N. 99 - Marzo 2016
(CXXX)
GALILEO GALILEI
TRA EVOLUZIONE DI RICERCA E OSCURANTISMO FIDEISTICO
di
Carlo
Ciullini
Se
Tycho
Brahe
e
Keplero,
per
quanto
menti
scientifiche
proiettate
nel
futuro,
serbavano
ancora
processi
cognitivi
non
staccati
completamente
dal
back-ground
della
tradizione
secolare
che,
in
ambito
di
filosofia
naturale,
li
aveva
preceduti,
con
Galileo
si
giunge
al
vero
e
proprio
taglio
di
forbice
del
filo
legato
al
passato.
È
con
l’astronomo-filosofo
pisano
che
nasce
la
reale
Scienza
Moderna.
Corre
il
1609
quando
a
Padova
Galileo
punta
verso
il
cielo
stellato
il
cannocchiale,
estendendo
così
le
proprie
capacità
sensoriali
e,
di
conseguenza,
le
possibilità
sperimentali
e di
conoscenza
pratica.
Un
anno
dopo,
nel
suo
Sidereus
Nuncius
il
toscano
proclama
le
fresche
scoperte:
la
natura
stellare
di
Via
Lattea
e
nebulose,
le
quattro
lune
di
Giove
(le
Medicee,
in
onore
del
Granduca
Ferdinando),
i
crateri
lunari.
La
Luna
stessa,
quindi,
era
soggetta
a
corruzione,
in
quanto
irregolare:
e
ciò
si
poneva
in
antitesi
alla
visione
aristotelico-tolemaica,
per
la
quale
solo
il
mondo
sublunare
era
soggetto
a
imperfezione
e
incompletezza.
Altre
scoperte,
posteriori
alla
pubblicazione
del
Nuncius,
si
susseguono
nel
tempo:
le
macchie
solari,
le
fasi
di
Venere,
gli
anelli
di
Saturno
(per
quanto
non
ben
distinti).
Gli
studi
galileiani
sui
gravi,
poi,
risultarono
di
capitale
importanza
per
la
fisica
moderna:
lo
stesso
Newton
guardò
con
grande
interesse
alla
ricerca
in
questo
campo
dell’italiano.
Nel
suo
Il
Saggiatore,
del
1623,
Galileo
espresse
uno
dei
concetti
portanti
della
sua
filosofia
naturale:
in
opposizione
all’opera
del
gesuita
Grassi
che,
in
funzione
anti-copernicana,
aveva
sostenuto
la
tesi
di
Tycho
Brahe
riguardo
la
circolarità
delle
orbite
delle
comete,
il
pisano
evidenziò
come,
nel
complesso
rapporto
tra
percezione
e
realtà,
l’uomo
di
scienza
dovesse
porre
da
parte
gli
elementi
di
valutazione
soggettiva
e
qualitativa,
e
basarsi
esclusivamente
su
quelli
di
natura
oggettivamente
quantitativa.
Tuttavia,
per
quanto
straordinaria
dal
punto
di
vista
scientifico,
l’opera
di
Galileo
Galilei
assume
connotati
che
vanno
al
di
là
della
pura
e
semplice
filosofia
naturale,
e
del
contributo
al
progresso
delle
umane
conoscenze
del
mondo
fisico
e
reale.
È il
dicembre
del
1613
quando
lo
scienziato
scrisse
al
Castelli,
uomo
della
corte
medicea,
onde
poter
esprimere,
in
modo
indiretto
ma
efficace,
una
difesa
della
personale
concezione
della
Scienza:
il
rapporto
quotidiano,
in
ambito
scientifico,
con
realtà
che
sembravano
scontrarsi
con
le
affermazioni
presenti
nelle
Sacre
Scritture,
spinsero
Galileo
a
presentare
una
propria
prudentissima
suddivisione
tra
veritas
de
fide
e
veritas
de
rerum
naturam,
con
la
quale
si
invitava
sommessamente
a
non
prendere
alla
lettera
le
esplicazioni
di
carattere
scientifico-naturalistico
presenti
negli
scritti
religiosi,
ma a
interpretarne
piuttosto
il
significato
simbolico.
Ciò
non
valse
a
Galileo
la
tolleranza
del
Santo
Uffizio
che
nel
1616,
capeggiato
dal
cardinal
Bellarmino,
lo
invitò
caldamente
ad
abbandonare
la
teoria
eliocentrica,
condannando
di
conseguenza
e
mettendo
all’indice
i
testi
filo-copernicani.
Proprio
nell’anno
di
uscita
de
Il
Saggiatore,
morto
anche
Bellarmino,
era
salito
al
soglio
pontificio
il
cardinale
Berberini
col
nome
di
Urbano
III,
sotto
il
cui
governo,
più
aperto
alla
libertà
d’espressione,
parevano
potersi
realizzare
i
presupposti
per
un’opera
di
ricerca
scientifica
priva
di
lacci
pregiudizievoli.
Nel
libro
Dialogo
sopra
il
flusso
e il
riflusso
delle
maree
(ormai
pronto
per
le
stampe),
l’astronomo
toscano
si
era
illuso
di
poter
esprimere
a
ogni
livello
le
sue
concezioni
a
sostegno
della
teoria
copernicana:
proprio
lo
studio
dei
moti
delle
maree
appoggiava
appieno,
a
suo
parere,
tale
teoria
(oggi
sappiamo
che,
almeno
direttamente,
così
non
è).
Ma
il
clima
della
corte
papale
era
ben
lungi
da
quanto
egli
si
sarebbe
auspicato:
il
testo
non
potrà
vedere
la
luce
che
nel
1632,
quasi
a un
decennio
di
distanza
dal
suo
completamento;
e il
pisano
si
vedrà
costretto,
oltre
a
mutarne
il
titolo
in
Dialogo
sopra
i
due
massimi
sistemi,
tolemaico
e
copernicano,
a
porre
in
prefazione
all’opera
un
personale
avvertimento
sul
valore
puramente
ipotetico-matematico
dello
scritto,
cui
non
andava
concesso
credito
di
effettiva
rappresentazione
della
realtà
del
mondo.
Dopo
Copernico,
il
cui
De
Revolutionibus
era
stato
violentato
dal
teologo
Osiander
che,
in
qualità
di
curatore
incaricato
dall’astronomo
polacco,
tentò
di
emendare
l’opera
dai
probabili
strali
della
Santa
Sede,
anche
Galileo
dovette
chinare
il
capo
dinanzi
all’autorità
di
Roma.
Nel
’32
stesso
il
Dialogo
fu
tolto
di
circolazione
e un
anno
dopo,
il
22
Giugno
del
1633,
lo
spaventato
scienziato
si
sottomise
ai
voleri
del
Santo
Uffizio,
subendo
una
condanna
per
eresia
e
dovendo
fare
atto
d’abiura.
Galileo
assurgerà
in
tal
modo
a
simbolo
universale:
la
sua
promulgazione
della
verità
scientifica,
verità
osteggiata
e
offesa
non
dalla
ragione,
bensì
dall’autorità
tradizionale
preconcetta
e
impermeabile
ai
progressi
cognitivi,
si
pone
a
paradigma
della
lotta
tra
evoluzione
di
ricerca
e
oscurantismo
fideistico.