N. 31 - Dicembre 2007
COSTANTINO
IL GRANDE E LA BATTAGLIA DI PONTE MILVIO
La
vittoria di una scelta
di
Antonio Montesanti
La
splendida mostra dedicata alla figura del primo
imperatore cristiano dal titolo “Costantino il Grande.
La civiltà antica al bivio tra occidente e oriente”
svoltasi a Rimini nel marzo 2005 aprì ufficialmente, e
casualmente, insieme al rinvenimento della testa
colossale dell’imperatore a Roma nel luglio di quello
stesso anno,
le celebrazioni ufficiali per i 1700 anni dalla sua
acclamazione imperiale, che si terranno il prossimo
anno a Treviri (Augusta Treverorum – Trier),
città da lui scelta come residenza imperiale, fino
alla sua venuta a Roma.
Per
comprendere a fondo la persona di Flavius Valerius
Costantinus detto il Grande ed il valore della
battaglia che decise sorti dell’umanità intera, sarà
necessario capire quello che era accaduto nei decenni
precedenti al suo avvento.
Come
in tutti gli eventi, spesso la nascita di una figura
preponderante, dominante o comunque al di sopra dei
predecessori, in grado di dare alla storia un’altra
direzione e/o un altro corso, è dettata da un periodo
precedente estremamente confuso. Spesso non si tratta
di questioni economiche, sociali e politiche,
definibili migliori o peggiori, e che trascinano con
il peso del loro significato l’ago della bilancia di
un preciso momento storico, ma si tratta semplicemente
di un periodo confusionario che, in un modo o
nell’altro, deve essere riorganizzato.
La
situazione dell’Impero Romano, già al termine del III
sec. d.C., stava volgendo verso la disfatta, ormai da
un cinquantennio era ritornata in voga l’autorità
militare dell’esercito, dopo la morte nel 235 d.C.
dell’ultimo dinasta della dinastia dei Severi,
Alessandro. I soldati, a seconda degli uomini, delle
circostanze e degli eventi, acclamavano un personaggio
come imperatore, casualità che spesso portava alla
nomina di un quantitativo di elementi gerarchici,
variabile, a seconda dei periodi, da 2 a 4. L’
acclamatio a sua volta produceva degli scontri che
puntualmente indebolivano l’Impero soprattutto in quei
punti dove appariva più sottoposto a rischi: sul
limes reno-danubiano e sul confine partico.
Nel
284 d.C., termine di questo periodo, di scontri tra
imperatori eletti ab legionibus, in cui già si
era paventata la possibilità di suddividere i
territori imperiali tra i figli dell’imperatore
Aurelio Caro, Numeriano in Oriente e Carino in
Occidente, è un luogotente dalmata Valerio Diocle a
prendere l’iniziativa.
Salito agli onori col
nome di
Gaius Aurelius Valerius
Diocletianus,
questo generale della terra d’Illiria, percorsa dalla
linea di demarcazione tra le due partes imperialis
e continuamente sottoposta a ribellioni e relativi
sedaggi, il valente generale viene proclamato dalle
sue truppe imperatore a
Calcedonia (Kadikšy),
il 20 novembre 284 d.C., liberandosi in successione
del prefetto al pretorio Sempronio Apro dei giovani
imperatori augusti.
La
situazione estera appariva piuttosto grave, i Parti,
benché sconfitti da Aurelio Caro, che come Traiano
aveva raggiunto Ctesifonte, avevano ripreso tutti i
territori costringendo Numeriano alla ritirata. La
frontiera Occidentale invece era salda per una
questione economica. Le tribù barbare che premevano su
quest'asse erano calmate dal pagamento continuo di
tributi imperiali che andavano aumentando sempre di
più e che gradualmente stavano prosciugando l’Erarium.
Per
quanto riguarda la situazione interna questa appariva
decisamente più grave: i Bacaudae, contadini
galli organizzati in bande armate, erano in fermento
ormai da un ventennio e cercavano, come avverrà dopo
lo sfaldamento dell’Impero sotto la guida dei Franchi,
una formazione di un “Imperium Galliarum”
(Pan. Lat. V, 4, 2-3), mentre lungo le coste
atlantiche e in tutto il Mare del Nord dominava la
flotta del ribelle batavo-romano Carausio, che fece di
Bonomia (Boulogne-sur-mer) il suo porto per
vere e proprie scorrerie piratesche isolando di fatto
la Britannia (Pan. Lat. VIII, 12, 1); in
Oriente, ad Alessandria d’Egitto, le insofferenze
economiche andavano sfociarono in disordini e in una
sommossa cittadina che stava conducendo alla
sollevazione dell’intera provincia.
