N. 31 - Dicembre 2007
SERVIO TULLIO
Macstarna - Parte I
di
Antonio Montesanti
Durante il lungo corso della storia ci sono, come
nella vita, dei percorsi particolarmente battuti,
altri tralasciati, altri ancora utilizzati e poi
abbandonati, altri che godono di fama eterna altri
ancora portati sugli scudi e poi fatti cadere, altri
ancora che si trovano sugli allori senza capirne il
perché, il significato intrinseco, come in questo
caso, un personaggio…
La
figura del sesto re di Roma è in realtà una delle
personalità più complesse e al tempo stesso più
affascinanti che la storia ci abbia restituito: fino a
148 anni fa sarebbe stato un personaggio famoso ma non
pregnante all’interno della saga dei 7 re. Oggi siamo
abituati a passarli in rassegna tutti e sette senza
fermarci sulla figura di uno o dell’altro, in molti li
ricordano e si compiacciono nel ripeterli a memoria,
altri abusano del nome di Romolo. Ma è necessario
sottolineare che il sesto re non fu sicuramente uno
come gli altri e che per fama dovrebbe, in ragione
della sua storicità e quindi della sua esistenza reale
ed effettiva, porsi subito dopo Romolo, che comunque
rimane ancora leggendario.
Servio Tullio lo conosciamo bene e come gli altri
conosciamo la sua storia attraverso le fonti romane, o
per lo meno pensavamo di conoscerlo fino al 1857.
Perché questo personaggio è andato così alla ribalta
negli ultimi anni? Semplice, perché ‘Lui’ ha aperto
una serie di collegamenti che definire bidimenzionali
è realmente riduttivo. Significa che legati alla sua
figura ci sono un quantitativo di indizi, di prove, di
conoscenze che prima dei rinvenimenti, epigrafici,
archeologici, filologici e dei collegamenti storici,
relegavano il re solamente al ‘sesto’ posto nella
lista dei reggenti leggendari. Ma la bellezza della
conoscenza, della scoperta che si può racchiudere in
tutte le discipline sopra elencate sta nel fatto che
la sua figura le raccoglie tutte insieme e fa si che
ognuna sia strettamente legata all’altra fino a farle
fondere in una unica che è la ricerca e quindi la
scoperta del passato o dell’antico.
Se
ognuna di queste discipline fosse stata considerata,
come si tende a fare oggi, come un elemento a se
stante, molti collegamenti e riferimenti sulla sua
figura probabilmente sarebbero rimasti scollegati,
vuoti, bui e senza senso apparente…
La
storia non è statica ma in continuo divenire o ancora
dobbiamo far si che quel divenire diventi nostro…
Come
in tutte le narrazioni storiche, nell’individuazione
di un punto, o come nel caso di questo personaggio, è
necessario partire dal passo precedente, per poter
capire la figura o il periodo successivo, almeno nelle
linee fondamentali.
Il
quinto re, Tarquinius Priscus (616 a.C. - 579 a.C.) al
contrario dei suoi predecessori, aveva origini
etrusche e chiaramente il nome non fu altro che una
trasposizione romana, un nomignolo, un soprannome, un
nickname come diremmo oggi, attribuito dai
Romani ad un etrusco proveniente dall’omonima città
tirrenica. Già le fonti dicono che il suo nome era
Lucumo (Lucumone), ma noi sappiamo che i lucumoni
erano una carica governativa etrusca: probabilmente il
magistrato reggente di una città al cui nome non è
possibile associare nessun termine moderno per
mancanza di ulteriori dati su questa “carica”.
Le
fonti ci dicono inoltre che in realtà lui era di
origine greca, poiché il padre Demaratos era di
Corinto e si era trasferito a Tarquinia (Liv., I 34),
o forse nel suo scalo propriamente greco, in cui i
tarquiniesi avevano creato un vero e proprio “ghetto”
greco e che allo stesso tempo era anche il porto
cittadino di Gravisca. Demarato era probabilmente un
rappresentante dell’aristocrazia artigianale o
commerciale che fu costretto alla fuga o esilio
volontario nel 657 a.C. in seguito alla presa di
Corinto da parte del tiranno Cipselo, che aveva
rovesciato l'aristocrazia bacchiade.
