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> Diritti umani e civili

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N. 1 - Giugno 2005

IL PROCESSO SINJAVSKIJ-DANIEL'

 Nascita del dissenso in Unione Sovietica

di Stefano De Luca

 

STABILITA’ O RIFORMA? - Il 13 ottobre 1964 il Primo Segretario del PCUS Nikita Chruščëv, chiamato a riunione di fronte al Presidium, venne “liberato dai suoi obblighi di Primo Segretario, a causa dell’età avanzata e del suo stato di salute”. Si trattava di un siluramento sì improvviso, ma non inaspettato, frutto della vittoria della frangia neo-stalinista in seno al Partito. Chruščëv pagava la sua condotta politica sempre in bilico tra riforma e stabilità, fluttuante a seconda di dove i suoi calcoli politici lo conducessero, e per questo tale da scontentare prima o poi tutti.

Non si può affermare che la coerenza sia stata un elemento caratterizzante la sua azione politica, anche se gli vanno riconosciuti i meriti di aver rotto il muro del silenzio sui crimini di Stalin nel corso del XX Congresso del PCUS del 1956 (durante il quale diede lettura segreta del famoso Rapporto che dava inizio alla de-stalinizzazione) e poi del XXII Congresso del 1961 (a seguito del quale venne compiuto il gesto, più che simbolico, della rimozione del corpo di Stalin dal Mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa), seppur con finalità in cuor suo diverse da quelle che avrebbe poi effettivamente generato.

E fu proprio il timore del cambiamento che spinse la classe politica e burocratica a preferire una condotta più rigida, e per questo a loro avviso più rassicurante, per la stabilità del sistema.

 

IL ‘RIGELO’ E L’EMERGERE DEL DISSENSO - La caratteristica principale della nuova direzione di Leonjd Brežnev fu la stabilità politica che, associata ad una rinnovata intransigenza ideologica, produsse una stabilizzazione delle élites, ed un sempre più marcato conservatorismo sociale.

In questa società sempre più intollerante verso ogni sorta di anticonformismo, il movimento del ‘dissenso’ era ormai pronto a vedere la luce.

 

L’8 settembre del 1965, mentre era a passeggio per le vie di Mosca, lo scrittore Andrejj Sinjavskij venne arrestato da due agenti della polizia politica. Sinjavskij, moscovita, nato nel 1925, si era laureato in filosofia ed era diventato libero docente di Letteratura, membro dell’Unione degli scrittori sovietici.

Il 12 dello stesso mese fu la volta di Julij Daniel’, noto traduttore di opere straniere arrestato, al pari di Sinjavskij, per aver pubblicato all’estero sotto pseudonimo le proprie opere, considerate di carattere anti-sovietico.

In settembre i circoli letterari di Mosca seppero del duplice arresto, mentre in Occidente tale notizia venne diffusa nel mese di ottobre dal Segretario della Comunità europea degli scrittori Vigorelli. Le autorità sovietiche decisero di adottare verso i due scrittori una condotta intransigente, che fosse d’esempio per tutti.

 

A metà ottobre del 1965 giunse la notizia che lo scrittore sovietico Michail Šolochov aveva vinto il premio Nobel per la Letteratura e questa circostanza rappresentò suo malgrado un punto a favore della letteratura sovietica ‘ufficiale’ che, avendo raggiunto il massimo riconoscimento, acquisì nuovi e più qualificanti elementi da opporre alla letteratura clandestina del samizdat (ossia auto-prodotta).

Šolochov aveva cominciato la propria attività letteraria nel 1923 all’interno delle istituzioni komsomoliane, e nel 1926 aveva terminato la sua prima opera, I racconti del Don, base per il più maturo romanzo Il placido Don, epopea della vita dei Cosacchi durante la prima guerra mondiale e la guerra civile. Šolochov era, a metà degli anni Sessanta, tra le personalità più autorevoli della letteratura e della pubblicistica politica sovietiche. In virtù della sua fama, e del riconoscimento del premio Nobel, divenne il destinatario di numerosi appelli giunti tanto dall’estero quanto dall’interno del Paese, nei quali veniva invitato ad adoperare la propria influenza a difesa dei due scrittori arrestati.

 

La posizione di Šolochov era difficile perché stretta tra gli appelli dell’opinione pubblica occidentale da una parte, e dalle pressioni delle autorità sovietiche dall’altra.

