N. 8 - Gennaio 2006
NUCLEARE
E RUOLO DEGLI USA IN MEDIO ORIENTE
E'
ancora possibile evitare il fallimento del trattato di
non proliferazione nucleare?
di Leila
Tavi
Delle recenti
esternazioni del nuovo presidente iraniano Mahmoud
Ahmadinejad, eletto a sorpresa nel giugno scorso,
ex militante della Guardia Rivoluzionaria, nei
confronti dello Stato di Israele e della possibilità
che l’Iran, dietro il pretesto di una centrale
atomica, stia invece costruendo un arsenale nucleare a
scopo bellico la stampa italiana ed estera hanno
versato fiumi di inchiostro; quello di cui non si è
sufficientemente parlato è invece come proprio la
crisi petrolifera e il gap di credibilità
che gli Stati Uniti stanno subendo in Medio Oriente, a
causa dell’incapacità di condurre una politica
coerente e lungimirante post 11 settembre e
dell’ambiguità con cui Israele gestisce il proprio
arsenale nucleare, stanno portando molti paesi arabi a
riconsiderare un possibile riarmo come unica via per
la sicurezza interna.
Le conseguenze come è
prevedibile sarebbero gravi; per l’intera comunità
internazionale ciò significherebbe il fallimento della
politica di disarmo e di non proliferazione del
nucleare a scopo bellico e il ritorno a una corsa agli
armamenti come durante la Guerra Fredda.
Non a caso Mohamed
ElBaradei, direttore generale della IAEA,
l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, è
stato nominato Premio Nobel per la pace 2005 e,
nonostante il lungo periodo in cui gli osservatori
francesi, inglesi e tedeschi hanno monitorato i lavori
per la costruzione della centrale nucleare iraniana,
le sanzioni all’Iran sono arrivate proprio all’inizio
di novembre. L’Occidente sente sfuggirsi la situazione
di mano e la questione iraniana è il terreno in cui
gli interessi economici degli Stati Uniti si stanno
scontrando con quelli dell’Europa, che da anni ha
ottimi rapporti economici con l’Iran, secondo
produttore in Medio Oriente dopo l’Arabia Saudita di
petrolio. La crisi iraniana è il segno tangibile
dell’incoerenza e della schizofrenia dei recenti
rapporti transatlantici che soffrono, è vero, della
crisi energetica d’inizio secolo e della scalata a
potenza mondiale concorrente degli USA della Cina, ma
anche delle avventate reazioni e degli errori tattici
degli Americani a livello internazionale dalla fine
della Guerra Fredda ad oggi, nel periodo in cui gli
Stati Uniti sono stati incontrastati sovrani della
politica mondiale.
Le dichiarazioni di
Ahmadinejad del 26 ottobre, davanti a un gruppo di
studenti universitari in occasione di una conferenza
intitolata “Un mondo senza sionismo”, con cui
il presidente iraniano ha affermato che lo Stato di
Israele dovrebbe essere cancellato dalla mappa del
mondo. Uno slogan usato dall’Ayatollah Ruhollah
Khomeini prima della sua morte nel 1989 e condiviso
dagli ultraconservatori, dai militari, dalle
fondazioni religiose, che influenzano la politica e
l’economia del paese, dalla destra populista. Il
presidente iraniano ha pronunciato parole di disprezzo
per Israele nell’ultimo venerdì del Ramadan
chiamato la giornata di al-Quds, la
giornata di Gerusalemme.
Durante una conferenza
stampa a La Mecca l’8 dicembre scorso, in occasione
del summit dell’Organizzazione della conferenza
islamica (OCI), Israele è stato descritto come un “tumore”.
Le dichiarazioni di
Ahdmadinejad sono state successivamente montate dalla
stampa internazionale che le ha trasformate in un
“caso”.
La recente Costituzione
irachena e le pressioni degli Stati Uniti alla Siria
hanno cambiato il corso della politica estera
iraniana. Al tentativo di apertura alla Russia, alla
Cina e all’Unione europea di Kathami, il presidente
uscente, Ahmadinejad sostituisce una politica
all’insegna dell’isolamento.
La dichiarata
opposizione a Israele è un punto saldo della nuova
fragile politica estera iraniana, che ha come unico
scopo uno di politica interna: quello di coalizzare e
rafforzare le forze estremiste e conservatrici del
paese che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare
in Occidente, sono una minoranza tra gli Iraniani.
