N. 24 - Dicembre 2009
(LV)
LA RIVOLUZIONE RUSSA
La presa del potere (1917)
di Cristiano Zepponi
Uno
dei
principali
sconvolgimenti
originati
dal
primo
conflitto
mondiale,
la
rivoluzione
russa,
conobbe
un
incipit
abbastanza
modesto,
se
paragonato
al
suo
successivo
decorso.
Il
23
febbraio
1917,infatti,
ottantamila
operai
manifestarono
per
le
vie
di
Pietrogrado,
la
capitale
dell’Impero
dello
zar,
protestando
contro
il
catastrofico
tributo
di
morte,fame
e
sofferenza
versato
nella
guerra.
In
tre
o
quattro
giorni
fu
il
caos:
le
guarnigioni
aderirono
apertamente
alla
rivolta,
fraternizzando
con
gli
insorti;
il
presidente
del
parlamento,
la
Duma,
si
rivolse
allo
zar
invitandolo
ad
accettare
un
governo
popolare.
I
comandanti
delle
armate
russe,
impegnate
al
fronte,
appoggiarono
il
parlamento.
Il 2
marzo
Nicola
II,
l’ultimo
dei
Romanov,
prese
atto
della
realtà
e
abdicò.
Un
impero
sconfinato,
con
otto
milioni
di
uomini
al
fronte,
crollò
dunque
in
meno
di
una
settimana,
sotto
il
peso
di
una
serie
di
violente
e
scoordinate
convulsioni.
Le
perdite
umane,
su
140
milioni
di
abitanti,
furono
mille
e
trecento.
Gli
sforzi
dello
zar
di
ignorare
qualsiasi
richiesta
riguardo
riforme
sociali
e
politiche
gli
aveva
alienato
la
simpatia
persino
di
una
parte
dei
ceti
alti;
la
rapida
industrializzazione
aveva
generato
una
classe
operaia,
abbandonata
a sé
stessa,
in
pessime
condizioni;
i
contadini
erano
esasperati
dalla
pressione
fiscale;
la
guerra
stessa
aveva
preso
una
pessima
piega,
la
situazione
finanziaria,
per
quanto
alleviata
dall’alleata
Francia,
si
poteva
definire
catastrofica.
L’uscita
di
scena
della
casa
reale
aprì
la
strada,
il
giorno
seguente,
alla
creazione
del
governo
provvisorio
guidato
dal
principe
Georgij
L’vov,
di
orientamento
liberale.
Un
governo
“moderato”,
incline
a
proseguire
la
guerra
ed a
promuovere
una
progressiva
“occidentalizzazione”
politico-economica
del
paese.
Era
appoggiato
in
questo
progetto
dai
liberal-moderati
aderenti
al
partito
dei
cadetti,
dai
menscevichi,
seguaci
della
socialdemocrazia
europea,
dai
socialisti
rivoluzionari
(democratico-radicali,
come
Kerenskij,
e
anarchici),
che
ritenevano
necessario
il
passaggio
attraverso
una
fase
democratico-borghese.
Gli
ultimi
due
gruppi
entrarono
nel
governo
nel
secondo
gabinetto
L’vov,
del
maggio
’17:
lo
stesso
Kerenskij
divenne
ministro
della
guerra.
Tutti
i
partiti
politici,
con
una
sola,
fondamentale
eccezione,
intesero
la
rivoluzione
come
l’occasione
migliore
per
un
appello
patriottico
alla
cacciata
dei
tedeschi
dal
suolo
russo.
Quell’eccezione
consisteva
nei
bolscevichi,
un
piccolo
gruppo
scissionista
di
marxisti
convinto
che
solo
la
classe
operaia,
alleata
agli
strati
più
poveri
delle
masse
rurali,
avrebbe
potuto
assumere
la
guida
delle
trasformazioni
del
paese.
Sulle
prime,
comunque,
questi
rifiutarono
ogni
partecipazione
al
potere,
assumendo
una
posizione
di
attesa.