Il
fatto di essere un meteco, non gli consentì di poter
aspirare ad altre cariche magistratuali o politiche o
forse fu bandito a causa della sua ricchezza smodata o
solo per il fatto di non poter partecipare alla vita
politica della città, lo portò a Roma, dove desideroso
di partecipare alla vita politica, si fece eleggere re
dopo Anco Marzio.
Ci
sono almeno due o tre particolari che, oltre a quelli
narrati, ci devono rimanere in testa per poter capire
il successore di Tarquinio Prisco. Il primo tuscus
rex giunse a Roma accompagnato dalla moglie
Tanaquilla, che era etrusca e che conosceva bene
l’arte d’interpretare i presagi, secondo l’antica
disciplina etrusca degli àuguri. I due giunti a Roma
arrivarono sul Gianicolo, qui un’aquila ghermì il
pileo a Tarquinio e poi, dopo aver volteggiato su di
lui glielo ripose in testa. Tanaquilla, in etrusco,
Tanachvil, interpretò il messaggio come la
predizione del fatto che sarebbe divenuto re di Roma.
Il
popolo dopo la morte di Anco scelse Tarquinio come
predetto dalla moglie e a giustificare le questioni di
successione ci pensarono i Sabini che intervennero
immediatamente attaccando il nuovo re piuttosto che la
città. Grazie alle sue ricchezze e quindi a
concessioni o ad acquisto di truppe fu facile salvarsi
e non solo. Avendo una sorta di appoggio da parte
degli etruschi di Veio assoggettò a Roma le città di
Corniculum, Firulea Vetus,
Cameria, Crustumerium, Ameriola,
Medullia e Nomentum (Liv., I 38).
Come
riportato nelle fonti, dopo la presa di Corniculum
(prob. Monte dell'Incastro, Roma) venne catturata da
Tarquinio Prisco una nobildonna locale. Acrisia,
portata a Roma come bottino di guerra e divenne quindi
serva di corte. Il suo fascino l’aveva fatta entrare
presto nelle grazie della famiglia reale che gli
assegnò l’incarico di mantenere acceso il fuoco sacro.
La figura della fanciulla latina è avvolta interamente
nella leggenda: il suo nome Ocrisia sembra derivi da
un'antica radice italica ocri che significa
monte; proprio dal fuoco sacro sembra sia uscito un
“fallo” alato, identificato come un dio che l’aveva
messa incinta, fatto non sconosciuto alla mitologia ed
utilizzato quando si volevano esaltare persone prive
di albero genealogico, e che da quel fatto abbia
generato Servio Tullio.
Si
racconta che durante la sua infanzia il piccolo Servio
avesse confermato le sue origini divine; una volta
mentre dormiva, dal suo capo si svilupparono delle
fiamme e tutto ciò era stato interpretato da
Tanaquilla come un segno inequivocabile del suo
prossimo destino. Questi venne educato a Roma nel
palazzo reale. Sposò Tarquinia figlia del re Prisco
che rimase sul trono per 38 anni, fino al 579 a.C.
quando fu ucciso da persone legate all'ambiente
successori di Anco Marzio.
Fu
la moglie, Tanachvil, che avendo adottato il
giovane Servio Tullio fece si che fosse eletto. Il
giovane Servio venne portato al cospetto di Tarquinio
morente il quale con delle parole che racchiudono la
grandezza degli eventi e dell’uomo, lo nomina suo
successore:
“Servi,
si vir es, regnum, non eorum qui alienis manibus
pessimum facinus facere. Erige te deosque duces
sequere qui clarum hoc fore caput divino quondam
circonfuso igni portenderunt. Nunc te illa caelestis
excitet flamma; nunc expergiscere vere.
Et nos
peregrini regnavimus; qui sis, non unde natus sis
reputa”.
