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> Storia Antica

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N. 31 - Dicembre 2007

SERVIO TULLIO

Macstarna - Parte II

di Antonio Montesanti

 

Se ci fossimo basati solamente sulle informazioni letterarie delle fonti romane ed in particolare su quella fonte che riteniamo la più attendibile in assoluto, ossia Livio, avremmo avuto esclusivamente un tipo d’informazioni. Limitate. Questa sarebbe stata tutta la storia su Servio Tullio.

 

Doveva giungere però il XVI secolo perché il corso della storia fosse stravolto. Non era però il corso della storia ad essere cambiato. Più semplicemente accadeva che in uno dei quartieri centrali della città di Lyone in Francia, venisse rinvenuto un frammento della tavola bronzea sulla quale era inciso il testo di un discorso pronunciato dall’imperatore Claudio e, come usanza imperiale, era stato reso pubblico in quella città, poiché la riguardava.

 

Nel 1528 nel quartiere Croix-Rousse, vennero rinvenuti due frammenti della Tabula Claudiana che era situata dentro al santuario delle Tre Gallie dove era esposta sulla faccia a vista di un piedistallo che sorreggeva la statua equestre dell’imperatore Claudio. La tabula, sulla quale è incisa una delle più belle iscrizioni romane, era composta di quattro quadranti di cui mancano le parti superiori andate perdute.

 

Il testo, su due colonne, con una separazione in paragrafi, riportava un colloquio/scontro avuto tra un senatore e l’imperatore nel 48 d.C. Qui si riportava per intero come si era sviluppata l’interlocuzione tra i due. La polemica, aperta chiaramente dal senatore batteva sul fatto del perché all’interno del senato dovessero prendervi parte dei senatori non italici e quindi considerati sudditi e comunque sottomessi.

 

Le prerogative di cittadinanza erano state concesse agli Italici subito dopo lo scontro del Bellum Sociale (91-88 a.C.) in cui tutti i popoli italici si erano uniti contro Roma per reclamare i diritti, contro lo sfruttamento dell’Urbe ma soprattutto per l’esclusione da tutti i diritti politici della Res Publica. Benché Roma ne fosse uscita vincitrice, fu costretta in quel frangente a concedere la cittadinanza romana e quindi la parità dei diritti a tutti i popoli italici fino alle alpi. Solamente nel 212 d.C. verrà concessa la cittadinanza a tutti i popoli dell’Impero con la Constitutio Antoniniana (Editto di Caracalla).

 

Questa parte del testo lionese venne chiaramente notata e confrontata con un passo riportato da Tacito negli Annali che lo riassume e sintetizza, omettendo però i particolari: lo storico romano aveva riportato, si quel discorso, ma non in tutte le sue parti, e gli esempi particolari vengono essenzializzati in una serie di vaghe notizie:

 

Nel testo di Lyone, il senatore chiede all’imperatore Claudio il perché sia necessario inserire nell’ordine senatoriale un personaggio “nobile” proveniente dalla Gallia Comata, e quindi un barbaro. Claudio nel ribattere riporta come esempi, una serie di personaggi, non romani che in passato avevano ricoperto cariche importanti nella Roma repubblicana.

 

« Maiores mei, quorum antiquissimus Clausus origine Sabina simul in civitatem Romanam et in familias patriciorum adscitus est, hortantur uti paribus consiliis re publica capessenda, transferendo huc quod usquam egregium fuerit. Neque enim ignoro Iulios Alba, Coruncanios Camerio, orcios Tusculo, et ne vetera scrutemr, Etruria Lucaniaque et omni Italia in senatum accitos, postremo ipsam ad Alpes promotam, ut non modo singuli viritim, sed terrae, gentes in nomen nostrum coalescerent. Tunc solida domi quies et adversus externa floruimus, cum Transpadani in civitatem recepti, cum provincialium validissimis fesso imperio subventum est. Num paenitet Balbos Hspania nec minus insignes viros e Gallia Narbonensi transivisse ? manent posteri eorum nec amore in hanc patrima nobis concedunt. Quid aliud exitio Lacedaemoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis pollerent, nisi quod victos pro alienigenis arcebant? At conditor nostri Romulus tantum sapientia valuti, ut plerosque populos eodem die hostes, dein cives habuerit. Advenae in nos reganverunt; libertinorum filiis magistraus mandare non, ut plerique falluntur, repens, sed priori populo facitatum est. At cum senonibus pugnavimus : scilicet Vulsci et Aequi numquam adversam nobis aciem instruxere. Capti a Gallis sumus : sed et Tuscis obsides dedimus et samnitium iugum subimus. Ac tamen, si cuncta bella recenseas, nullum breviore spatio quam adversus Galos confectum : continua indeac fida pax. Iam moribus artibus adfinitatibus nostris mixti aurum et opes suas inferant potius quam separati habeant. Omnia, patres conscripti, quae nunc vetustissima creduntur, nova fuere : plebei magistratus post patricios, latini post plebeios, ceterarum Italiane gentium post Latinos. Inveterascet hoc quoque, et quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit ».

