, in base alle potenzialità capitoline, colpì la città quando si venne sapere che i celti transpadani si preparavano alla guerra. 

La cocente sconfitta del 387 a.C. era ancora ben presente nella memoria ed una discesa come quella di 150 anni prima terrorizzava notevolmente i romani in preda ancora alla “sindrome dell’Allia”. Dopotutto la sconfitta con il ritiro con deplorevole fuga dei contingenti romani, aveva provocato l’apertura della città al saccheggio e a Brenno al tributo e alle mortificazione del vae victis. Cinquant’anni prima, nel 278 a.C, aveva fatto grande eco l’attacco repentino al santuario di Delfi da parte dei Galati. 

Il terrore nell’Urbe era talmente radicato che gettò la città intera nel panico fino a che i romani non decisero che era giunto il momento che la profezia dei libri sibillini si avverasse in maniera forzosa. La profezia diceva che Galli e Greci un giorno avrebbero posseduto, dividendosela, la terra di Roma. 

Per questo motivo vennero prese due coppie, una gallica e l’altra greca, e vennero seppellite vive nel Foro Boario. In questo modo la predizione sarebbe stata avverata o per lo meno allontanata. Alcuni hanno voluto vedere in un sarcofago di Tarquinia (ora al museo di Villa Giulia) decorato con una scena di sacrificio simile proprio questo evento. 

Roma, al principio dell’anno aveva preparato la leva per le quattro legioni (48.000 uomini e 2.400 cavalli tra romani ed alleati) destinate ai due consoli Caius Atilius Regulus e Lucius Aemilius Papus, il primo dei quali venne inviato con 2 legioni in Sardegna a sedare le rivolte della neoprovincia. 

Nello stesso anno (225 a.C.) i capi gallici Concolitano e Aneroeste entravano in maniera quasi immediata in Etruria dalla Pianura Padana. L’esercito, poderoso, era composto da 50.000 fanti e 20.000 uomini a cavallo e carri. 

Le difese di Roma erano attestate lungo i paraggi che conducevano dalla Val Padana all’Italia peninsulare: il console L. Emilio Papo era attestato presso Ariminium (Rimini), dove era stato inviato per difendere la città, con 10.400 legionari e 600 cavalieri e 30.000 alleati divisi equamente tra fanti ed equiti, mentre un pretore, il cui nome è sconosciuto, presidiava un valico (probabilmente il più importante, quello che da Misia, Marzabotto, conduceva a Felsina-Bologna) al confine tra Gallia Cispadana ed Etruria. 

Altri 40.000 fedeli alleati, Umbri, Sarsinati, Veneti (soprattutto i Patavini) e i Galli Cenomani, nemici giurati dei confinanti Insubri, presidiavano altre zone di confine tra le due regioni in modo da tenere sotto scacco i Galli Boi. 

Gli invasori Galli forti di 50.000 uomini tra fanti e cavalieri, trovarono una porta d’accesso alternativa al passaggio di Rimini e al valico principale, in una qualche valle dell’Appennino Tosco-Emiliano sorprendendo così le difese romane. 

È quasi certo che la valle presa dopo il valico appenninico sia stata quella che conduce a Florentia (Firenze) visto l’accenno specifico a Faisola - Faesulae (Fiesole) di Polibio, entrando di fatto in Etruria. L’intera discesa dei Galli venne a concretizzarsi in un continuo saccheggio della Tirrenia e, non trovando alcuna forma di resistenza, decisero, una volta a Clusium (Chiusi), di spingersi fino a Roma. 

Una volta persa la possibilità del blocco della valle d’accesso appenninica, l’anonimo pretore, non potendo contrastare l’avanzata nordica in alcun modo decise di pedinare e tenere sotto controllo i nemici attendendo l’arrivo di Aemilius Papus attraverso il varco appenninico del “passo del Furlo”, Gubbio e Perusia fino all’arrivo di rinforzi iniziando una leva territoriale tra gli Etruschi ed i Sabini e prendendo contatto col nemico prima di Chiusi. 

Da questo momento iniziano a sorgere i problemi topografici. Polibio dice chiaramente che una volta attestatisi a Clusium, i Galli erano a 3 giorni di marcia da Roma, mentre noi sappiamo che i giorni di marcia da quella città sono almeno 5. Alcuni hanno ipotizzato che l’autore avesse voluto sottolineare l’incombente pericolo che si affacciava. 

L’importanza di Chiusi all’interno della topografia strategica è notevole. Potremmo definire la città una delle chiavi d’Italia, uno dei punti o dei passaggi chiave dai quali non è possibile prescindere se si vuole passare a Nord o scendere a Sud. Il suo stretto accesso alla Val di Chiana, di cui se ne rispecchia l’onomastica e forse l’etimologia, rappresenta un passaggio strategico obbligato per una questione soprattutto militare. Aggirare Clusium significava perdere del tempo prezioso. 

Quello che temevano i galli era la possibilità di avere la retroguardia sguarnita nel caso d‘attacco, quindi dopo una breve sosta, inviarono una buona parte del contingente ad annientare il distaccamento romano che proveniva da Fiesole. 

