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> Diritti umani e civili

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N. 11 - Aprile 2006

 

I RAGAZZI DI PIAZZA MAJAKOVSKIJ E LA NASCITA DEL SAMIZDAT

Una cultura indipendente in Unione Sovietica

di Stefano De Luca

 

Dopo la morte di Stalin in Unione Sovietica una nuova generazione di uomini e di donne che per formazione culturale identificava i propri ‘classici’ in artisti come Osip Mandel’stam o Anna Achmatova, alieni dal ‘realismo socialista’, cominciò ad alzare la propria voce contro l'ideologia dominante ed i canoni che imponeva.

 

Sulla formazione di questa generazione incise in modo significativo la possibilità, offerta dal ‘Festival internazionale dei giovani e degli studenti’ tenutosi a Mosca nell’estate del 1957, di potersi confrontare con il mondo esterno. Lo scambio con persone di cultura diversa era sia un’esperienza umana, quanto artistica, visto che nell’ambito del Festival venne allestita una grande mostra di opere sovietiche ed occidentali, che mise di fronte agli occhi dei giovani russi dei quadri astratti ed altri generi di opere composte in stili a loro sconosciuti. L’esperienza avrebbe favorito la nascita, in alcuni individui, di un nuovo ‘spirito’, volto da una parte a liberarsi dagli schemi imposti, e dall’altra a fare dell’unione la principale arma per difendere i propri ideali. A Lianozovo, vicino Mosca, un gruppo di pittori non conformisti, tra i quali Kropivickij e Potapova, nonché Oscar Rabin, iniziò a riunire, tutte le domeniche, intellettuali d’ogni tipo per guardare quadri, ascoltare poesie o fare discussioni su argomenti proibiti.

 

Il vero momento di cesura nella vita culturale sovietica fu però un altro, che coincise con l’inaugurazione del monumento a Vladimir Majakovskij, sull’omonima piazza di Mosca, il 19 luglio del 1958. Nel corso della cerimonia i poeti ‘ufficiali’ lessero i loro versi, per poi lasciare spazio a quanti tra il pubblico, composto in prevalenza da giovani, volessero leggere le proprie poesie. La serata poetica improvvisata fu un successo, e si decise di ripetere la lettura delle poesie all’aria aperta con regolarità. Venivano recitati versi propri, così come versi di poeti che erano stati repressi dal regime, fino a spingersi a discussioni sull’arte e sulla letteratura. Piazza Majakovskij divenne il ‘faro’ (majak in russo significa appunto faro): “le letture in piazza Majakovskij”, dice Vladimir Bukovskij, uno dei protagonisti di quelle giornate, “come un faro attiravano e richiamavano tutte le cose migliori e originali che c’erano allora nel Paese. Era proprio quello che tanto a lungo avevamo desiderato”.

 

Tra i protagonisti di piazza Majakovskij ricordiamo, oltre a Bukovskij, Aleksandr Ginzburg, Jurij Galanskov e Vladimir Osipov. Ma era inevitabile che il Partito sarebbe prima o poi intervenuto contro simili manifestazioni, principalmente perché i versi letti dai partecipanti non erano sottoposti a nessuna censura preventiva, ed anche perché si cominciavano a commentare gli avvenimenti politici. Osipov sostiene che le riunioni del ‘faro’ non costituissero affatto una minaccia per la stabilità del sistema’: “non ricordo nessuno che abbia mai manifestato opinioni controrivoluzionarie o conservatrici”, sostiene Osipov, “o che abbia messo in discussione l’Ottobre o il comunismo”.

 

Il fatto che nel cuore di Mosca si svolgesse pubblicamente una discussione da parte di un gruppo di persone, costituiva di per se una minaccia, almeno stando all’interpretazione del PC(b). Certo è che la poesia rimaneva l’elemento centrale nelle giornate di piazza Majakovskij, e tra i numerosi versi che venivano letti, i più significativi ed amati erano quelli del ‘Manifesto umano’ di Jurij Galanskov. Questi, nato nel 1939, era negli anni 1959-61 uno studente universitario, che amava la poesia, e che vedeva in quelle riunioni la possibilità di leggere i propri versi davanti ad un auditorio libero da pregiudizi. Il ‘Manifesto umano’ così  recitava:

 

Uscirò sulla piazza

e conficcherò all’orecchio della città,

un grido disperato.