Diocleziano fu risoluto
nel sistemare ogni questione: vincendo gli antagonisti
orientali e riespandendo l’Impero: occupando il cuneo
Mesopotamico all’interno del Regno Partico, in questo
modo riuscì a far riprendere le esportazioni verso
l’Oriente, e per questo si sedarono automaticamente le
rivolte civili e militari, normalizzando così la
situazione e tranquillizzando i civites
dell’Impero. Prese spunto dall’idea di Aurelio Caro,
dividendo l’impero tra due Augusti, egli stesso e
Massimiano (Marcus Aurelius Valerius Maximianus),
un altro generale da lui nominato, in due parti:
Oriente ed Occidente e nominando come sottoposti due
Cesari, che avessero il compito di coadiuvarli:
Diocleziano nominò Caius Galerius Valerius
Maximianus (Galerio) in Oriente mentre Massimiano
scelse
Flavius Julius Valerius
Constantinus (Costanzo
Cloro).
L’Augusto inoltre rivide il sistema fiscale e quello
della lavorazione della terra in base al rapporto
terreno disponibile coloni presenti nell’area, ossia
“unità di superficie lavorabile da un
lavoratore-colono”. Poi si rivolse all’organizzazione
provinciale suddividendo l’impero in grandi unità
regionali piuttosto che in province. Queste “diocesi”
si avvicinano molto a vere e proprie nazioni, come già
intuito dal seguace di Ireneo, Ippolito nella sua
esegesi dell’Apocalisse giovanniana, quando parla
esplicitamente di popoli nazionali (ethnè), nel
periodo successivo alla Constitutio Antoniniana
(Editto di Caracalla, 212 d.C.), nel quale si
concedeva la cittadinanza a tutti gli abitanti
dell’impero. Il punto fondamentale sul quale
Diocleziano credette di dover agire subito dopo quello
politico era quello basilarmente economico. Venne
rivisto il sistema monetario, riproponendo i rapporti
oro/argento e a questa innovazione venne affiancata la
promulgazione di un calmiere dei prezzi, che in fase
di crisi come questa sarebbe dovuto servire, come dice
il nome stesso, a placare l’avanzata inflazionistica.
Nell’ Edictum de pretiis Diocletiani,
l’imperatore tendeva a regolarizzare gli acquisti e le
vendite con prezzi prestabiliti.
Nato
combattente e non politico, l’imperatore decise per la
linea dura verso il cristianesimo, con l’intenzione di
debellarlo, scagliandosi contro di esso con la
veemenza degli imperatori più crudeli che l’avevano
preceduto. I quattro editti, guidati dal “manifesto”
di Porfirio (Contra christianos), che avrebbero
dovuto debellare la nuova religione, già padrona della
pars orientalis imperii, in maniera non
cruenta, furono seguiti subito dopo da misure radicali
violente di ogni genere tese a sopprimere chiunque non
abbandonava la religione di Cristo.
Abdicando nel 303 d.C., Diocleziano richiedeva a
Massimiano di fare altrettanto per godere dei frutti
del suo lavoro e principalmente per osservare se la
macchina rimessa a punto dall’Imperator Augustus
avrebbe funzionato anche senza il suo ausilio per i
secoli a venire.
La
‘creatura’ dioclezianea era destinata a crollare più
velocemente del previsto: i piani del dalmata
prevedevano l’abdicazione in contemporanea degli
augusti ogni 10 anni, in modo che, a loro posto
subentrassero i Cesari, divenendo Augusti, che a loro
volta ne avrebbero nominati altri due. Il fragilissimo
equilibrio dioclezianeo, perdurò per pochi mesi, fino
a quando, all’imprevista morte dell’augusto Galerio,
non subentrarono questioni dinastiche, rivendicazioni
famigliari e acclamazioni militari che portarono, dopo
numerose vicissitudini, allo scontro finale ed
inevitabile tra i due figli degli Augusti: Costantino,
figlio di Costanzo Cloro e Marcus Aurelius Valerius
Maxentius (Massenzio), figlio di Massimiano. Il
primo venne acclamato Imperator dalle legioni
gallo-germaniche, probabilmente quelle costituite dal
padre Costanzo Cloro, la I Flavia Galliciana
Constantia, la I Flavia Martis e la XII
Victrix, mentre il secondo fu acclamato dai
Praetoriani del Castrum Romanum.