Ripresero quindi la marcia verso Fiesole e a 30 km da Chiusi, verso nord, il distaccamento romano venne in parte annientato ed in parte messo in fuga. E questa è conosciuta come la “Battaglia di Chiusi o di Montepulciano”. 

Dopotutto Clusium sarà fondamentale anche nella Guerra Annibalica meno di 8 anni più tardi quando il posto verrà scelto per le sue caratteristiche come campo di battaglia dalle truppe romane e cartaginesi (Trasimeno). 

Questo diversivo fu strategicamente molto utile a favore dei romani. I Galli erano riusciti nel loro intento: ottenere un ricchissimo bottino. A questo punto si potevano ritenere soddisfatti e potevano pensare al loro rientro nella Cisalpina. 

Ma questo ormai non era più possibile, non almeno dalla strada più veloce, dalla quale erano giunti. Infatti L. Emilio Papo, forte del contingente degli sconfitti e dei socii era arrivato da Ariminium alla testa dei suoi cavalieri nel luogo dove l’esercito pretoriano si era rifugiato dopo la sconfitta.

La via del rientro per i Celti era ormai preclusa. Venne stabilito di non rischiare l’altissimo bottino depredato e di iniziare una veloce ritirata verso nord per altre vie. Cercando d’ingannare l’esercito di Papo si allontanarono velocemente, aiutati dalle tenebre “lungo il mare attraverso il territorio dei Terreni”. Giunti presso l’Orcia (ove oggi è S. Quirico) aggirano il monte Amiata da est a sud, giungono ad Acquapendente e scendono al mare lungo l’Albegna verso Orbetello. 

Il console romano, nonostante i rinforzi, una posizione vantaggiosa non si sentiva comunque certo dello scontro e decise di temporeggiare, seguendoli, attendendo le loro mosse fino al momento propizio. 

Tutto coincide nel racconto poliziano se si esclude la nota sui giorni di marcia che separano Chiusi a Roma e sul fatto che, seppur messi alle strette i Galli abbiano scelto di tagliare da Est verso Ovest l’Etruria per giungere sul mare e quindi risalire verso N. Ciò è piuttosto strano poiché il passaggio da Clusium a Talamun è piuttosto complesso almeno fino alle sorgenti del fiume Albegna. 

La decisione a detta di molti, estremamente sensata, certamente dava uno sbocco ed una possibilità d’uscita da una situazione piuttosto grave ma allo stesso tempo impegnava pesantemente i contingenti d’oltralpe i quali oltre a dover procedere a ranghi forzati, avevano sulle loro spalle il peso del bottino e la paura di essere braccati. 

Certamente avevano considerato la possibilità più sbrigativa e veloce che non gli avrebbe creato problemi di alcun tipo e probabilmente erano anche certi, visto il timore di L. Emilio Papo, di poter vincere senza problemi, vista l’assenza di equiti effettivi tra le file romane. 

Se avessero continuato il loro rientro verso nord alla fine sarebbero riusciti a rientrare nei loro territori senza perdite, se avessero ingaggiato, o se fossero stati costretti alla battaglia, avrebbero vinto e avrebbero ottenuto un ulteriore bottino. Tutto era a loro favore. Tranne la perfetta politica romana. 

Già da alcuni mesi dall’Urbe era partito l’ordine destinato al secondo console, C. Attilio Regolo proveniente dalla Sardegna, con il suo esercito di raggiungere il porto di Pisa, ciò avrebbe, in un modo o in un altro favorito il ricongiungimento degli eserciti consolari. Da Pisa a Telamon ci sono 5 gg di marcia e 180 km: il console Regolo aveva ricevuto ordine di ricongiungersi con il collega. Tra i due generali vi era però l’esercito gallico diretto a nord. Papo aveva tentato già di sbarrare la strada ai fuggiaschi senza nessun risultato. 

La grande congiunzione, evidentemente sfavorevole ai Galli, avvenne presso Talamun quando i due eserciti consolari chiusero a tenaglia quello nordico. 

Polibio non da purtroppo peculiarità topografiche di sorta in modo da poter individuare il luogo esatto della battaglia. Non viene menzionato nessun fiume (Osa, Albegna) o monte (Argentario, Uccellina) o porto. 

È piuttosto strano che sia stato ricordato il nome di Telamone e non quello della città, a noi sconosciuto, nella piana al di sotto del colle di Talamonaccio tra Osa e Albegna, la c.d. Doganella, e che in antico doveva essere assai più importante o vasta. 

P. Sommella ha confermato che il colle attorno al quale si combatté aspramente e che ebbe un ruolo fondamentale si può identificare con Poggio Ospedaletto e con la propaggine avanzata di Civitella. Gli schieramenti si affrontarono perpendicolarmente alla via Aurelia, tra il colle di Talamonaccio e il poggio Aquilone, nella zona pianeggiante detta Campo Regio, a nord-ovest di Poggio Ospedaletto. 