Non voglio più il vostro pane

impastato di lacrime.

Cado e m’involo,

in un delirio,

in un sogno.

E sento nascere

l’umano

in me.

Ci siamo abituati a vedere

passeggiando lungo le vie,

nei momenti liberi,

dei volti imbrattati dalla vita, proprio come i vostri.

Improvvisamente-

come un rombo di tuono

e come la venuta di Cristo al mondo,

insorse

calpestata e crocifissa

la bellezza umana.

Sono io

che  invito alla verità e alla rivolta,

che non voglio più servire.

Io spezzo le vostre nere catene

tessute di menzogna.

Sono io-

imprigionato dalla legge,

che grido il manifesto umano!

E non importa che il corvo

mi incida sul marmo del corpo

una croce.

 

Le autorità cercarono a più riprese di far cessare questi raduni non autorizzati, e la polizia intervenne ripetutamente trattenendo i partecipanti fermati, verso i quali le punizioni, per il loro atteggiamento anti-sovietico, cominciavano a crescere di intensità e durezza. Il 1961 fu l’anno in cui cessarono le riunioni del ‘faro’, in quanto la polizia riuscì ad impedire ai partecipanti di dare vita ai loro propositi, facendo spesso ricorso alla forza. Bukovskij racconta una giornata dell’aprile del 1961, quando ebbe luogo sulla piazza “un’autentica battaglia. L’atmosfera era incandescente, gli agenti erano pronti in qualsiasi istante a gettarsi su di noi.

 

Quando cominciò a leggere Ščukin, essi gridando si gettarono attraverso la folla verso il monumento. Si accese un combattimento corpo a corpo. Gli agenti le buscarono forte, ma riuscirono tuttavia a cacciare Ščukin e Osipov dentro una macchina della milizia. Al primo diedero 15 giorni per «lettura di versi anti-sovitici», al secondo 10 giorni per «turbamento dell’ordine pubblico e oscenità»”. Un nuovo coraggio, diretta conseguenza della rinnovata consapevolezza dei propri compiti civili, animava i giovani del ‘faro’, consapevolezza che sempre Bukovskij tenta così di descrivere: “Stretto contro il muro, l’uomo riconosce «io sono il popolo, io la nazione». Non può indietreggiare, egli preferisce la morte fisica a quella spirituale”.  Chi decideva di esporsi, lo faceva quindi in modo pienamente consapevole, ed era pronto ad assumersi tutti gli oneri che ciò avrebbe comportato.

 

L’eredità forse più significativa dell’esperienza di piazza Majakovskij fu quella del samizdat. La parola indica letteralmente le auto-edizioni (sam auto, izdat edizione) clandestine, che non erano una novità per la Russia, visto che la tradizione in questo campo risaliva al XVII secolo. La novità del samizdat degli anni ‘60 era invece la sua finalità distributiva, in quanto non era più concepito per rimanere nascosto nelle mani di qualche sapiente custode, bensì per circolare, grazie alla riproduzione manuale, attraverso una sorta di mano a mano.

 

Il samizdat aveva ora la pretesa di diventare un’alternativa alle produzioni ‘ufficiali’, permettendo la circolazione di materiale di vario tipo: lettere, proteste, appelli; poesie; opere letterarie; studi storici, filosofici, religiosi. Attraverso il samizdat venivano così riprodotte opere di autori come Mandel’stam o Pasternak, che erano state messe al bando, di autori come Ivan Bunin (Nobel nel 1933 per la letteratura) che erano emigrati, ed anche di opere straniere vietate dalla censura sovietica di artisti come Orwell o Hemingway. Antipov, un autore del  samizdat, così cerca di spiegare la forza intrinseca del fenomeno: “il libro è più antico della stampa. Occorre raffigurarsi esattamente la sostanziale differenza tra le due conquiste della cultura rappresentate dalla scrittura e dalla stampa. La prima è una grande conquista dell’intelletto umano, la seconda un importante perfezionamento tecnico. Inoltre le pubblicazioni manoscritte hanno la tendenza all’auto-riproduzione: dopo che hanno visto la luce presto raggiungono naturalmente la tiratura ottimale. E la tiratura si rivela pressappoco proporzionale al valore sociale dell’opera”. I rischi, per chi decideva di dedicarsi a questa attività, erano altissimi.

