N. 7 - Dicembre 2005
DETENUTO
N. 854
Recensione del romanzo "Una giornata di Ivan Denisovic",
di Aleksandr Isaevič Solženicyn
di
Stefano De Luca
Nel
mese di ottobre del 1961 si svolse a Mosca il XXII
Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica
che proseguě, questa volta in modo pubblico, la
contraddittoria strada della de-stalinizzazione
inaugurata al XX Congresso del 1956. Nikita Chruščëv,
il Primo Segretario del PCUS, nel famoso ‘rapporto
segreto’ attaccň Stalin ed i suoi ‘complici’, rei di
aver perseguitato ed ucciso milioni di cittadini
innocenti durante gli anni del terrore.
Gesti simbolici come la rimozione del corpo di Stalin
dal Mausoleo di Lenin, o il fatto che la cittŕ di
Stalingrado venne ribattezzata Volgograd, fecero molto
effetto tra la popolazione. Conseguenza diretta del
XXII Congresso fu la pubblicazione del romanzo breve
di Aleksandr Isaevič Solženicyn intitolato Una
giornata di Ivan Denisovič.
L’importanza del romanzo non fu di natura
esclusivamente letteraria, ma anche sociale e
politica, in quanto con esso Chruščëv e gli altri
dirigenti del ‘nuovo corso’ speravano di dar prova
della loro estraneitŕ ai metodi staliniani,
legittimando di conseguenza la loro leadership
agli occhi dei cittadini.
Solženicyn, nato nel
1918 a
Kislovodsk, nel Caucaso, dopo l’attacco tedesco del
1941 si arruolň nell’esercito. Nel luglio del 1945
venne arrestato per aver criticato Stalin in una
lettera spedita ad un amico, e venne condotto alla
Lubjanka. Qui venne giudicato da un tribunale speciale
dell’NKVD, che lo condannň a otto anni di lavoro ‘correzionale’.
Il verdetto venne pronunciato in sua assenza, prassi
usuale durante gli anni del terrore.
Venne mandato nel campo di lavoro di Karlag, nella
provincia di Karaganda, dove rimase fino al 1953:
proprio questo luogo gli avrebbe permesso, suo
malgrado, di diventare un ‘vero’ scrittore: “tremo al
solo pensare che scrittore sarei diventato (e lo sarei
diventato certamente) se non mi avessero messo
dentro”. Il Solženicyn scrittore, insomma, si dice
‘debitore’ della propria esperienza nel lager.
Decise di sposare la sorte dello “scrittore russo
contemporaneo”, quella di “scrivere unicamente perché
tutto questo non venga dimenticato, perché un giorno
lo sappiano i posteri”. Riabilitato nel 1956 a seguito
del XX Congresso, tornň alla vita civile stabilendosi
nella cittadina di Rjazan, dopo aver vissuto per anni
nell’arcipelago concentrazionario staliniano, un mondo
‘a parte’ rispetto al resto del Paese, sconosciuto
alla maggior parte dei cittadini sovietici.
A
seguito della denuncia chruščëviana dei crimini di
Stalin, Solženicyn decise di far pervenire una copia
manoscritta del suo romanzo Una giornata di Ivan
Denisovič alla redazione della rivista Novyj
Mir (Il Nuovo Mondo), che appoggiava pienamente la
nuova ondata di riformismo ed apertura culturale.
Una
sera di novembre del 1961 Aleksandr Tvadovskij,
direttore di Novyj Mir, lesse, con la compagnia
di un sigaro e di alcune tazze di tč, il romanzo di
uno ‘sconosciuto’ autore di Rjazan, e ne rimase
impressionato: “mi accorsi subito che era qualcosa di
importante, […] quella notte lessi un nuovo classico
della letteratura russa”. Per celebrare l’evento,
Tvardovskij volle indossare il proprio abito migliore.
La pubblicazione venne avallata da Chruščëv in
persona, che considerava il romanzo, nell’ottica della
de-stalinizzazione, la carta giusta da giocare.
Il
romanzo descrive una giornata di vita all’interno di
un campo di lavoro, una giornata come le altre in quei
luoghi, vista attraverso gli occhi di Ivan Denisovič
Šuchov, il protagonista della narrazione, lo Šč-854
(ossia il detenuto n° 854). Quella che ai nostri occhi
sembra una giornata inumana, per Šuchov č invece una
giornata normale, non diversa dalle altre, che avrebbe
alla fine giudicato persino positiva, in quanto ne
uscě in modo indenne.
L’opera č ambientata nel 1951 all’interno di un campo
di lavoro staliniano in estremo oriente e Šuchov, che
aveva 41 anni, era dentro giŕ da otto. La sua colpa
era quella di essere stato fatto prigioniero dai
tedeschi nel 1941 il che, all’epoca, aveva la valenza
di un tradimento della Patria, che andava difesa anche
a costo della morte. In quest’ottica, l’essere fatto
prigioniero dal nemico era (e sarebbe rimasto cosě per
anni) una vergogna, oltre che un crimine.
Solženicyn riesce, in cosě poche pagine, a farci
vivere l’atmosfera di un campo di lavoro con il suo
sudicio dormitorio, la mensa affollata nella quale i
detenuti facevano di tutto per accaparrarsi una
porzione in piů di un cibo assai poco allettante, e
l’abbigliamento, che gli zek (vale a dire gli
‘abitanti’ dei lager) cercavano di rendere
sufficientemente pesante per difendersi dal freddo che
avrebbe puntualmente accompagnato la loro giornata di
lavoro.
Riesce in poche parole a farci vivere l’«arte» di
saper sopravvivere in una situazione cosě crudele,
«arte» che aveva alla sua base il rispetto di valori
morali che sono propri di ogni vivere civile. Šuchov
possiede i tratti del giusto, č una vittima della
follia staliniana, e la sua esperienza č il simbolo
delle sofferenze di milioni di incolpevoli cittadini
sovietici.
Il
personaggio di Šuchov era destinato, su un piano
letterario, a diventare il portavoce dei detenuti dei
campi di lavoro staliniani. L’opera di Solženicyn
riesce ad essere al contempo una fotografia della
realtŕ concentrazionaria sovietica, ed una
testimonianza umana di notevole livello. Col tempo la
spinta riformatrice venne meno e Solženicyn entrň
sempre piů chiaramente in contrasto con la dirigenza
politica diventando, nel corso degli anni Settanta,
una delle voci piů autorevoli del dissenso sovietico.
Riferimenti
bibliografici:
|