“Servio il regno non è di coloro i quali hanno
commesso questo scellerato delitto attraverso mano
altrui. Se sei un uomo,poniti al di sopra, e fatti
guidare dagli dei, che un giorno manifestarono la loro
preferenza coronandoti il capo della sacra corona
fiammeggiante, presagendo il tuo futuro glorioso… Ti
desti allora quella fiamma celeste; ora innalzati! Noi
che da stranieri regnammo; ricorda sempre chi sei e
non da dove provieni!” (Liv. I 41,3)
Con
l’omicidio di Tarquinio Prisco, i patrizi romani
avevano pensato di riprendere in mano il potere
perduto, ma non avevano fatto i conti con la
scaltrezza della moglie, la quale, per favorire la
successione al trono del genero, nascose al popolo
romano la morte del marito fingendo una convalescenza
lunghissima, dichiarando al popolo che Servio era il
momentaneo reggente, nominato dal predecessore.
Trascorso un periodo in cui la gente si era abituata
alla figura del genero, Tanaquilla annunciò al popolo
la morte improvvisa di Tarquinio, affermando che lo
stesso aveva designato come suo successore Servio
Tullio che fu il primo, ma anche l’unico, Re di Roma
eletto per diritto di successione e non secondo
volontà popolare. Secondo alcuni studiosi, alquanto
critici, Servio Tullio fu indotto a ricercare il
consenso “civile” con delle riforme che favorivano il
popolo, che questa volta non lo aveva eletto, alcune
di queste decisioni socio economiche in bilico tra
democrazia e demagogia, furono attuate
immediatamente: l’eliminazione della schiavitù per
debiti, ridistribuzione agraria in ambito bellico ai
ceti più poveri, censimento dei civites romanii.
Quindi intraprense una serie di iniziative
architettoniche: la costituzione serviana e la riforma
dell’esercito, la costruzione dei templi di Diana
sull'Aventino, di Mater Matuta, della dea
Fortuna e di Fors Fortuna e l’innalzamento
delle mura: le c.d. “serviane”.
Servio si considerava un uomo baciato dalla Dea
Fortuna, poiché da essa generato, tanto da dedicarle
molti templi, come forma di ringraziamento.
Constitutio Serviana
La
riforma serviana fu immediata, il re trasformò in
maniera pesante ogni settorializzazione civica,
stravolgendo di fatto il sistema decisionale: ciò ebbe
la duplice funzione di investire la parte
politico-sociale ed in parallelo quella militare.
Il
primo atto politico del nuovo Re, fu quello di
concedere la cittadinanza ai “liberti” gli schiavi
resi liberi, guadagnandosi così le simpatie della
plebe tanto da essere definito come “Re della plebe”.
Una
volta stabilita la suddivisione territoriale delle
tribus, fondata sulla residenza, il Re proseguì
secondo un piano chiarissimo e probabilmente già
collaudato, forse di origine etrusca, con il
censimento catastale volto alla valutazione dei beni
in possesso di ogni singolo capofamiglia. In base alla
ricchezza posseduta e quindi prodotta, ogni cittadino
venne inserito all’interno di una classe.
Le
classi furono 5 ed ognuna di esse era suddivisa in
centurie, il cui numero variava da classe a classe,
che in realtà erano parti con diritto di dare un voto.
Il nome di centuria si ricollega all’altra faccia
della riforma: ogni centuria forniva all'esercito
cento uomini.
La
prima classe (con redito superiore a 100.000 assi) era
composta da 80 centurie; a questa furono aggiunte 2
centurie di fabbri e 18 centurie di cavalieri, per un
totale di 100 centurie.
La
seconda classe (con reddito compreso tra 100.000 e
75.000 assi) era composta da 20 centurie.
La
terza classe (con reddito compreso tra 75.000 e 50.000
assi) era formata, anch’essa da 20 centurie
La
quarta (con reddito compreso tra 50.000 e 25.000 assi)
si componeva di 20 centurie.
La
quinta (con reddito compreso tra 25.000 e 11.000 assi)
era invece formata da 30 centurie; a quest’ultima
vennero aggregate 2 centurie di suonatori corno e di
tromba.
I
cittadini meno abbienti o comunque con un reddito
inferiore, i c.d. capite censi, furono aggregati in 1
centuria unica. In totale si avevano 193 centurie, con
maggioranza assoluta della prima classe. Chiaramente
anche il sistema di tassazione fu proporzionale al
censo e quindi al reddito.