 

“I miei avi, tra i quali il più antico di questi Clauso, di origine sabina, vennero conferiti sia la citadinaza che il patriziato romano, mi esortano ad utilizzare gli stessi criteri per il governo della Repubblica, portando all’interno dello stato tutto ciò che di buono viene dall’esterno. Dopotutto tengo a mente che sia i Giulii da Alba, sia i Coruncanii da Camerino sia i Porcii da Tuscolo evitando di addentrarci in periodi ancora più antichi, dall’Etruria e dalla Lucania e dall’Italia intera, vennero inseriti nel Senato, più tardi quando i confini giunsero fino alle Alpi, in modo tale che non i singoli individui ma addirittura le terre, le genti si unirono sotto il nostro nome. Ora che la nostra patri è prospera e noi abbiamo raggiunto l’apice dei rapporti con tutte le genti, possiamo affermare che quando accogliemmo i Transpadani come cittadini, l’impero indebolito si risollevò, acquisendo di fatto i migliori elementi provinciali. Dobbiamo forse rimpiangere il fatto che i Balbii siano stati introdotti dalla Spagna? Rimangono i loro discendenti che non sono secondi a noi nell’amare questo Stato. A quale motivo si deve attribuire la rovina degli Spartani e degli Ateniesi se non per il fatto che essi imposero le loro regole con le armi e considerassero gli sconfitti stranieri? Romolo, nostro padre, fu invece talmente saggio da considerare molte popolazioni lo stesso giorno prima nemici e poi concittadini. Molti dei nuovi arrivati regnarono; e l’affidamento delle cariche a figli di liberti non è, come pensano in molti, sbagliando, cosa d’oggi, ma già in antico era cosa comune. È vero, abbiamo combattuto contro i Senoni, ma anche i Volsci e gli Equi non furono forse nostri avversari in campo aperto? Siamo stati sottomessi ai Galli, ma abbiamo consegnato ostaggi agli Etruschi e abbiamo subito il giogo Sannita. Tuttavia, se esaminiamo tutte le guerre, osserveremo che nessuna di queste si concluse in più breve tempo che contro i Galli, con i quali abbiamo stipulato una pace lunga e duratura. Ormai si sono assimilati a noi nei costumi, nelle arti, nel sangue e in più ci danno anche il loro oro invece che tenerlo per loro. Tutto ciò che ora si reputa antico, padri coscritti, un giorno fu cosa nuova: i magistrati plebei dopo quelli patrizi, i Latini dopo i plebei, gli altri Italici dopo i Latini. Anche questa delibera è destinata ad essere considerata antica, e che oggi riportiamo come esempio, rimarrà tra gli esempi”. [Tac. Ann., XI 23-24]

 

Il discorso annalistico terminava dunque qui. Ma le ripercussioni furono notevoli:

 

Orationem principis secuto patrum consulto primi Aedui senatorum in urbe ius adepti sunt.

 

A questo discorso dell’imperatore fece seguito una delibera nazionale secondo cui gli Edui per primi ottennero il diritto senatorio in Roma. [Tac. Ann., XI 25]

 

Ma è proprio dal proseguo della tabula lugdunensis che dovevano arrivare le sorprese maggiori. Da qui in poi la storia apriva le sue braccia agli studiosi tramite metodi e mezzi non convenzionali, in una delle sue prime accezioni; non solo non venivano più usate esclusivamente le fonti filologiche, ma da una fonte epigrafico-archeologica provenivano dei nuovi spiragli destinati a diventare dei buchi, delle aperture immense nella storiografia repubblicana.