Gli eserciti di Regolo e di Concolitano e Aneroeste si trovarono faccia a faccia senza preavviso. I Celti se ne resero conto solo quando le due avanguardie si scontrarono, quelle del primo con lo scopo di avvistare i nemici, mentre i secondi colti di sorpresa, s’incrociarono solo perché dovevano saccheggiare le località che avrebbe poi incontrato il resto dell’esercito. 

Attilio conosceva bene, al contrario dei suoi nemici, la situazione, sapeva che alle spalle dei Galli vi era il collega e decise di schierare le truppe in formazione di battaglia e farli avanzare lentamente in linea retta, dove era possibile, mentre lo stesso generale occupava, alla testa dei suoi cavalieri, il rilievo, riconosciuto come quello di Poggio Ospedaletto, strategicamente fondamentale. 

I Galli si convinsero in un primo momento che il console Papo li avesse raggirati di nascosto di notte. Cadendo in un duplice errore di valutazione. Da una parte erano convinti che avrebbero sbaragliato facilmente il console da solo e secondariamente non considerarono la possibilità che potessero avere qualcuno alle spalle. 

I Celti inviarono immediatamente una avanguardia per scacciare il presidio degli equiti dal colle dell’Ospedaletto che chiaramente non sortì alcun effetto se non quello di ottenere le informazioni che rendevano i generali Galli edotti su quello che era accaduto.

Concolitano e Aneroeste schierarono allora immediatamente l’esercito a “fronte doppio”, ossia con due schieramenti che si davano le spalle ed ordinati secondo le varie stirpi.

Verso sud e verso le truppe del console Papo, si schierarono i Gaesatii che provenivano dalle Alpi e dall’area del Rodano, dietro di loro in seconda linea e sempre verso sud gli Insubres Mediolanenses; contro Attilio Regolo e le truppe a nord vennero schierati i Taurisci della Carinzia e della Carnia Superiore ed i Boi di Bonomia (Bologna). Quindi lateralmente i carri da guerra con i cavalieri, mentre sotto scorta ferrea portavano al sicuro su un colle adiacente il bottino. 

Davanti alle linee schierate, intanto si mostrava lo spettacolo delle cavallerie che aprivano lo scontro. L’obbiettivo era la conquista del colle dell’Ospedaletto sul quale si trovava il console A. Regolo che combatté senza risparmiarsi: il suo esempio di combattere davanti alle linee di equites venne ripagato con una morte eroica che conduceva i suoi soldati a seguirne un esempio di combattività e ferocia tanto da tenere la postazione in maniera eroica. 

Una volta condotta la testa del console come trofeo ai comandanti celti, iniziò, ormai convinti di una supremazia totale, l’avanzata delle prime linee gesate, le quali, non curanti del pericolo, combattevano nudi solo con le armi i torques ed i bracciali, al suono dei corni, delle trombe e al canto del peana, si scagliarono contro la fanteria romana che ben sapeva come trattare certe popolazioni. 

A questo punto accorsero i velites che iniziarono a saettare i grandi corpi celti, facili bersagli per mole ed inesistenza d’armamento che furono decimati nello sconcerto generale. Ormai disperati tra il dubbio della fuga e quello di un attacco di massa, continuavano ad essere violentemente decimati. 

È chiaro che una volta decimati il ruolo della cavalleria è quello del colpo di grazia che venne assestato con una carica definitiva. Una parte di essi, 40.000 perirono, mentre 10.000 furono fatti prigionieri. 

Concolitano cadde in mano dei vincitori mentre Aneroeste fuggì con un gruppo di uomini, decidendo poi, infine di applicare un suicidio di massa. Per questo si riporta alla mente la famosa rappresentazione scultorea dei Galli dell’altare di pergamo, il gallo del Museo delle Terme che uccide la moglie e quindi si suicida. 

Il bottino venne restituito alle città a cui era stato sottratto e l’unico console rimasto, L. Emilio Papo, inviò a Roma le spoglie degli sconfitti, quindi prosegui ì la sua marcia verso nord, attraversò la Liguria e si diresse nel territorio dei Boi ormai sguarnito di truppe che venne saccheggiato, conquistando in poco tempo mote città fortificate e villaggi ottenendo un ricchissimo bottino senza che alcun Gallo possa averlo impedito (Diod. XXV, 13). 

Dopo essere tornato a Roma, dopo alcuni giorni, abbellì il Campidoglio con le insegne e i torques dei Galli e quindi celebrò il trionfo. Alcuni prigionieri furono, per alcuni umiliati, per altri onorati, facendoli vestire con le armi e facendogliele deporre solo sul campidoglio (Zon. VIII, 20). 

Tutta l’Italia era stata terrorizzata da questa discesa che invece servì da molla per l’invasione della Padania. 

I fasti trionfali capitolini citano lapidarimente la vittoria del console secondo la cronologia ufficiale varroniana:

L. AEMILIUS Q.F. CN.N. PAPUS CO (N)

S(VL) AN. DXXIIX DE GALLEIS

III NONAS MART.



 

 

 

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