Lo
scontro era dunque inevitabile. Fu proprio Costantino
che scese da Augusta Treverorum (Trevirii), che
aveva scelto come residenza imperiale, ad andare
incontro a quello che veniva considerato usurpatore ed
Augusto illegittimo. Dopo aver dominato e fatto
sfoggio delle sue potenzialità belliche lungo il
limes renano, il pretendente condusse un quarto
delle “…sue truppe, formate da barbari catturati in
guerra, Germani e da altri popoli celtici, da altri
assoldati in Britannia, il cui totale era di 90.000
fanti e 8.000 cavalieri” (Zos., II 15). Dopotutto
Costantino non doveva pensare esclusivamente alla
conquista del ‘suo’ regno ma anche e soprattutto alla
difesa dei confini, sottoposti continuamente agli
assalti barbari. È ovvio che un generale ben
addestrato alle manovre militari, nel fiore delle sue
facoltà a 37 anni, e che aveva operato sul limes
germanico tenendosi in continuo ‘allenamento’, contro
Franchi, Bructerii e Alemanni ed in Britannia contro i
Pictii, doveva dare prova della sua capacità, come
bene si aspettava il suo rivale, che aveva nelle
intenzioni, il proposito di attenderlo,
asserragliandosi all'interno di Roma.
La
tattica di Massenzio, ben congeniata, doveva in realtà
stancare, affaticare e sferzare le forze già ridotte
del generale renano: alle armate pesanti sarebbe
toccato questo compito, con una serie di attacchi
ripetuti subito dopo che l’esercito costantiniano
avesse messo piede in Italia dopo il faticoso
passaggio delle Alpi. Per questo l’avanguardia
difensiva, affidata al prefetto del pretorio Ruricio
Pompeiano, fu collocata allo sbocco della Val di Susa,
passaggio obbligato per coloro che giungono dal Passo
del Monginevro, nella città di Segusium (Susa).
La guarnigione asserragliata nella città, che avrebbe
dovuto porre una certa resistenza, venne massacrata
immediatamente, mentre la città fu risparmiata dal
saccheggio, con un ordine diretto del ‘generale’, che
obbligava i soldati a spegnere i primi incendi alle
abitazioni: in questo modo si accattivava il favore
delle città che avrebbe incontrato nella sua discesa
verso Roma.
A
questa prima schermaglia, seguì la battaglia, forse
tra Alpignano e Rivoli, dove l’esercito
dell’attaccante sbaragliò la cavalleria pesante,
costringendola ad una precipitosa ritirata tra le mura
di Augusta Taurinorum (Torino) che, sapendo
dei fatti di Segusium, chiuse le porte in
faccia alle truppe di Pompeiano. Dopo questa battaglia
l’Augusto delle Gallie entrava trionfalmente a
Mediolanum (Milano). Il prefetto Ruricio si
preparava a ritentare nuovamente lo schema fallito
nella Gallia Cisalpina Occidentale (Piemonte)
utilizzando questa volta le piazzeforti di Brixia
e Verona. Questa volta la variante vedeva
Verona già in possesso dei pretoriani e baluardo
inespugnabile, visto il legame della città con il
fiume Adige che le gira intorno su tre lati,
rendendola di fatto inaccessibile. Costantino decise
allora di schierare le truppe predisponendole per
l’assedio; Pompeiano, per evitare la chiusa tentò una
sortita per porre le file nemiche sotto scacco.
L’assediato tentò dapprima un aggiramento delle
schiere nemiche ma, scoperto nell’intento, fu
costretto a rientrare e successivamente a schierare
l’intero esercito al di fuori delle mura. I
combattimenti si protrassero per tutta la notte fino a
che al mattino, l’esercito del prefetto Ruricio era
stato totalmente distrutto ed il suo generale
valorosamente perito nella mischia. Alla resa di
Verona si aggiungeva quella di Aquileia fondamentale
nello scacchiere tattico poiché unico portale italico
verso oriente. Da qui, finalmente il tetrarca poteva
iniziare la discesa, per giungere alle porte di Roma
tramite la via Flaminia sulla quale al XII milium
(19° Km circa) accadde qualcosa di straordinario.