 

Sappiamo bene che l’imperatore Claudio (41-54 d.C.), tese a difendere l’accettazione o inserimento di un senatore proveniente dalla provincia con capitale Lugdunum (Lyone) e che tenne a far incidere proprio quel discorso su tavole bronzee proprio perché lui era nato in quella città.

 

Il testo di Lugdunum, utilizzato dapprima per rispondere al senatore romano ed in seguito come una sorta di editto informale, usa dapprincipio una serie di esempi sommari, evidenziati in Tacito, fino a scendere nello specifico, in una klìmax eclatante, fino a quando riferisce di uno straniero che subentrò come persona di governo nelle istituzioni romane, divenendo così egli stesso romano.

 

La prima delle due lamine giunte a noi riportava il brano del discorso, glissato da Tacito, che svelava dunque un mistero fino ad allora celato dalle fonti e quindi inimmaginabile:

 

SVM] MAE RERVM NO[STRARVM] SIT V[TILE]...

EQVIDEM PRIMANT OMNIVM ILLAM COGITATIONEM HOMINVM QVAM MAXIME PRIMAM OCCVRSVRAM MIHI PROVIDEO DEPRECOR NE QVASI NOVAM ISTAM REM INTRODVCI EXHORRESCATIS SED ILLA POTIVS COGITETIS QVAM MVLTA IN HAC CIVITATE NOVATA SINT ET QVIDEM STATIM AB ORIGINE VRBIS NOSTRAE IN QVOD FORMAS STATVSQVE RES P[VBLICA] NOSTRA DIDVCTA SIT

 

QVONDAM REGES HANC TENVERE VRBEM NEC TAMEN DOMESTICIS SVCCESSORIBVS EAM TRADERE CONTIGIT SVPERVENERE ALIENI ET QVIDAM EXTERNI, VT NVMA ROMVLO SVCCESSERIT EX SABINIS VENIENS VICINVS QVIDEM SED TVNC EXTERNVS VT ANCO MARCIO PRISCVS TARQVINIVS [IS] PROPTER TEMERATVM SANGVINEM QVOD PATRE DEMARATHO C[O]RINTHIO NATVS ERAT ET TARQVINIENSI MATRE GENEROSA SED INOPI VT QVAE TALI MARITO NECESSE HABVERIT SVCCVMBERE CVM DOMI REPELLERETVR A GERENDIS HONORIBVS POSTQVAM ROMAM MIGRAVIT REGNVM ADEPTVS EST HVIC QVOQVE ET FILIO NEPOTIVE EIVS NAM ET HOC INTER AVCTORES DISCREPAT INSERTVS SERVIVS TVLLIVS SI NOSTROS SEQVIMVR CAPTIVA NATVS OCRESIA SI TVSCOS CAELI QVONDAM VIVENNAE SODALIS FIDELISSIMVS OMNISQVE EIVS CASVS COMES POSTQVAM VARIA FORTVNA EXACTVS CVM OMNIBVS RELIQVIS CAELIANI EXERCITVS ETRVRIA EXCESSIT MONTEM CAELIVM OCCVPAVIT ET A DVCE SVO CAELIO ITA APPELLITAVIT MVTATO QVE NOMINE NAM TVSCE MASTARNA EI NOMEN ERAT ITA APPELLATVS EST VT DIXI ET REGNVM SVMMA CVM REI P[VBLICAE] VTILITATE OPTINVIT DEINDE POSTQVAM TARQVINI SVPERBI MORES INVISI CIVITATI NOSTRAE ESSE COEPERVNT QVA IPSIVS QVA FILIORVM EI[VS] NEMPE PERTAESVM EST MENTES REGNI ET AD CONSVLES ANNOS MAGISTRATVS ADMINISTRATIO REI P[VBLICAE] TRANSLATA EST

 