Nel solo mese di dicembre del 1965 ricevette gli appelli di intellettuali dell’America Latina, italiani, francesi e giapponesi, nonché indiani, tutti accomunati dalla richiesta di un suo intervento diretto nella vicenda Daniel’ - Sinjavskij.

 

Nel mese di dicembre 1965 cominciò ad essere diffuso, negli ambienti universitari moscoviti, un «Appello ai cittadini» nel quale si chiedeva la pubblicità del processo per Sinjavskij e Daniel’. L’«Appello» conteneva l’invito all’azione diretta, in quanto “è più facile rinunciare ad un giorno di tranquillità, piuttosto che sopportare per anni le conseguenze dell’arbitrio cui non ci si è opposti per tempo”.

La forma scelta per ottenere visibilità fu quella del comizio pubblico, e l’invito era fissato per il 5 dicembre alle ore diciotto “nel giardinetto pubblico di Piazza Puškin, presso il monumento del poeta”. Alla manifestazione del 5 dicembre 1965, nel centro di Mosca, parteciparono circa duecento ragazzi, in prevalenza studenti. Piazza Puškin può essere considerata la prima tappa dello sviluppo di un movimento di difesa dei diritti civili in Unione Sovietica.

L’esito immediato della manifestazione fu di circa venti arresti, una decina di espulsioni dall’Università e, cosa assolutamente aberrante, l’internamento in clinica psichiatrica dei poeti Julia Visnevskaja, sedicenne prelevata dalla polizia direttamente a scuola, Leonid Gubanov, diciannovenne, e di Vladimir Bukovskij.

 

Nonostante questo fermento Šolochov, durante la conferenza stampa seguita alla premiazione, non condannò l’arresto di Daniel’ e Sinjavskij , in quanto sosteneva che uno scrittore sovietico “non deve cercare popolarità pubblicando all’estero”, bensì deve essere in grado di “guardare onestamente negli occhi le proprie autorità”.

Cominciò allora a circolare un nuovo appello nelle Università, questa volta firmato dal gruppo «Opposizione», nel quale si può cogliere tutta l’amarezza e la rabbia che la posizione di Šolochov aveva generato negli ambienti intellettuali sovietici. Nell’appello il gruppo «Opposizione» si chiedeva perché il Nobel fosse stato assegnato, per giunta proprio in quel momento, ad “un uomo che ha la mentalità di un moralista da brigata propagandistica ufficiosa e che allo stesso tempo è capace di guardare «onestamente», attraverso occhiali rosati, negli occhi inumani degli usurpatori”.

L’appello, che tra l’altro citava le parole di Palmiro Togliatti contenute nel suo Memoriale, terminava con l’invito alla vigilanza e all’opposizione, per non cedere nuovamente di fronte alle prevaricazioni del regime.

 

PROCESSO ‘A PORTE CHIUSE’ - Nel mese di gennaio del 1966, la stampa sovietica cominciò ad attaccare i due scrittori, ed un pubblico più ampio poté così venire a conoscenza dell’esistenza del caso Sinjavskij – Daniel’. Dal 10 al 14 febbraio 1966 si svolse, in una piccola aula del Tribunale provinciale di Mosca (anche se in realtà a giudicare fu il Tribunale supremo, il cui verdetto era inappellabile), alla presenza di un pubblico ‘selezionato’, il processo ai due scrittori.

L’art. 111 della Costituzione sovietica parlava di glasnost’ (pubblicità) delle udienze processuali, affermando che queste “sono pubbliche in ogni tribunale, esclusi i casi per i quali è previsto il segreto di Stato”. Ciò che avevano chiesto i manifestanti del 5 dicembre in piazza Puškin, era semplicemente il rispetto di questa norma durante il processo ai due scrittori arrestati.

 

 Diversa lettura della glasnost’ processuale la forniva però Aleksandr Jakovlev, capo della Sezione Propaganda e Agitazione del CC del PCUS, in una nota di poco precedente l’inizio del processo inviata al CC stesso. Vista l’imminenza del processo, Jakovlev proponeva delle misure riguardanti la “copertura di esso da parte della stampa e della radio”, consistente nell’ammissione in aula dei corrispondenti delle Izvestija, Literaturnaja Gazeta, Pravda, e quelli della TASS e dell’Agenzia Novosti; esclusione dall’aula di tutti i corrispondenti stranieri; stesura dei comunicati ufficiali sull’andamento processuale, da diffondersi tramite i giornali, eseguiti congiuntamente dalla sezione agitazione e propaganda, dal CC del PCUS, e dal KGB.