Fino
ad allora la struttura politica e sociale vedeva la
suddivisione di Roma in trenta Curie ossia in trenta
sezioni cittadine che si contraddistinguevano in
altrettante zone abitative. Quello che Servio aveva
capito e che aveva sicuramente percepito o che gli era
stato indotto dal suo predecessore è che Roma attirava
in continuazione nuovi cittadini e che continuavano a
rinfoltire le schiere urbane che in quanto metoikoi
(per dirla alla greca) non potevano prender parte alla
vita politica, almeno dal punto decisionale. L’unica
possibilità era quella di affidarsi alla “protezione”
delle famiglie primordiali già considerate patrizie.
La
popolazione urbana di Roma fu divisa in base alla
provenienza territoriale o se vogliamo in base alla
residenza, tralasciando così ogni tipo di pregiudizio
dovuto a criteri di provenienza o timotici. In tal
modo molti immigrati, mercanti, agricoltori etruschi o
di altra provenienza poterono divenire cittadini
romani, fedeli a Roma prima che alla famiglia o al
gruppo etnico.
Roma
intra muros venne spaccata in quattro grandi
zone e nelle quali risiedevano 4 tribù urbane da cui
prendevano il nome: la Suburana, la Palatina,
l’Esquilina e la Collina, invece delle
tre originarie: Tities, Ramnes e
Luceres.
Anche il suburbio, ossia la periferia cittadina, al di
fuori del pomerium fu suddivisa in tribù che da
16 furono portate a 31, raggiungendo il numero di 35:
4 cittadine e 31 extra-urbane o rustiche e non avevano
connessione con la suddivisione in classi
Riforma militare
La
grandezza del Re fu quella di congiungere in unico
vortice alla riforma sociale e quindi
politico-decisionale quella militare. Ai diritti
politici che si acquisivano tramite la produttività e
la ricchezza, e quindi con la creazione i un
obbiettivo e di uno scopo societario, quello di
contare all’interno dell’entità politica, il monarca
affiancò gli obblighi “naturali” di difesa dell’urbe e
del suo territorio, fornendo di fatto un esercito
organizzato.
Ogni
centuria forniva cento uomini, cioè cento soldati e, a
seconda del censo, forniva il tipo di milite, a piedi
o a cavallo e con il tipo di equipaggiamento
proporzionato al reddito.
Roma
passava quindi da un armata di professionisti formata
da 3.300 elementi a 19.800 cittadini guerrieri, poiché
i cittadini stessi erano l’esercito che essi stessi
fornivano.
La
prima classe era l’unica a fornire 1.800 soldati a
cavallo, in base ad un gruppo ristretto di 18 centurie
a cui si univano le altre 80 che invece fornivano
fanti ben armati di elmo, clipeo (scudo tondo), lorica
(corazza), schinieri, lancia, giavellotto e spada,
molto simili agli opliti greci.
Le
altre classi fornivano solo fanti ma differivano nelle
funzioni e chiaramente nell’armamento. La seconda
aveva lo stesso armamento della prima classe di fanti,
con l’accezione della corazza e con la presenza di uno
scudo più piccolo ed allungato. La terza classe, con
lo stesso armamento della seconda era priva di
schinieri. La quarta aveva solo lancia e giavellotto.
La quinta era armata di fionde e pietre.
Le
centurie a loro volta erano suddivise in due grandi
gruppi: il 50% di ognuna era composta dai seniores
“over 46” che costituivano la riserva e avevano
il compito di difendere l’Urbe; le seconde linee gli
juniores, erano i combattenti effettivi o di
prima linea.
Le
centurie si riunivano di fatto in assemblee, che
avevano il nome di Comizi Centuriati col compito
prendere decisioni e ad ognuna corrispondeva un
rappresentante. In quanto entità militare i Comitia
potevano riunirsi solo al di fuori del confine sacro
della città (pomerium). I Comizi Centuriati,
ovviamente, in quanto organi decisionali, non ebbero
solo funzioni o decisionalità a livello militare,
sostituendo di fatto le curie romulee, bensì avevano
soprattutto un ruolo politico. Il potere decisionale
era espresso da voti, come detto uno per centuria; la
grandezza serviana fu proprio quella che vedeva, pur
favorendo nella sua riforma le classi economicamente
più deboli, la maggioranza dei voti andava ai
cittadini più ricchi (100 contro 93). In questo modo
il re non toglieva il potere né ai nobili patrizi né
ai cittadini più influenti, ma lo trasformava,
mettendosi così al riparo da eventuali rivolte.