QVID NVNC COMMEMOREM DICTATVRAE HOC IPSO CONSVLARI IMPERIVM VALENTIVS REPERTVM APVD MAIORES NOSTROS QVO IN A[S]PERIORIBVS BELLIS AVT IN CIVILI MOTV DIFFICILIORE VTERENTVR AVT IN AVXILIVM PLEBIS CREATOS TRIBVNOS PLEBEI QVID A CONSVLIBVS AD DECEMVIROS TRANSLATVM IMPERIVM SOLVTOQVE POSTEA DECEMVIRALI REGNO AD CONSVLES RVRSVS REDITVM QVID IN [PL]VRIS DISTRIBVTVM CONSVLARE IMPERIVM TRIBVNOSQVE MIL[ITV]M CONSVLARI IMPERIO APPELLATOS QVI SENI ET SAEPE OCTONI CREARENTVR QVID COMMVNICATOS POSTREMO CVM PLEBE HONORES NON IMPERI SOLVM SED SACERDOTIORVM QVOQVE IAM SI NARREM BELLA A QVIBVS COEPERINT MAIORES NOSTRI ET QVO PROCESSERIMVS VEREOR NE NIMIO INSOLENTIOR ESSE VIDEAR ET QVAESISSE IACTATIONEM GLORIAE PROLATI IMPERI VLTRA OCEANVM SED ILLOC POTIVS REVERTAR CIVITATEM

 

“DA QUANDO I RE REGNAVANO SU QUESTA CITTÀ NON GLI FU CONCESSO DI TRASMETTERE IL POTERE A SUCCESSORI DELLA LORO STESSA CASA MA DI CONSEGNARLO AD UN’ALTRA CASATA E COMUNQUE AL DI FUORI DELLO STATO. COME QUANDO NUMA CHE SUCCESSE A ROMOLO PROVENIVA DA I SABINI, CERTO UN CONFINANTE, MA PUR SEMPRE UNO STRANIERO; COME ANCHE ANCO MARCIO E TARQUINIO PRISCO IL QUALE ERA DI SANGUE IMPURO E NATO DAL PADRE DEMARCATO DI CORINTO E DA UNA DONNA TARQUINIESE NOBILE MA POVERA, TANT’È CHE FU OBBLIGATA AD ACCETTARE UN TALE MAITO DEL QUALE AVEVA BISOGNO. PER QUESTO EGLI VENNE ESCLUSO DALLA SCALATA AL POTERE E PER QUESTO FU COSTRETTO AD EMIGRARE A ROMA. TRA IL SUO REGNO E QUELLO DI SUO FIGLIO O SUO NIPOTE, QUI GLI AUTORI SONO DISCORDI, S’INSERÌ SERVIO TULLIO, CHE SE NOI SEGUIAMO LE NOSTRE (FONTI), NACQUE DALLA SCHIAVA OCRESIA. SE INVECE SEGUIAMO QUELLE ETRUSCHE, INVECE FU L’AMICO PIÙ FEDELE DI CELIO VIBENNA E COMPAGNO DI TUTTE LE SUE VICENDE, QUINDI, USCITO DA MOLTE SITUAZIONI DI FORTUNA CON TUTTI RIMASUGLI DELL’ESERCITO DI CELIO ABBANDNÒ L’ETRURIA E OCCUPÒ IL MONTE CELIO CHE DA ALLORA SI CHIAMA COSÌ ; QUINDI CAMBIÒ IL SUO NOME ETRUSCO MA STARNA CHE PRIMA ERA COSÌ E FU CHIAMATO COME DETTO E OTTENNE IL REGNO CON ENORME PROFITTO DELLO STATO. DOPO DI CIÒ IL CARATTRE DI TARQUINIO IL SUPERBO FURONO ODIATI DALLA NOSTRA CITTÀ TANTO IL SUO CHE QUELLO DEI SUOI FIGLI, APPARENTEMENTE LO SPIRITO FU DISGUSTATO DELLA MONARCHIA, IL GOVERNO DELLO STATO FU QUINDI TRASFERITO A DUE CONSOLI E A MAGISTRATI ANNUALI.

Anche se si tratta di un solo paragrafo dell’intera iscrizione, la storia è centrata, certa e precisa benché sintetica.

 

A detta dell’imperatore, Mastarna, poi Servio Tullio, era un “sodalis” parola forte in latino che indica un rapporto fraterno, di sangue tra il primo e Celio Vibenna, rafforzato da un “comes” ossia compagno nel senso di condivisore del potere, che traduce esattamente la parola greca “etairos”, avrebbe combattuto al suo fianco anche in momenti disperati. Con le rimanenze dell’esercito abbandonò l’Etruria e quindi occupò il Monte Celio e dopo aver mutato il proprio nome in Servio, divenne re.