Mahmood Sariolghalam,
professore associato all’Università statale di
Relazioni internazionali di Teheran e Direttore del
Center for Scientific Research and Middle East
Strategic Studies di Teheran ha tenuto il 7 novembre
scorso alla John Cabot University di Roma un seminario
dal titolo The Iranian geopolitical perception
after the war in Iraq in cui ha dichiarato che
il deteriorarsi dei rapporti tra l’Iran e gli Stati
Uniti dopo l’11 settembre è certamente dovuto alla
discrepanza tra quello che l’attuale leadership
iraniana sta attuando e quello che una qualsiasi
amministrazione statunitense, sia essa democratica che
repubblicana, potrebbe e vorrebbe aspettarsi adesso da
un paese mediorientale.
Il modo in cui gli Stati
Uniti hanno gestito l’Iraq subito dopo la caduta del
regime di Saddam Hussein da una parte e la non
accettazione da parte della nuova leadership iraniana
della soluzione dei due stati per la questione
palestinese hanno incrinato in modo irreversibile i
rapporti tra i due stati. Dopo l’11 settembre
Washington ha incluso tra i paesi considerati l’ “asse
del male” anche l’Iran, nonostante non abbia
attivamente partecipato agli attentati di New York e
del Pentagono. Il governo iraniano vede invece gruppi
come Hamas non come gruppi di terroristi, ma di
coloro che lottano per una causa giusta a qualsiasi
costo e vede Tel Aviv ancora come una spina nel cuore
del Medio Oriente, diffidando dell’attuale politica
israeliana di apertura nei confronti dei Palestinesi.
Per comprendere
l’ostilità degli Iraniani nei confronti degli Stati
Uniti dobbiamo tornare indietro nel tempo fino al 13
agosto 1953, quando con un colpo di stato venne
rimosso il primo ministro Muhammad Mossadegh,
democraticamente eletto, per riportare al potere il
regime di Muhammad Reza Shah Pahlavi,
che governava il paese dal 1925 (l’amministrazione
Eisenhower decise di partecipare al putsch organizzato
dai servizi segreti inglesi). Una certa indipendenza
dagli Stati Uniti era garantita allo Shah dallo
sfruttamento del petrolio, cosicché agli Americani non
fu possibile “plasmare” la società iraniana sulla base
di un modello che potremmo definire pseudo-democratico.
Con il 1979, anno della
costituzione della Repubblica Islamica in Iran a
seguito della caduta del regime dello Shah, le
amministrazioni americane che si sono succedute hanno
più o meno applicato il principio della
Realpolitik con lo stato iraniano, ma a
seguito della guerra in Iraq i due stati si trovano
sull’orlo della rottura diplomatica.
L’ostilità nei confronti
degli Stati Uniti e la ferma opposizione a qualsiasi
forma di dialogo con Israele, sono dei punti fermi
nella nuova politica estera iraniana sotto l’egida di
Ahmadinejad.
Perché un paese che
potrebbe scegliere la via più facile dell’apertura
all’Occidente per sviluppare un’efficace politica
economica si vuole trincerare dietro a dei baluardi
ideologici invece di sfruttare a suo vantaggio la
vantaggiosa posizione che deriverebbe al paese dalla
recente crisi petrolifera? Naturalmente la religione
islamica gioca un ruolo fondamentale. Gli Sciiti
secondo il prof. Sariolghalam rifiutano una gerarchia
nazionale basata su rapporti economico-istituzionali e
hanno una concezione della società basata su una
gerarchia puramente di tipo etico-spirituale. Il
timore però in qualche modo di finire sotto il giogo
americano ossessiona l’Iran sin dal 1979.
La deposizione di Saddam
in Iraq avrebbe potuto incontrare il favore dell’Iran,
ma la cattiva gestione del dopoguerra da parte degli
Stati Uniti e la volontà da parte del governo
americano di non intraprendere nessun dialogo con
l’Iran dalla fine della guerra in Iraq hanno
contribuito ad accrescere il timore in Iran di
possibili attacchi da parte degli Stati Uniti o di
Israele. Le manifestazioni di protesta anti-americane
si ripetono sempre più frequentemente non solo in
Iran, ma anche in altri stati del Medio Oriente, dove
in passato i rapporti con Washington sono stati
all’insegna della collaborazione e della distensione.
In più dobbiamo
considerare che a differenza dell’Iraq sotto Saddam,
dove mancava qualsiasi forma di stratificazione
sociale con circa 56 individui a detenere il potere e
le masse alla base, la società iraniana presenta delle
classi intermedie e può essere definita dinamica con i
suoi due milioni di amministratori e di manager che
fanno funzionare, come dice Sariolghalam, la “macchina
di stato”. Si tratta della società più dinamica e
giovane in assoluto tra quelle degli stati in via di
sviluppo. A testimonianza di ciò citiamo il
documentario di Abbas Kiarostami del 2002,
Ten, in cui si racconta la storia della taxista
Mania Akbari, separata, con un figlio e un convivente.