 

La durata di queste pubblicazioni era brevissima, il tempo che occorreva alla polizia a scoprirne gli autori e renderli inoffensivi. Di queste riviste nessuna sarebbe sopravvissuta agli anni ’60, in quanto i firmatari delle stesse vennero scoperti e condannati. Ciò che sarebbe rimasto era la loro volontà di rinascita spirituale, che sarebbe stata d’esempio per le forme più mature del dissenso. Dal 1965 si sviluppò la prima associazione creativa indipendente, la cui sigla ‘SMOG’ può essere letta in vari modi: «La più giovane associazione di geni»; «Audacia, pensiero, forma, profondità»; «Denso istante dell’iperbole riflessa». Tra i suoi fondatori ricordiamo Leonid Gubanov, Vladimir Alejnikov, Jurij Kublanovskij ed Arkadij Pachomov, tutti ragazzi allora poco più che diciottenni.

 

Il 14 aprile del 1965 organizzarono una manifestazione da piazza Majakovskij fino alla sede centrale dell’Unione degli scrittori, inneggiando lo slogan, a mo’ di sfida, «togliamo al ‘realismo socialista’ la sua pretesa verginità!». Gli SMOGisti pubblicavano inoltre una loro rivista del samizdat, ‘Sfinxy’, che era prevalentemente una raccolta di poesie, tra le quali ricordiamo quelle di Yurij Stefanov (‘La discesa agli inferi’), Vladimir Kovšin (‘Oggi è la pentecoste’), Aleksandr Galič (‘Le nubi navigano’), Evgenij Golovin (‘Il canto dei vecchi membri del Partito’), Artemij Michailov (‘Se non sei stato…’), Sergej Morozov (‘Egli verrà un giorno’). Il direttore della rivista era Valerij Tarsis, scrittore tra i primi ad aver inviato le proprie opere all’estero, che sarebbe stato rinchiuso in manicomio nel 1962 per il suo atteggiamento di sfida alle autorità.

 

Gli SMOGisti pubblicarono inoltre, sempre nel 1965, il racconto di Aleksandr Urusov intitolato ‘Il grido delle formiche lontane’. In questo racconto “tutto appare nebuloso, instabile, misterioso, come se l’autore volesse lasciare ai lettori ampio spazio per ogni sorta di illazioni, intuizioni ed interpretazioni”. Infatti il soggetto della narrazione, due prigionieri evasi da un lager dei quali uno, ferito, viene abbandonato dal proprio compagno di fuga e verrà poi riacciuffato dalle autorità, sembra soltanto un “pallido contorno” della volontà che animava l’autore durante la scrittura dello stesso, ossia la “ricerca di una ‘collaborazione letteraria’ attiva del lettore”.

 

In un articolo, intitolato ‘Noi, lo SMOG’, gli SMOGisti spiegavano quelle che consideravano le proprie finalità: “finalmente noi siamo riusciti a parlare di noi stessi a piena voce, sono mesi che la Russia ci guarda, si aspetta qualcosa da noi. Noi – poeti e pittori, scrittori e scultori – facciamo rinascere e continuare la tradizione della nostra arte immortale. Rublev, Dostoëvskij, Cvetaeva, Pasternak, Tarsis, sono penetrati nelle nostre vene come sangue fresco. Noi ci appelliamo al mondo libero che si è già espresso varie volte a riguardo dell’arte russa. Aiutateci, non lasciate schiacciare i giovani germogli dal ruvido stivale. Sappiate che noi esistiamo. Noi, lo SMOG. Russia, XX° secolo”.

 

Il loro grido di ‘formiche lontane’ non sarebbe bastato a salvarli dall’implacabile repressione: gli SMOGisti subirono condanne al lager o alla cura psichiatrica per la loro condotta anti-sovietica e per parassitismo, che avrebbero messo a tacere la loro e genialità.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

La nuova Europa. Rivista internazionale di cultura, Bergamo, La casa di Matriona, luglio 2002

(Bukovskij - Galanskov – Ginzburg, Osipov, Sinjavskij, et al., ‘La primavera di Mosca. Le riviste dattiloscritte sovietiche degli anni ’60: prosa, poesia, impegno civile agli inizi del dissenso’, Milano, Jaca Book, 1979)

 

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