Questo fu il luogo in cui iniziò la battaglia che
chiude il periodo c.d. “tetrarchico” e che è
considerata unanimemente un avvenimento di proporzioni
storiche sconvolgenti. Una sola battaglia è di per se
un fatto che così raramente arriva a cambiare le sorti
di una civiltà o di un impero; in questo caso la
battaglia ha assunto addirittura proporzioni globali e
guardando dai giorni nostri ad allora potremmo dire
“definitive”. La battaglia stessa fu attesa da ambedue
i contendenti come l’evento finale di un qualcosa che
inevitabilmente doveva giungere e che sarebbe stata
quella che avrebbe dato un novo corso alla storia.
Quella che viene chiamata Battaglia di Ponte Milvio,
dal punto in cui questa ebbe termine, si svolse nei
giorni che segnavano il dies imperii (giorno
della proclamazione) di Massenzio, cioè tra il 27 e il
28 ottobre 312 d.C. L’usurpatore di Roma si attardava
ad uscire dall’Urbe, con una tattica incomprensibile,
sembrava avere nelle intenzioni di utilizzare quel
logorio, quel pungulamento, che avrebbe dovuto portare
il rivale a sfiancarsi, per poi chiudersi nelle mura
della città e sostenere l’assedio. Sappiamo che l’autoproclamatosi
augusto, attestò le prime linee del suo esercito nella
località di Saxa Rubra, la cui localizzazione è
ancora oggi oggetto di discussione, in un punto
teoricamente a lui favorevole, ossia collinare e
impraticabile alla cavalleria nemica.
Le
schermaglie iniziarono al 12° miglio dal miliarum
aureum, punto dal quale si contavano le distanze
sulle strade consolari. Da qui, da dove diparte un
diverticolo per una strada che unisce la Via Flaminia
alla Via Cassia, sarebbe iniziato lo scontro. Questo è
deducibile dai resti archeologici presenti in quella
località che viene chiamata Malborghetto: in questo
punto si trova infatti un enorme arco quadrifronte in
opera laterizia che in antico era ricoperto di marmi
pregiati e che poi nel medioevo, già riconosciuto come
il luogo dei fatti, trasformato in chiesa, torre e
quindi casale. Il contatto tra gli eserciti si
trasformò ben presto in scontro totale vero e proprio
che vide, dopo un’iniziale vittoria Massenzio,
l’arretramento del suo esercito.
Non
sappiamo quanti giorni durò la battaglia, ma
conosciamo bene l’importanza che questo evento ha
nella storia. L’evento è segnato dal riconoscimento di
Costantino nei segni di Cristo. Prima dell’ultimo
scontro forse il terzo, prima del tramonto
l’imperatore affermò di vedere un simbolo nel cielo in
cui riconobbe le iniziali di Cristo con
un’affermazione esortativa:
"Un
segno straordinario apparve in cielo. … quando il sole
cominciava a declinare, egli vide con i propri occhi
in cielo, più in alto del sole, il trofeo di una croce
di luce sulla quale erano tracciate le parole IN HOC
SIGNO VICES. Fu pervaso da grande stupore e insieme a
lui il suo esercito." (Eus. VC 37-40)
Lo
stesso Messia gli sarebbe apparso in sogno “esortando
Costantino ad apporre quel simbolo sugli scudi dei
soldati con quei segni celesti di Dio e ad iniziare
quindi la battaglia. Egli fece dunque in questo modo e
ruotando e piegando su se stessa la punta superiore
della lettera greca X (chi), segnò gli scudi con
l’abbreviazione della parola Chrestos (Cristo)”
(Lact., 16-17) e che con questo sarebbero stati
Victores (un corpo militare palatino nel basso
impero continuerà a portare proprio questo nome “Victores”)
(Amm. XXV, 6, 3; ND VII).
La
mattina dopo il sogno rivelatore, Costantino ordinò,
non solo che venisse apposto il monogramma formato
dall’unione delle iniziali di Cristo in greco (X-P),
ma che venisse creato il Labarum, ossia lo
stendardo, il vessillo che avrebbe sostituito l’aquila
romana di Giove e a cui tutti i soldati avrebbero
dovuto far riferimento.