 

Questo era il processo ‘pubblico’ cui furono sottoposti Daniel’ e Sinjavskij, e che venne riproposto anche ai futuri artefici del dissenso: un “processo ‘pubblico’ a porte chiuse, con un pubblico selezionato, e con un pugno di amici degli imputati e di corrispondenti stranieri bloccati all’ingresso”.

 

Sotto la presidenza del giudice Smirnov, i due scrittori erano chiamati a difendersi dall’accusa di aver violato l’art. 70 del Codice Penale della RSFSR (agitazione e propaganda anti-sovietiche). Erano accusati di non aver inserito nei loro romanzi la figura dell’«eroe positivo», la quale costituiva una discriminante ‘obbligatoria’ della letteratura sovietica, in quanto capace di dare fiducia ed ottimismo al lettore-lavoratore.

L’accusa puntò, durante l’intero arco processuale, sul fatto che non si potesse scindere il contenuto ideologico delle opere incriminate dalle idee degli autori che le avevano concepite, e quindi i due imputati si trovarono costretti a rispondere delle opinioni espresse dai loro personaggi come fossero le proprie.

 

“Voglio solo rammentarvi alcuni concetti elementari”, tentò di difendersi Sinjavskij, “che riguardano la letteratura. Le parole non sono realtà, ma solo parole: l’immagine artistica è convenzionale, l’autore non si identifica con il personaggio. Si tratta di verità elementari”.

Sulla stessa linea la difesa di Daniel’: “Anch’io, Daniel’ Julij, ebreo, sono un antisemita […]. In una mia opera c’è un vecchietto che fa il cameriere il quale dice qualcosa sugli ebrei, ed ecco che negli atti processuali vi è questo giudizio: «Julij Daniel’ è un convinto antisemita»”.

 

Ciò che dicevano i due scrittori era sicuramente vero, anche se il fatto che le loro opere fossero aliene ai canoni del ‘realismo socialista’ è fuori discussione. Il vero problema era proprio questo, ossia che fosse possibile, in Unione Sovietica, intraprendere un processo penale a carico di scrittori per il contenuto delle loro opere ritenuto non fedele allo ‘spirito sovietico’. Dare all’art. 70 del CP della RSFSR un’interpretazione così estensiva, che finiva per assimilare la letteratura alla propaganda contro-rivoluzionaria, ricordava molto da vicino i metodi applicati nell’era staliniana.

Entrambi gli scrittori erano consapevoli di battersi tanto per la libertà propria, quanto per quella della letteratura sovietica e, più in generale, per la libertà di espressione in URSS.

 

CONDANNA ALL’ANTICONFORMISMO - Sinjavskij venne condannato a sette anni di lager a regime duro, mentre Daniel’ a cinque anni della stessa pena. Sinjavskij venne in seguito espulso dall’Unione degli scrittori sovietici, in quanto si era servito della letteratura per “calunniare la sua Patria”.

Il primo processo politico dell’Unione Sovietica post-staliniana si concluse così con la condanna dei due imputati. Questo fatto, invece di frenare l’evoluzione di nuove forme del dissenso, come era negli intenti dei vertici del Partito, rese invece possibile lo sviluppo di un’opposizione extra-partitica capace di organizzarsi e di sostenere lo scontro col regime come mai prima d’allora era accaduto in Unione Sovietica.

Nonostante su un piano numerico il movimento del dissenso mai raggiunse delle dimensioni particolarmente elevate, su un piano morale invece la sua rilevanza risulta di valore assoluto. Ciò è dimostrato dalla scrupolosità con la quale gli uomini del Partito tentarono costantemente di debellare il fenomeno sino alla fine degli anni Ottanta: scrupolosità che era sintomo di una vera e propria ‘fobia’ per le iniziative intraprese dagli uomini del dissenso, e soprattutto per le idee ‘rivoluzionarie’ di cui essi si fecero portatori.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Nadine e Pier Forgues, L’affaire Siniavski Daniel, Parigi, Bourgois, 1967

Aleksandr Ginzburg, Libro bianco sul caso Siunjavskij – Daniel’, Milano, Jaca Book, 1966

Ettore Lo Gatto, Profilo della letteratura russa dalle origini a Solženicyn, Milano, Mondadori, 1975

SAMIZDAT, cronaca di vita nuova nell’URSS, Milano, Edizioni Russia Cristiana, 1975

Nicholas Werth, Storia della Russia nel Novecento, Bologna, Il Mulino, 2000

 

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