Durante i tragitti per le vie di Teheran di giorno e
di notte Mania si confronta con i suoi clienti,
soprattutto con le altre donne mettendo in discussione
i dogmi della religione islamica.
Nonostante la sua
dinamicità la società iraniana non può essere
considerata una società democratica, perché mancano in
Iran un movimento democratico e un adeguato sistema
partitico. Dal punto di vista economico tentativi di
migliorare l’economia iraniana sono stati intrapresi
in passato sotto Muhammad Khatami e Akbar Hashemi
Rafsanjani, ma i gravi problemi strutturali non
permetterebbero a nessun governo nel breve periodo di
operare un miracolo economico.
La nuova leadership
iraniana cerca a fatica di riportare in auge
nell’immaginario collettivo degli Iraniani un’idea di
stato-nazione che si è andato via via disgregando dal
1979 per lasciare posto a una miriade di clan
politici. Il processo è lento e frustrante, ma sta
ottenendo imprevedibilmente dei risultati sia a
livello nazionale che internazionale. Non bisogna
neanche sottovalutare che i riformisti iraniani, così
come i conservatori dell’attuale regime, sono stati
formati durante il regime dello Shah senza poter
sperimentare le regole di una sana competizione
politica e interiorizzando il concetto che la cultura
politica è basata sul favoritismo e sul
patrimonialismo.
Ogni discorso pubblico
di Ahmadinejad è rivolto alla umma, all’intera
comunità islamica; il non avere rilasciato
dichiarazione da parte dei molti dei paesi musulmani e
arabi riguardo alle esternazioni contro Israele del
presidente iraniano potrebbe essere considerato come
un silenzio assenso.
Se l’Iran uscisse
vittoriosa dal braccio di ferro con gli Stati Uniti
sul nucleare potremmo prevedere che gli equilibri
politico-strategici nella regione verrebbero alterati
a svantaggio naturalmente degli Americani. Ciò avrebbe
però un’altra grave conseguenza: la fine del
Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) e
quindi il fallimento per l’Europa e per gli Stati
Uniti di una politica coerente riguardo al nucleare.
Neanche le recenti sanzioni comminate all’Iran possono
ormai fermare l’avventurismo nucleare che paesi
come l’Iran, il Pakistan, la Corea del Nord hanno
intrapreso.
L’atteggiamento
dell’Occidente nei confronti del nucleare in Iran ha
sortito l’effetto di trasformare quello che era il
tallone d’Achille del regime iraniano, la mancanza di
democrazia, nel punto di forza. Abbas Milani sostiene
che gli Stati Uniti dovrebbero cercare di
destabilizzare il governo iraniano senza dictat
imposti attraverso le organizzazioni internazionali,
ma piuttosto rafforzando le forze democratiche
all’interno del paese. Siamo invece del parere che
nella situazione attuale gli Stati Uniti non sono in
grado di esportare la democrazia in Medio Oriente (v.
il caso iracheno), anzi qualsiasi tentativo del genere
non farebbe che rendere più acerrimi i rapporti tra
gli USA e i paesi arabi, adesso che gli Americani
hanno perso credibilità nella regione. Siamo invece
d’accordo con A. Milani quando sostiene che solo in
una democrazia è possibile instaurare un serio e
costruttivo dialogo circa i vantaggi e gli svantaggi
di optare per il nucleare e soprattutto quando
sostiene che in un regime democratico ci sono meno
probabilità che i terroristi abbiano accesso agli
arsenali nucleari.
Quali sono ancora le
ragioni che hanno portato al potere Ahmadinejad?
Perché il paese si è distanziato dal corso inaugurato
da Khatami, soprannominato al momento della sua
elezione nel 1997 dalla stampa occidentale il
Gorbačëv iraniano? Gli errori in politica di
Kathami, soprattutto l’avere sottovalutato
l’opposizione religiosa degli ambienti radicali, che
ne ha fatto agli occhi del popolo iraniano un politico
debole e incapace di portare a termine le riforme
promesse in campagna elettorale, così come la
corruzione e gli scandali economici degli ultimi anni,
il prezzo del petrolio a barile che ha raggiunto i
64$, la disoccupazione tra i giovani che ha raggiunto
il 30% hanno influenzato in tal modo gli Iraniani da
farli optare per un ritorno al sistema del
patronage.