Ancora oggi sulla via Flaminia, un borgo di Roma,
distante 8 miglia dalla capitale e 4 dall’arco
costantiniano, porta il nome di quell’evento: Labaro.
Per questo motivo possiamo dedurre che, prima della
visione e quindi dello scontro definitivo, siano
avvenuti almeno altri due scontri, poiché se il primo
impatto avvenne ne pressi dell’arco vittorioso di
Malborghetto questo si protrasse, con un avanzamento
vittorioso dell’esercito transalpino, almeno fino al
luogo del Labarum, 4 miglia in direzione di
Roma, dove probabilmente avvenne un secondo scontro
questa volta non favorevole a Costantino, tanto che fu
necessaria un’infusione di coraggio o, se vogliamo,
l’intervento divino perché al momento del terzo
scontro, probabilmente quello di cui parlano le fonti
avvenuto a Saxa Rubra e che corrisponde
all’incirca con il luogo della borgata attuale di
Labaro, dove l’esercito costantiniano riuscì
probabilmente a mettere in fuga, inseguendolo, quello
di Massenzio che decise per il ripiegamento e l’attesa
al termine della Flaminia che termina appunto a Ponte
Milvio.
Qui
Massenzio aveva fatto distruggere il ponte originale
in calcestruzzo, e fatto costruire uno basato su
passerelle di legno facilmente rimuovibili e che,
secondo i suoi piani, al momento del passaggio
dell’esercito avversario doveva essere abbattuto,
provocando la caduta della milizia d’oltralpe nel
Tevere (Naz., 28-29).
L’esercito pretoriano in fuga da Saxa Rubra
sapeva di potersi rifugiare dopo il ponte. Massenzio
che temeva probabilmente più le dicerie della folla
che lo accusava di codardia, rimanendo rinserrato
nell’Urbe; secondo una visione più clemente nei suoi
riguardi, ossia che voleva risparmiare a Roma l’onta
dell’assedio, anche se quello che si pensava potesse
essere preso come un atto di vigliaccheria, il
barricarsi all’interno, gli costò la vittoria, poiché
decise di schierare il suo esercito sulla riva destra
del Tevere, “in modo che l’acqua bagnasse i piedi dei
soldati dell’ultima fila”, obbligando così di fatto i
suoi uomini a combattere (Naz., 30-31).
Lo
scontro vide nella carica di cavalleria guidata da
Costantino stesso in prima fila di fronte a tutti,
l’assalto alle ali della guarnigione romana,
costituite da cavalieri nordafricani; ciò ebbe un
duplice catastrofico effetto: da una parte
l’annientamento delle ali nemiche e conseguente
scopertura dei fianchi della fanteria al centro e
dall’altra l’innesco di fuga in pieno panico sul
precario ponte di tavole che, non riuscendo a
sostenere il peso della calca, si sfaldò provocando la
caduta in acqua e il conseguente annegamento di una
moltitudine di combattenti tra cui lo stesso
Massenzio.
Gli
unici che rimasero a combattere, difendendo insieme al
loro onore, la propria vita furono i pretoriani che
perirono nello stesso punto di dov’erano stati
schierati.
Costantino entrava a Roma da trionfatore, secondo le
fonti il senato volle subito schierarsi dalla sua
parte concedendogli il trionfo, cosa che lui fu ben
lieto di accettare, ma non più secondo il programma
pagano. L’imperatore unico e solo conduceva un corteo
al pari dei suoi predecessori, ma questo non terminò
sul clivo capitolino con la dedica delle armi e con i
sacrifici a Giove Ottimo Massimo come da programma,
sfilò per la città e ci piace immaginare che questa
volta il corteo si concluse sotto il Colosso neroniano
ormai sostituito nelle fattezze con la statua del dio
sole (Helios) a cui Costantino era stato sempre
legato e che ancora confuso probabilmente identificava
col Dio cristiano, proprio nel punto dove, tre anni
dopo, il senato erigerà in onore del solo ed unico
imperatore, l’arco onorario specularmente opposto a
quello che si trova nel punto da cui la battaglia ebbe
inizio.
Il
massacro dell’intera famiglia del suo avversario, lo
scioglimento dei corpo pretoriano, i cui sopravvissuti
furono mandati in prima linea sul limes, a
combattere quei Germani, di cui alcuni reparti scelti
di cavalieri omai costituivano la guardia privata
dell’imperatore e che assunsero il nome di scholae,
il prefetto del pretorio perdeva ogni funzione
militare, mantenendo esclusivamente gli impegni
civili, furono solo le conseguenze e le decisioni più
immediate prese dal Novus Augustus.