 

Claudio conosceva molto bene il mondo etrusco: sappiamo che dopo essersi unito in prime nozze con Plautia Urgulanilla, donna di origini etrusche, si appassionò a tal punto a quel popolo da dedicarsi nella sua vita ad uno studio completo sulla storia, gli usi ed i costumi di quella civiltà, tanto da scrivere una vera e propria enciclopedia etrusca di 30 volumi.

 

Fondamentale tra tutti appariva la chiave del discorso basato sulla possibilità di una doppia tradizione annalistica, forse parallela, una etrusca ed una romana: delle due la prima a noi inesistente, oscura, priva di ogni riferimento.

La parte propriamente annalistica veniva rispettata come anche in parte la stessa tradizione romana che veniva prontamente sottolineata (ET HOC INTER AVCTORES DISCREPAT INSERTVS SERVIVS TVLLIVS SI NOSTROS SEQVIMVR CAPTIVA NATVS OCRESIA) ma dall’altra parte il principe, primo “etrusclogo”, forniva anche la versione tirrenica (SI TVSCOS) del racconto, sorvolando su quella romana e riportando seppur sinteticamente precise notizie di sua competenza.

A questo punto, benché le prime interpretazioni non arrivarono al più presto che non alla fine del XVIII e primi anni del XIX secolo, era evidente che il nome di Servio Tullio nella tradizione Etrusca era quello di Mastarna e che questo era indissolubilmente legato a quello dei fratelli ed in particolare di Celio, Vibenna.

 

Era necessario quindi rivedere la storiografia romana ufficiale, trovare i riferimenti, i frammenti, i brandelli di qualsiasi elemento che fosse riferito ai fratelli Vibenna ed in particolare a Celio, condottiero e monte.

Il primo in assoluto si ritrovava in Tacito stesso qualche capitolo precedente a quello del discorso imperiale:

 

Haud fuerit absurdum tradere montem eum antiquitus Querquetulanum cognomento fuisse, quod talis silvae frequens fecundusque erat, mox Caelium appellitatum a Caele Vibenna, qui dux gentis Etruscae, cum auxilium [appellatum] portavisset, sedem eam acceperat a Tarquinio Prisco, seu quis alius regum dedit; nam scriptores in eo dissentiunt. Cetera non ambigua sunt: magnas eas copias per plana etiam ac foro propinqua habitavisse, unde Tuscom vicum e vocabolo advenarum dictum”.

“Non è fuori luogo ricordare che in antico il suo nome era quello di Querquetulano (Monte delle Querce), poiché era pieno di boschi di questi alberi, solo in seguito ebbe il nome Celio, da Celio Vibenna, generale del popolo Etrusco, il quale dopo aver portato l’aiuto richiesto, ricevette quella sede da Tarquinio Prisco o fu un altro re a darglielo; sul chi sia stato gli storici discordano. Tutte le altre notizie, al contrario, non sono in dubbio: cioè che tutte quelle truppe, molto numerose, s’insediarono lungo tutta la piana, finanche i luoghi prossimi al foro, e che dal nome degli stranieri fu denominato il Vico Tusco” (Tacito, Annali IV, 65).

Sia Livio che Tacito sembrano negare l’esistenza di una storiografia Etrusca, o per meglio dire ci troviamo di fronte a due linee: la prima nega, surclassa la storiografia Etrusca come inesistente, il riscontro “vibennate” è totalmente assente come i riferimenti al Monte Celio o al Vicus Tuscus; nel secondo le tradizioni coabitano all’interno delle narrazioni annalistiche con una biforcazione tesa ad una separazione netta e definita talmente lontana da non far accorgere il lettore di una commistione di eventi tramite l’omissione totale di Servio Tullio come re proveniente dal mondo tirrenico e comunque conquistatore.