La nuova dirigenza di
Teheran sta sfruttando a suo vantaggio l’ambiguità con
cui Francia, Gran Bretagna e Germania stanno gestendo
la questione del nucleare iraniano. Gli
ultraconservatori di Ahmadinejad sanno che gli
interessi americani ed europei divergono quando si
parla di Medio Oriente. Paesi come la Francia, la
Germania e l’Italia hanno instaurato rapporti
economici con la Repubblica Islamica Iraniana sin dal
1979 e considerano oggi l’Iran come l’ultima
possibilità di mantenere dei rapporti economici con un
paese arabo in posizione di superiorità senza dover
subire a loro volta l’influsso degli Stati Uniti. E
per ottenere questo stanno tenendo una linea morbida
con il governo di Teheran. Secondo A. Milani gli
Europei hanno giocato ad essere i poliziotti buoni
offrendo incentivi all’Iran, mentre gli Stati Uniti
hanno fatto la parte dei poliziotti cattivi
minacciando l’Iran in caso di un fallimento
dell’accordo con gli Europei. L’Iran ha approfittato
di questa indecisione e l’ha interpretata come un
segno di debolezza da parte dell’Occidente.
Un recente rapporto
dell’ONU ha messo in guardia sul fatto che “stiamo
arrivando a un punto in cui l’erosione del
regime della non proliferazione diventerà
irreversibile e terminerà con il lasciare il posto
alla proliferazione” e l’esempio iraniano
potrebbe aprire la strada ad altri paesi arabi.
La perdita di
credibilità da parte degli Stati Uniti in Medio
Oriente può essere imputata oltre che alla cattiva
gestione delle guerre afgana e irachena anche al
fallimento nella regione mediorientale della politica
della deterrence.
Sotto la pressione di
una minaccia nucleare iraniana l’Arabia Saudita e
l’Egitto potrebbero decidere che le garanzie offerte
dagli USA per la sicurezza non sono sufficienti in
caso di un attacco iraniano e quindi potrebbero optare
per la costituzione di un proprio arsenale. La
politica della deterrence americana non
può più funzionare in Medio Oriente non tanto per un
insufficiente schieramento di forze, piuttosto perché
è risultato dei fragili rapporti in questo momento tra
gli Stati Uniti e i loro alleati mediorientali.
Satelliti spia americani
osservano dal 2002 in Iran il sito di Natanz
nel tentativo di trovare qualsiasi prova della
produzione di materiale fissile a scopo bellico; le
armi convenzionali in possesso dell’Iran sono in
numero nettamente inferiore rispetto all’arsenale
americano ma decisamente superiore rispetto a quello
di altri stati nella regione.
L’arsenale nucleare
detenuto da Israele complica ulteriormente le cose,
soprattutto se in Arabia Saudita il Wahhabitismo,
con la sua dottrina anti-sionista, diverrà una pratica
diffusa e considerati i critici rapporti diplomatici
tra Egitto e Israele. Il comportamento ambiguo di
Israele riguardo al nucleare ha vanificato tutti gli
sforzi, sostenuti in larga parte dall’Arabia Saudita e
l’Egitto, per fare del Medio Oriente una regione senza
armi nucleari. L’emergenza del nucleare in Iran
potrebbe spingere Israele a dichiarare ufficialmente
di quali e quante armi nucleari dispone, ciò
peggiorerebbe ancora di più gli già incrinati rapporti
tra Israele e gli stati vicini.
Ma l’errore più grande
nella gestione della crisi iraniana da parte
dell’Occidente è di tenere lontani dal tavolo delle
trattative gli altri paesi arabi, mentre Ahmadinejad
quando parla si rivolge all’intera comunità musulmana.
L’Iran sta dimostrando a tutti i musulmani arabi che
frapporsi agli interessi degli Stati Uniti in Medio
Oriente oggi è possibile, che adesso è il momento
delle rivendicazioni, che bisogna sfruttare questo
momento di debolezza degli Americani per alzare la
testa. Comunque finirà questo braccio di forza tra gli
USA e l’Iran avrà aperto una breccia in quella che
sembrava essere l’indistruttibile barriera degli
interessi economici americani in Medio Oriente. In
risposta l’Occidente continua a voler risolvere la
crisi con soluzioni superate e inadatte.
Abdel Salam dell’Al Ahram Center
for Political and Strategic Studies del Cairo scrive:
“No one has made a statement on where they stand on
the Iran crisis. No
Arab officials are holding talks in Teheran, although
major European countries have sent emissaries to the
Iranians. No Arab officials are in Washington to
discuss the ramifications of the situation. In a
nutshell, no policy exists.
Riferimenti bibliografici:
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