Alle
antiche assemblee cittadine delle tribù, comizi
curiati ed i comizi tributi, ampliate dalla stessa
riforma serviana, non furono soppresse ma relegate a
questioni secondarie.
Con
la caduta della monarchia i comizi centuriati
divennero la prima entità politica di rilievo dopo il
senato e che nell’acrostico S.P.Q.R. occuperà
genericamente la P di POPVLVS.
Urbanistica
Servio in quanto portatore di tale nome, era
probabilmente devoto ad Artemide/Diana che proteggeva
gli schiavi, gli apolidi, i rifugiati e gli abitanti
provenienti da un altro paese.
Conoscitore e cosciente delle sue origini e della
tradizione sul suo concepimento fu un devoto della
Fors Fortuna mentre secondo alcune ipotesi era
stato già sacerdote di Diana.
Il
tempio più famoso nell’antichità dedicato al culto
della dea sorella di Apollo si trovava ad Efeso ed era
il centro, nonché luogo di riunione delle città
appartenenti alla dodecapoli ionica d’Asia Minore (Liv.
I 45).
Nel
540 a.C. ca. gli etruschi avevano vinto una delle loro
ultime battaglie marine presso Alalia (Corsica) quando
gli Ioni di Asia Minore ed in particolare i Focesi,
emigrarono in massa verso l’occidente sfuggendo
l’invasione persiana. Questi, diretti nel Tirreno
incontrarono gli Etruschi che non ammettevano
intromissioni nelle rotte commerciali. Gli Etruschi
vinsero, dunque in questa battaglia i nemici, ma la
vittoria fu solo teorica, poiché portò i Focei a
insediasi Elea (Velia) e a potenziare Massalia
(Marsiglia). Qui i Greci portarono il culto del tempio
che ormai era in mano persiana. Costruirono o
ingrandirono il tempio di Diana/Selene e al centro vi
posero come ad Efeso la statua della divinità.
Probabilmente, con un’abile mossa di politica estera,
Servio si appoggiò a questa nuova corrente imitando in
pratica le mosse dei Greci d’Asia, innalzando
sull’Aventino, colle al di fuori della città, un
tempio in onore della divinità, togliendo il primato
al centro del culto della Lega Latina, quello di
Diana Nemorensis che si svolgeva ad Ariccia. Il
sacello, costruito intorno a quegli anni, racchiudeva
un quantitativo di motivazioni e di funzioni che se
analizzate trovano una serie di coincidenze:
primariamente doveva riunire tre entità distinte, la
Latina, la Romana e l’Etrusca. A quest’ultima si
rifaceva anche il sistema dodecapolico delle città
greche d’Asia col suo santuario, una delle sette
meraviglie del mondo antico, e che forse andava a
riprendere la stessa leggenda riportata da Erodoto, lo
stesso che ci parla della battaglia di Alalia, della
provenienza asiatica dei Tirreni.
Con
una posizione esterna al pomerio, avrebbero potuto
parteciparvi anche i non-romani, immigrati, rifugiati
politici, meteci, non cittadini, schiavi, dando in
questo modo un rifugio a tutti coloro che si trovavano
in una situazione disagiata e che non erano cittadini,
confermando di fatto le sue riforme.
Sempre al di fuori delle mura o nei pressi del
mercato, e quindi sempre in luoghi accessibili a
tutti, il Re dispose di erigere i templi gemelli di
Mater Matuta, divinità italica con tempio
principale a Satricum (Conca) e della dea
Fortuna, tipicamente Latina e identificata come una
donna velata al pari del Fato etrusco, nel Foro
Boario.
Il
suo obbiettivo fu quello, peraltro sembra riuscito, di
creare una grande lega romano-etrusco-latina, mettendo
al pari e sullo stesso piano cittadini e stranieri,
quasi, portando dietro le radici del padrino, a
sottolineare una condizione di uguaglianza dei popoli.