La
conseguenza universale della vittoria, invece è
costituita dall’atto promulgato nel febbraio de 313
d.C., da Costantino e Licinio, unici monarchi
dell’impero, il secondo con funzioni suffette. Il
documento è ben conosciuto come l’Editto di
Mediolanum (Milano) e riprende nelle linee guida
l’Editto di Nikomedia (Izmit) emanato da
Galerio nel 304 d.C. Le prime righe recitano la chiave
dell’intero documento:
“Cum
feliciter tam ego [quam] Constantinus Augustus quam
etiam ego Licinius Augustus apud Mediolanum
convenissemus atque universa quae ad commoda et
securitatem publicam pertinerent, in tractatu
haberemus, haec inter cetera quae videbamus pluribus
hominibus profutura, vel in primis ordinanda esse
credidimus, quibus divinitatis reverentia continebatur,
ut daremus et Christianis et omnibus liberam
potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset,
quod quicquid <est> divinitatis in sede caelesti.”
[Lact., De Mort. Pers., 48. Ed. O.F. Fritzsche,
II, p 288 sq. (Bibl Patr. Ecc. Lat. XI)].
“Sia
io Costantino Augusto che Licinio Augusto dopo esserci
incontrati in accordo a Milano, scriveremo nel
trattato tutte le cose che riguardano il bene e la
salute pubblica. Tutte queste cose tra le altre che
abbiamo considerato saranno di vantaggio a parecchi
uomini e per questo abbiamo creduto che debbano essere
esaminate per prime, poiché al culto si addice il
rispetto, per dare ai Cristiani e a Tutti la libera
facoltà di seguire qualunque forma di culto essi
prediligano poiché qualunque cosa riguarda il culto si
trova nella sede celeste”.
Questo atto ufficiale, costituito in funzione della
religione cristiana e dei suoi proseliti, porta in
seno almeno due concetti rivoluzionari: la Chiesa era
ufficialmente riconosciuta, nonché altrimenti
parificata a tutte le altre religioni dell’impero,
mentre il secondo decisamente più originale riguardava
l’immunità ecclesiastica cristiana, con un ampliamento
dei privilegia all’intera oikumene
ieratica imperiale anche a livello fiscale. Con tale
emanazione finivano dopo tre secoli vessazioni,
persecuzioni e martiri, fino all’editto del 394 d.C.,
quando l'imperatore Teodosio obbligherà il Senato a
decretare l'abolizione del paganesimo e a riconoscere
il Cristianesimo come unica e ufficiale religione
dell'Impero Romano.
Nei
suoi 31 anni di regno, Costantino detto il Grande,
ossia dalla proclamazione delle truppe a Treviri, e
poi in maniera totale dal 312 d.C. fino alla sua
morte, la sua carriera imperiale si fregerà di un
numero di innovazioni tali che rappresentano realmente
un nuovo tipo di cultura e di idee che trovano le
radici nelle riforme dioclezianee. La sua epoca viene
considerata da una buona parte degli studiosi come una
conversione storica, tant’è che alcuni vedono nella
sua epoca l’affondare delle radici del medioevo,
mentre altri considerano addirittura la data del 313
d.C. il primo confine cronologico tra l’evo antico e
quello di mezzo.
Costantino comprese bene che quello di cui necessitava
l’Impero Romano, prima che di riforme economiche,
militari, sociali, politiche era necessario, nel
miglior modo possibile, fornire lo Stato di un nuovo e
comune spirito, rianimando i cuori e gli animi di
coloro che credevano fermamente in Dio evitando così
dall’altra parte inutili tensioni all’interno di un
impero già devastato. Questa innovazione, che
comprensibilmente avrà effetti più duraturi su quella
parte dell’impero che sembrava almeno internamente più
coesa, si realizzerà anche e soprattutto con una
specie di visione, con la creazione di una nuova
capitale sul Bosforo, destinata a durare 1000 anni in
più della “vecchia”. La pianificazione di
Costantinopoli, appositamente studiata in qualità di
Nova Roma, dimostra la lungimiranza dell’uomo,
guerriero spietato, politico accorto e primo
cristiano.
