N. 99 - Marzo 2016
(CXXX)
PASSEGGIANDO LUNGO L'APPIA ANTICA
TRA STORIA E SUPERSTIZIONE
di
Raffaella
Di Vincenzo
«Stanno
nel
grigio
verno
pur
d’edra
e di
lauro
vestite
Ne
L’Appia
trista
le
ruinose
tombe.
Passan
pel
ciel
turchino
Che
stilla
ancor
da
la
pioggia
Avanti
al
sole
lucide
nubi
bianche.
Egle,
levato
il
capo
vér
quella
serena
promessa
Di
primavera,
guarda
le
nubi
e il
sole.
Guarda;
e
innanzi
a la
bella
sua
fronte
Più
ancora
che
al
sole
Ridon
le
nubi
sopra
le
tombe
antiche».
(G.
Carducci,
Odi
Barbare)
Avventurandosi
nella
zona
dell’odierna
via
Appia
Antica,
appena
fuori
dalla
porta
detta
di
San
Sebastiano
a
Roma,
si
possono
ancora
ammirare,
pressoché
intatti,
una
serie
di
sepolcri
diversi
per
tipologia,
struttura
e
dimensioni.
Questo
genere
di
panorama
che
desta
ancora
oggi
inquietudine
e
rispetto,
doveva
sembrare
ancor
più
austero
e
misterioso
nei
secoli
passati.
È
storicamente
noto
come
l’Italia
e in
particolare
Roma
fosse
stata
per
lungo
tempo
luogo
di
ferventi
pellegrinaggi;
cristiani
di
tutta
Europa
vi
confluivano
per
visitare
i
luoghi
sacri
e
schiere
di
scolari
varcavano
le
Alpi
per
studiare
negli
atenei
di
Bologna,
Padova
o
Pavia.
Ben
presto
non
saranno
più
motivazioni
eminentemente
religiose
o
accademiche
a
spingere
gli
europei
a
percorrere
la
penisola;
nel
1559
grazie
anche
al
trattato
di
Cateau-Cambrésis,
l’Italia
si
preparò
a
diventare
lo
spazio
privilegiato
di
viaggi
di
formazione
laici
ed
eruditi.
Il
Grand
Tour
(locuzione
francese
che
venne
usata
per
la
prima
volta
nel
1636
per
il
viaggio
in
Francia
di
Lord
Granborne
e
che
da
allora,
sino
alla
fine
del
1700,
designò
il
viaggio
di
formazione
intrapreso
dal
fior
fiore
dell’aristocrazia
e
dell’intellighenzia
europea,
attraverso
l’Italia)
è un
viaggio
nel
Bel
Paese
che
si
configura
come
una
piramide
rovesciata
che
culmina
a
Napoli
e la
cui
spina
dorsale
è
costituita
dalla
direttrice
Firenze-Roma-Napoli.
Arrivando
da
ovest,
i
francesi
e
gli
inglesi
generalmente
raggiungevano
Firenze
passando
da
Genova,
Livorno
e
Pisa,
oppure
da
Milano
e
Bologna
e si
fermavano
a
Venezia
alla
fine
del
periplo.
I
tedeschi
invece,
entrando
in
Italia
più
a
Est,
iniziavano
l’itinerario
visitando
Verona,
Padova
e
Venezia.
La
via
del
ritorno
conduceva
da
Napoli
di
nuovo
a
Roma,
dove
pertanto
la
stragrande
maggioranza
dei
viaggiatori
soggiornava
due
volte.
Da
Roma
si
può
infatti
risalire
verso
Firenze,
oppure
biforcare
verso
Loreto
e
risalire
lo
stivale
lungo
la
costa
adriatica.
Roma
era
dunque
centro
e
fulcro
«unica
città
comune
e
universale»,
«capitale
del
mondo»
ma
anche
città
d’oltretomba
e
quindi
scenario
privilegiato
di
rêveries
sia
classiche
che
romantiche,
un
viaggio
taumaturgico
e
terapeutico
quasi
ancestrale.
L’eccezionale
rilevanza
di
Roma
nel
Grand
Tour
è
esito
del
sovrapporsi
e
del
mescolarsi
di
molti
fattori:
la
riscoperta
dell’antico,
la
presenza
delle
reliquie
della
cristianità,
la
fioritura
umanistica
e la
tradizione
rinascimentale,
la
rilevanza
straordinaria
della
città
moderna
che
viene
trasformata
in
un
grande
e
permanente
cantiere
a
partire
almeno
dalla
seconda
metà
del
Quattrocento,
fino
all’esplosione
della
civiltà
barocca.
A
Roma
si
soggiorna
più
a
lungo
per
ammirazione,
per
moda,
per
tradizione,
per
cultura;
a
Roma
si
intersecano
tutte
le
tradizioni
antiche,
tutte
le
strade
antiche,
tutte
le
leggende
e le
voci
dell’eternità.
In
questo
clima
si
manifesta,
per
la
prima
volta,
la
necessità
di
visitare
luoghi
impervi,
silenziosi,
vicini
all’anima
e al
silenzio;
luoghi
abitati
da
voci
sconosciute
che
appartengono
al
passato.
Uno
dei
luoghi
più
amati
dagli
artisti
stranieri
e in
particolare
da
pittori
e
poeti
è
proprio
il
tratto
della
via
Appia
appena
fuori
dalle
mura
di
Roma:
questo
è un
luogo
di
silenzio,
poco
battuto,
pericoloso
e
impervio,
solitario
e
misterioso.