Non
appena
i
leader
bolscevichi
furono
liberati
o
tornarono
dall’esilio,
si
ricreò
una
struttura
organizzata;
in
aprile
il
loro
principale
portavoce,
Vladimir
Ulianov,
noto
come
Lenin,
fece
ritorno
dalla
Svizzera,
favorito
dalle
autorità
tedesche
nel
viaggio.
Una
volta
giunto,
diffuse
un
documento
in
dieci
punti
(note
come
le
“tesi
d’aprile”)
che
rifiutava
il
concetto
di
fase
borghese
della
rivoluzione,
ponendo
l’accento
sul
problema
della
presa
del
potere,
ribaltando
l’ortodossia
marxista
(secondo
la
quale
la
rivolta
proletaria
avrebbe
riguardato
in
primo
luogo
i
paesi
sviluppati).
L’obiettivo
era
quello
di
conquistare
la
maggioranza
nei
soviet,
sorti,
come
già
nel
1905,
a
fianco
al
potere
legale
che
si
andava
rapidamente
sgretolando;
di
lanciare
le
parole
d’ordine
della
pace,
del
pane,
del
controllo
della
produzione;
di
avviare,
in
pratica,
la
seconda
fase
della
rivoluzione,
volta
a
rovesciare
il
governo
provvisorio,
già,
definitivamente,
screditato
dal
tragico
fallimento
dell’offensiva
d’estate.
Il
completo
crollo
dell’economia
di
guerra,
del
sistema
dei
trasporti,
delle
riserve,
dei
salari,
delle
scorte
alimentari,
il
fermento
dei
contadini,
il
flagello
dell’inflazione,
la
crisi
economica
e
sociale
assunsero
vaste
proporzioni.
I
bolscevichi
seppero
approfittarne
in
vari
modi:
non
erano
identificati
con
la
screditata
elite
politica,
potevano
sfruttare
l’attività
politica
dal
basso,
costituivano
un’alternativa
radicale
attraente,
si
alleavano,
assai
spesso,
con
i
soviet
locali,
espressione
genuina
della
politica
popolare
e
guidati
dal
Soviet
centrale
di
Pietrogrado.
L’ultimo
successo
per
il
governo
provvisorio
fu
la
repressione
della
rivolta
di
Pietroburgo,
a
metà
luglio,
quando
soldati
e
operai
armati
impedirono
la
partenza
per
il
fronte
di
alcuni
reparti:
l’iniziativa,
di
cui
i
bolscevichi
cercarono
di
servirsi,
fallì.
I
leader
bolscevichi
furono
costretti
alla
fuga;
Lenin,
stavolta,
riparò
in
Finlandia.
Tuttavia,
nonostante
questo
brusco
arresto,
la
situazione
si
faceva
rapidamente
favorevole
ai
bolscevichi.
Il
principe
L’vov
si
dimise,
e fu
sostituito
da
Kerenskij,
screditato
dal
fallimento
dell’offensiva
d’estate
e da
una
politica
personale
che
gli
aveva
alienato
le
simpatie
del
suo
stesso
partito,
il
socialrivoluzionario,
e
dei
moderati.
A
lui
era
apertamente
contrapposto
l’uomo
forte
di
turno,
il
generale
Kornilov,
comandante
dell’esercito.
Questi,
ai
primi
di
settembre,
richiese
con
un
ultimatum
il
passaggio
dei
poteri
alle
autorità
militari:
Kerenskij,
facendo
appello
alle
forze
socialiste
(compresi
i
bolscevichi)
e
distribuendo
armi
alla
popolazione,
riusci’
a
stroncarlo.
Ma
veri
vincitori
dalla
vicenda
erano
usciti
proprio
i
bolscevichi,
legittimati
agli
occhi
della
popolazione
e
capaci
di
conquistare
la
maggioranza
nei
soviet
di
Pietrogrado
e
Mosca.
I
tempi,
finalmente,
erano
maturi.