Con
l’andare del tempo l’avvicinamento dell'Imperatore al
cristianesimo sarà sempre più forte emanando leggi in
difesa e per l’espandersi delle comunità cristiane:
l’esenzione del clero dagli obblighi statali e fiscali
e la trasformazione dei tribunali ecclesiastici in
corti d'appello per le cause civili, avvicinava
l’epoca a quella che si stava affacciando, delegando
in questo modo ai vescovi il potere giuridico, primo
passo verso la gestione di quello politico provinciale
e nel medioevo comunale, inoltre vietò l'uccisione
degli schiavi ed istituì la domenica come giorno di
riposo, secondo i primi passi della Genesi. Come primo
atto diretto in favore della Chiesa prima di partire
da Roma, donò al papa Melchiade l'antico palazzo della
famiglia dei Laterani e costruì a sue spese la prima
basilica di Roma, San Giovanni in Laterano, mentre la
madre, fervente cristiana, costruiva la basilica della
Vera Croce di Gerusalemme.
Purtroppo con l’editto di Milano iniziarono le prime
dispute teologiche che portarono alcune comunità,
soprattutto africane a divenire scismatiche, tra cui
la più famosa fu quella di Ario. Nel Primo Concilio
Ecumenico tenutosi a Nicaea (Iznik) nel 325 d.C.,
in seguito al potere spirituale e temporale che
l’imperatore teneva saldamente nelle sue mani, e
definito col termine di “cesaropapismo”, presiedette
la disputa, cercando un accordo tra Ortodossi e
Ariani, guidati rispettivamente da Alessandro e Ario.
Al termine dei lavori, all’interno del concilio, Ario
fu considerato eretico e esiliato in Illiria, con
conseguenze per l’impero devastanti, poiché la maggior
parte dei barbari che invaderanno i territori
imperiali apparterranno proprio a questa fede e quindi
per questo non saranno assoggettabili.
Nel
326 l’imperatore ripartì per Roma per festeggiare i
ventennali del suo regno. Incredibilmente, prima di
giungervi, fece assassinare tutti i componenti della
sua famiglia, forse intuendone un complotto a suo
carico. Giunse in una città ancora fortemente pagana,
che aveva visto la declassazione a seconda città
dell’impero e che già sapeva dello scempio famigliare
operato dal monarca. I festeggiamenti non sembra siano
andati a buon fine, anzi l’insoddisfazione fu talmente
alta da trasformarsi in tumulti e contestazioni
aperte. Proprio in seguito a queste sommosse
l’Imperatore regalò a Roma le basiche di S. Paolo, S.
Sebastiano e S. Pietro.
Poi
partì per l'Oriente dove vide il suo sogno
trasformarsi in realtà: Costantinopoli fu inaugurata
nel Maggio 330 con grandissimi festeggiamenti, per
costruire questa nuova città furono depredate tutte le
altre dell'Impero ma la nuova capitale magnifica
rimase il centro del mondo per più di mille anni
(1453).
Dopo aver cercato di porre fine alle ennesime diatribe
teologiche senza riuscirvi, celebrò i tricennali a
nella città santa di Gerusalemme, si preparava a
partire per una grande spedizione contro i persiani di
Shapur II quando tornato a Costantinopoli per
assistere alla benedizione della Chiesa dei Santi
Apostoli dove fu sepolto quando pochi giorni dopo, il
22 maggio del 337, spirò.
Costantino venne sepolto proprio in quella chiesa che
lui aveva curato come luogo per il suo riposo,
probabilmente da un certo punto in poi soffrì dei
megalomania, autoattribuendosi il titolo di Isapostolo
("pari agli apostoli"), autoglorificazione che si
riscontra nelle sue volontà: il suo corpo doveva
essere rinchiuso in un sarcofago aureo e rinchiuso
all’interno di un altro lapideo posto al centro di due
schiere da sei uguali nella chiesa dei Dodici Apostoli
a Costantinopoli. Il funerale dovette essere qualcosa
d’impensabile, il figlio Costanzo si trovava di fronte
alle schiere di soldati e catafratti in assetto da
parata, intorno al feretro si disponevano a perdita
d’occhio divisioni di lancieri e di fanteria pesante
con armature e corazze lucenti...
Con
questa immagine si perde nei fumi del tempo questa
dicotomica immagine divisa tra spirito e guerra.
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