L’usanza
delle
sepolture
lungo
la
principale
delle
vie
consolari
fu
iniziata
da
Appio
Claudio
il
censore
che
nel
312
a.C.
aprì
il
primo
tratto
della
strada
che
prese
il
nome
proprio
da
lui.
Egli
volle
essere
sepolto
ai
margini
della
sua
strada
e da
qui
la
moda
delle
sepolture,
in
gran
parte
aristocratiche,
che
presero
ad
affollare
proprio
questo
stesso
tratto;
una
serie
di
iscrizioni
dal
tono
poetico
e
trasognante
contribuirono
ulteriormente
a
dare
quell’alone
di
sostanziale
solennità
e di
sospensione
fra
vita
e
morte
che
tanta
fortuna
ebbe
sin
dall’antichità:
«Viandante,
se
non
ti
reca
disturbo,
fermati
e
leggi.
Io
spesso
ho
attraversato
il
mare
su
navi
a
vela
e mi
sono
recato
in
molti
paesi
lontani,
ma
questa
è la
mia
ultima
tappa
in
questo
luogo
io
ho
deposto
tutti
i
miei
interessi
e i
miei
affanni,
non
temo
più
le
stelle,
le
burrasche
e il
mare
infido,
né
temo
più
di
non
poter
giungere
a
guadagnare
più
di
quanto
spendevo.
Viandante
vivi
e
stai
sano,
possa
tu
sempre
non
avere
problemi
economici
perché
non
hai
disprezzato
questa
pietra
e
l’hai
ritenuta
degna
d’esser
letta».
E fu
proprio
questa
sensazione
di
essere
sospesi
senza
tempo
né
luogo,
che
ancor
oggi
caratterizza
ogni
passeggiata
sulla
regina
viarium
da
porta
s.
Sebastiano
fino,
almeno,
alla
Villa
dei
Quintili,
che
portò
alla
nascita
di
una
serie
di
superstizioni:
molto
famose
sono
le
allucinazioni
uditive
delle
quali,
a
tutto
dire,
furono
protagonisti
gli
operai
del
celebre
archeologo
Giovanni
Battista
de
Rossi
durante
gli
scavi
eseguiti
per
riportare
alla
luce
le
catacombe
di
S.
Callisto.
Bisogna
immaginare
cosa
dovesse
significare
cominciare
a
esplorare
questi
luoghi
sotterranei
nella
seconda
metà
del
1800;
il
nostro
archeologo,
dopo
aver
setacciato
gran
parte
delle
biblioteche
europee,
si
convinse
di
aver
trovato
il
luogo
dove
poter
scovare
il
sepolcro
di
papa
Cornelio
e,
intorno
a
questo
sepolcro
secondo
le
fonti
antiche,
si
doveva
trovare
«la
grande
città
sotterranea
dei
morti».
I
suoi
fedeli
scavatori
erano
un
manipolo
di
braccianti
locali
che
cominciarono
a
sondare
il
terreno
seguendo
le
indicazioni
dello
studioso
che,
dopo
pochi
giorni,
si
trovò
di
fronte
alcuni
frammenti
di
marmo
con
iscrizioni
che
servivano
da
basamento
di
poveri
cascinali
di
contadini
riuscendo
a
interpretarli
come
il
primo
grande
cimitero
dei
cristiani
nella
Roma
imperiale.
Le
cronache
dell’epoca
descrivono
l’immenso
stupore
e la
paura
dei
primi
scavatori
quando
si
resero
conto
dell’enorme
labirinto
che
si
dipanava
di
fronte
ai
loro
occhi
e
nel
quale,
fra
l’altro,
era
molto
facile
perdersi.
Durante
le
indagini
si
rese
necessario
utilizzare
delle
corde
che
venivano
legate
alla
vita
degli
scavatori,
per
essere
sicuri
di
poterli
far
tornare
in
superficie
una
volta
terminata
la
discesa
nei
cunicoli.
A
partire
da
allora
le
catacombe
di
Roma
hanno
raccolto
tutta
una
serie
di
testimonianze
popolari
sulla
presenza
di
spiriti
risvegliati
proprio
dal
rumore
di
questi
braccianti.
Essi
si
sarebbero
manifestati
nel
buio
delle
catacombe
illuminati
dal
chiarore
delle
torce
e
disturbati
dai
rumori
degli
scavi
prima
e
dei
visitatori
in
un
secondo
momento.
Numerose
sono
ancora
oggi
le
testimonianze
di
chi
crede
di
sentire
delle
voci
provenire
dal
profondo
della
terra;
è lo
stesso
mormorio
che
si
ascolta,
secondo
alcuni,
come
un
lamentoso
sottofondo,
quando
si
percorrono
alcuni
dei
corridoi
più
angusti
di
questi
sepolcreti,
mormorio
che
potrebbe
essere
facilmente
spiegato
con
il
passaggio
dell’aria
all’interno
dei
cunicoli.
Questo
semplice
racconto
è
testimonianza
di
come
le
oscure
presenze
che
gli
uomini
tendono
ad
avvertire
nelle
vicinanze
dei
cimiteri
affascinino
e
divertano,
siano
esse
frutto
della
pura
immaginazione
o di
una
naturale
nostalgia
dell’infinito.
Riferimenti
bibliografici:
Costadura,
E.,
Il
Grand
Tour
da
Montaigne
a
Heine,
Milano,
2014.
De
Seta,
C.,
L’Italia
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RSC
Libri,
Milano,
2014.
Falconi,
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Newton
Compton
editori,
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2016.
Colaiacomo,
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Newton
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editori,
Roma,
2013.
Carducci,
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Barbare,
Zanicchelli
editore,
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1880.