La
decisione
di
rovesciare
il
governo,
maturata
in
una
drammatica
riunione
del
Comitato
Centrale
del
partito
il
23
ottobre,
fu
fortemente
avversata
da
alcuni
compagni
di
Lenin
stesso:
contrari
erano
Gregorij
Zinov’ev
e
Lev
Kamenev,
due
fra
le
personalità
principali
del
partito,
ad
esempio.
Favorevole,
invece,
un
altro
leader
di
prestigio,
Lev
Davidovic
Bronstein
(
meglio
noto
come
Trotzkij),
organizzatore
e
regista
dell’insurrezione.
Nonostante
i
tentativi
governativi
di
allontanare
i
reparti
ribelli
ed
arrestare
i
dirigenti
bolscevichi,
la
mattina
del
7
novembre
(25
ottobre
in
Russia)
soldati
e
guardie
rosse
(operai
armati)
circondarono,
isolarono
e
poi,
in
serata,
occuparono
il
Palazzo
d’Inverno,
ex-residenza
zarista
e
sede
del
governo
provvisorio,
dopo
aver
preso
possesso
dei
punti
nevralgici
della
città,
incontrando
scarsissima
resistenza
tra
gli
sfiduciati
reparti
di
guardia:
un
assalto
quasi
incruento,
destinato
ad
assurgere
a
simbolo,
sulla
falsariga
della
presa
della
Bastiglia.
Nello
stesso
momento
a
Pietrogrado
si
riuniva
il
Congresso
Panrusso
dei
Soviet,
l’assemblea
dei
rappresentanti
dei
Soviet
di
tutto
l’ex-impero.
Il
Congresso
sancì
l’avvenuta
presa
del
potere
in
due
modi:
facendo
appello
ai
belligeranti
per
una
pace
“giusta
e
democratica..
senza
annessioni
e
senza
indennità”,
e
stabilendo,
lapidariamente,
la
soppressione
della
proprietà
terriera,
“senza
alcun
indennizzo”,
per
accattivarsi
le
simpatie
delle
masse
contadine.
Gli
altri
partiti
protestarono
vivacemente,
e
poc’altro.
Non
organizzarono
scioperi
né
manifestazioni,
puntando
le
carte
sulla
prossima
convocazione
dell’Assemblea
Costituente,
le
cui
elezioni
furono
fissate
per
novembre.
Lenin,
nel
libello
intitolato
“Stato
e
rivoluzione”,
scriveva
nell’agosto
invocando
“il
più
stretto
controllo
da
parte
della
società
e
dello
stato”.
E
nei
primi
mesi
del
governo,
il
partito
istituì
in
effetti
ciò
che
questi
definiva
la
“dittatura
del
proletariato”.
L’Assemblea,
nata
alfine
in
gennaio,
accoglieva
solo
per
un
quarto
(175
su
707)
i
bolscevichi,
che
subirono
una
grande
sconfitta
elettorale,
con
soli
nove
milioni
di
voti:
venne
allora
rapidamente
sciolta
ad
opera
di
militari
rossi.
Proprio
con
lo
scioglimento
della
Costituente,
il
potere
bolscevico
rompeva
definitivamente
con
le
altre
componenti
socialiste
sia
con
la
tradizione
democratica
occidentale.
Una
rigida
autorità
fu
esercitata
sul
popolo
dei
Soviet,
fu
cancellato
ogni
ricordo
di
culture
e
istituzioni
“borghesi”,
fu
ripristinata
la
polizia
segreta,
l’esercito
fu
riorganizzato.
“Nessuno
ha
idea
di
cosa
verrà
fuori
dal
calderone
russo”
dichiarava
in
quei
giorni
Winston
Churchill,
ministro
inglese
della
guerra,
“ma
è
quasi
certo
che
sarà
qualcosa
di
assolutamente
malvagio,
di
minaccioso”.
Ne
venne
fuori,
semplicemente,
la
dittatura
di
partito.