Fece
inoltre
costruire il tempio di Fors Fortuna sulla
sponda opposta, quella trasteverina, fuori della cinta
cittadina e alle cui celebrazioni potevano partecipare
anche gli schiavi.
Da
un punto di vista architettonico, militare, storico,
evolutivo, significativo e che lo lega alla realtà dei
giorni nostri, il re Tullio concepì genialmente, anche
in questo campo, la sua opera più importante: le mura
difensive della città, che rimarranno le sole fino al
275 d.C. per più di 700 anni. La fortificazione,
immensa per il periodo, riprendeva un progetto
iniziato dal suo predecessore e racchiudeva
all’interno i quattro colli originari più i tre
aggiunti alla città proprio dal re portandone
definitivamente al numero sacro di sette, avendovi
ammesso il Quirinale, l’Esquilino ed il Viminale,
estendendo di fatto il pomerium romuleo.
La
concezione di una tale opera era probabilmente
giustificata da due motivi tra loro congiunti: da una
parte l’esperienza difensiva etrusca che il Re portava
con se dal padre adottivo e dall’altra la paura
proprio di un’eventuale coalizione etrusca che avrebbe
previsto un assalto della città da parte tirrenica.
Anche se quelle che attualmente si vedono, portano il
suo nome, “Mura Serviane”, sembra che comunque non
possano essere attribuite a lui poiché costruite in
blocchi di tufo di Grottascura presso Fidene, cava
inutilizzabile ai Romani fino alla presa della stessa
(404 o 398 a.C. riv.). Anche se ultimamente si sono
rivalutate le ipotesi e la loro costruzione poiché le
fondazioni, o comunque la parte più bassa delle mura è
costituita da blocchi di cappellaccio o tufo del
Palatino che ricondurrebbero al re Tullio.
Mentre da una parte aveva continuato a favorire le
famiglie più antiche e più ricche con il potere
oligarchico decisionale della suddivisione in classi,
dall’altra il sesto re con la conduzione di campagne
ventennali e vittoriose contro Veio, Tarquinia e Cere,
strappava parte delle terre coltivabili ai nemici e le
assegnava alle classi più basse, accontentandole.
Purtroppo le riforme serviane avevano messo al sicuro
il Re da eventuali malcontenti e rivolte popolari, ma
non da questioni famigliari irrisolte e sopite. Dopo
trentaquattro anni di regno, fu vittima di un
complotto ordito da sua figlia Tullia Minore e dal
figlio legittimo di Tarquinio Prisco, Lucio Tarquinio,
marito della figlia Tullia Maggiore. I matrimoni misti
tra le figlie si Servio e figli di Tarquinio Prisco
non lo salvarono dal dramma dinastico che attanaglierà
la storia di Roma fino al tardo impero: Tullia Minore
aveva sposato Aranth (Arunte), mentre Lucio
Tarquinio aveva sposato Tullia Maggiore.
Tarquinio e Tullia Minore dopo essersi sbarazzati dei
rispettivi coniugi non si fermarono nella loro scalata
al potere neanche di fronte al padre, suocero e Re.
Lucio Tarquinio si assicurò l’appoggio del patriziato
promettendo favori e privilegi. Quindi dopo aver
ingannato Servio lo accoltellò e subito dopo si
presentò nel Foro dove si fece acclamare Re con la
complicità di Tullia.
A
perenne ricordo della macabra ed ignominiosa
uccisione, una strada di Roma ai tempi di Livio
portava ancora il nome di “vicus scelleratus”.
Era il 535 a.C.
“Servio Tullio regnò quarantaquattro anni… ed anche ad
un ottimo successore sarebbe risultato difficile
emularlo… sembra che avesse in animo di rinunciare ad
un potere per quanto equo e mite solo per il fatto che
fosse in mano ad una persona sola tanto che aveva in
mente di deporre il suo potere e rimetterlo nelle mani
del popolo, se non fosse subentrata la scelleratezza
dei suoi” (Liv. I 48 8-9).
Questo è quello che sappiamo della vita di Re Servio
Tullio dalle fonti ufficiali, quello che ha da venire
è la storia ricostruita, il suo aspetto più
affascinante… |