 

Ci sembra che tali omissioni che non poterono essere totali, sono da riscontrarsi all’interno del discorso riportato da Tacito e in un certo senso possono essere intraviste o riconosciute quando parla degli Etruschi come fatti avvenuti e riportati nella Tabula Lugdunensis: tutto è propriamente voluto quando afferma “…evitando di addentrarci in periodi ancora più antichi, dall’Etruria…” oppure quando sembra riportarci un momento dei rapporti di vita tra Tarquinio Prisco e Servio dove si ribadisce che “…l’affidamento delle cariche a figli di liberti non è, come pensano in molti, sbagliando, cosa d’oggi, ma già in antico era cosa comune…”.

 

Agli eminenti annalisti fa eco un frammento “riscoperto” di Festo, più conoscitore di costumi italici e meno flessibile alla induzione letteraria romana, presente in Livio, tesa ad cancellare propriamente l’idea di un re Etrusco “conquistatore”.

Il frammento, alla voce Tuscum Vicum (486, 12-19), ridotto ad un brandello o ad un relitto filogico riporta la presenza di due fratelli Cele e di suo fratello Vibenna Volc[ientes] e di un Max[tarna], che solo grazie all’esegesi Lugduniana era possibile reintegrare. Anche se lo stesso Festo deve comunque rispondere a criteri di discernibilità tra la presenza storiografica latino-romana e quella etrusca, accettando la seconda si ma omettendone anch’egli le interconnessioni che rendono identificabile la figura di Macstarna in Re Servio.

 

Ancora vennero “riscoperti” testi di tutti gli autori che riportavano notizie su Mastarna, Celio e Aulo Vibenna. Venne ripreso e sviscerato il lungo testo addirittura di uno scrittore cristiano, Arnobio (Adv. Gentes. VI 7) che ripercorre tutti gli autori annalistici fino a raggiungere la più antica conosciuta: Fabio Pittore.

 

In questo passo si narra la vita e la storia di Olus (=Aulus) Vulcentanus, ucciso da un servo, il cui corpo non venne accettato a Vulci e per questo venne sepolto sul Campidoglio e che per questo motivo il Monte, ma ancor prima di esso la struttura sulla sua sommità, il Tempio di Giove prese il nome e l’attributo dal teschio, sul quale vi era incisa la scritta in lettere etrusche “Caput Oli Regis” (Serv., ad. Vir. Aen. VIII, 345; Chron. Vienn. A.D. 354; Isid., Orig. XV 2, 31) rinvenuto durante lo scavo delle fondazioni o la purificazione augurale dell’area destinata al tempio stesso. Ritenuto segno divino di prosperità per il futuro, Tarquinio Prisco fece allora innalzare il tempio e per il suo simulacro della divinità venne chiamato l’eminentissimo artista Vulca di Veio (Liv. I 55, 1-6; Plin., N.H. XXXV 157).

 

La connessione tra i Vibenna e Mastarna che aveva come unici referenti l’imperatore Claudio e il glossista Festo doveva riapparire sulla scena, per la terza volta, nel modo più eclatante. Nel bel mezzo delle interpretazioni esegetiche della Tabula Lugdunensis, quando appena veniva formulata una linea di rilettura storica in base alle conoscenze acquisite, doveva avvenire la seconda scoperta che avrebbe ancora una volta rimescolato le linee base su cui si poggiavano le fondamenta di una supposta storiografia etrusca e dalla quale Claudio prese la saga più venerata.

 

Nel 1857 Alessandro François s’imbatteva negli affreschi della Tomba dei Saties (Vedi Instoria….), la pubblicazione da parte di Noël des Vergers aprì, insieme ad un fiume di scontri e polemiche, anche un senso di soddisfazione e al tempo stesso di speranza sul fatto che la storia narrata non è sempre vera e che soprattutto vi sono spiragli microscopici che nascondo luci immense.

 

Su uno dei due affreschi maggiori appariva la saga dei fratelli Aule e Caele Vipienas e del loro amico e compagno Macstarna, riconoscibili dalle iscrizioni che accompagnavano le figure. Il discorso di Claudio, da molti ritenuto visionario e millantatore, affermava il vero, qualcosa di realmente accaduto e confermato da un’espressione artistica. La saga dei due fratelli era già nota poichè celebrata da una serie di lavori metallurgici, tra tutti lo specchio proveniente da Bolsena (Volsinii Nova) e ora conservato al British Museum, sul quale sono incise le sagome dei fratelli Vibenna che assalgono il cantore Cacu; o su manufatti scultorei, come nel caso delle urne chiusine o volterrane, ma mai era stata riconosciuta la presenza di Macstarna.

 

Quindi non solo si confermava il racconto imperiale, ma soprattutto si riscontrava esattamente un passo di esso “POSTQVAM VARIA FORTVNA EXACTVS - uscito da molte situazioni di fortuna” a cui evidentemente si riferiva la scena in cui mentre Aule Vipenas (Aulo Vibenna), Larth Ulthes e Rasce uccidono i respettivi avversari: Vensticau... plsachs (di Blera?, di Montefiscone?), Laris Papasfnas Velznach (di Volsinii - Orvieto), Pesna Arcmsnas Sveamax (di Sovana), Macstarna (Servio Tullio) taglia le corde che legano le mani di Caele Vipinas (Celio Vibenna). Su un pannello laterale Marce Camiltnas (Marcus Camillus?) minaccia o sta per uccidere Cneve Tarchunies Rumach (Gnaeus Tarquinius di Roma).

La fortuna ha voluto che negli scavi archeologici c’imbattessimo in alcune tracce lasciate da uno dei due fratelli Vibenna. Aulo sigla di propria mano, incidendolo sul fondo del piede, una coppa in bucchero e la dedica nel santuario c.d. di Portonaccio dedicato ad Apollo a Veio. Gli scavi del 1915/18 restituirono una favissa con iscrizioni dedicatorie tra le quali, oltre a quella di Aulo, è presente quella di Tulumne. La forma piuttosto arcaica dell’iscrizione (MI AVILE VIPIIENNAS) ci riporta in un periodo compreso tra il 575 e il 550 a.C.

Lo stesso nome (AVLES VI[I]PINAS) si trova inciso su una kylix di imitazione greca a figure rosse, conservata al Musée Rodin a Parigi, diacrona con il personaggio perché della metà circa del V sec. a.C. proveniente molto probabilmente da Vulci e che lascia presupporre due ipotesi, o che vi fossero ancora un secolo più tardi dei discendenti di Aulo Vibenna a Vulci o che fosse talmente famoso da essere stato divinizzato, tanto da dedicare a lui un vaso.

 

Anche se realmente sia la ricerca che la soluzione al problema del nome con cui è conosciuto Servio Tullio non ha motivo di essere, in quanto un nome, è giusto per rispetto a gli studiosi cercare un’interpretazione al nome o vocabolo etrusco Macstarna (latino: Mastarna o Maxtarna).

 

Buona parte della problematica si concentra sul fatto che il suo nomen simplex non riporta ad una forma gentilizia e quindi altolocata del soggetto. Già gli etruschi usavano difatti almeno due nomi per indicare non solo la provenienza, le origini se non proprio nobili, almeno di cittadini.

 

La parola che compone il nome è formata da una radice *Macstar- e da un suffisso *-na. Il riferimento glottologico, riconosciuto all’unisono con la parola indoeuropea magister (maestro/mastro, master, maetre, meister) è già conosciuto nell’onomastica etrusca facente parte del cursus honorum etrusco con il termine macstrev su un sarcofago da Tuscania (CIE 5683).

 

Anche la versione del Pallottino, di riconoscere nel suffisso *-na una sorta di particella di proprietà o di affiliazione, ottenuta dal confronto con l’onomastica familiare, definiva in realtà una sorta di genitivo possessivo, che si tradurrebbe con “appartenente a magister”.

 

Niente di più chiaro dunque, se riprendiamo ancora una volta il passo dell’epigrafe di Lyone in cui si sottolinea per ben due volte che Servio, ancora col nome di Mastarna era “1) CAELI QVONDAM VIVENNAE SODALIS FIDELISSIMVS OMNISQVE EIVS CASVS COMES … 2) A DVCE SVO …” e il Magister, che a Roma come doveva essere anche in Etruria aveva la connotazione di Magister militum, era chiaramente Caelius Vibenna.

 

Appartenenza espressa perfettamente in altri due temini: SODALIS e COMES che come detto, fondono insieme i concetti di amicizia e di subordinazione collaborativa che, visto l’alto grado di devozione porterà Macstarna a divenire Servio Tulllio sul trono di Roma.



 

 

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