N. 7 - Luglio 2008
(XXXVIII)
A EST DEL DANUBIO
CAPITOLO XII
di Leila Tavi
Roma, 8 aprile 2004.
Città fantasma. Al mattino silenzio, nessun motore,
nessuna fuga per le strade. Tutto chiuso. Sembra di
essere in una città dopo l’atomica. Quattro milioni
di persone commemorano un uomo. In un'altra parte
del mondo molti sperano dopo una stretta di mano tra
il presidente israeliano e quello siriano davanti
alla bara di quell’uomo.
Nella notte il vento è forte e ha spazzato via anche
la pioggia d’aprile su Roma. Ma dove siamo noi,
mamma? Non mi ricordo più se siamo a Roma o a
Vienna. Ripenso alle parole di Denisa mentre guido
verso casa. La musica ceca, i libri slovacchi, la
televisione tedesca, la radio inglese e i film
russi. Ma qui ti capiscono come parli tu? Perché io
capisco e gli altri no come parli tu? Dobbiamo
votare per il Papa? I bambini sono sempre curiosi e
hanno la loro personale versione dei fatti. È sempre
così difficile non innamorarsi dei propri figli.
Dopo tutti questi anni mi accorgo del meraviglioso
spettacolo che ci regala il campo intorno al mio
quartiere, quando il vento agita i fili d’erba
illuminati dai fari della mia auto e il profumo
d’erba irrompe nei finestrini. La torre del castello
è lì da settecento anni, gli occhi si soffermano
sull’imponente sagoma che trasuda storia,
spartiacque tra un quartiere borghese e uno
popolare.
E il vento forte si porta via le parole di una
ballata ceca, podzimní bál. Mi fermo ancora un po’ a
respirare quel campo incolto tra un prefabbricato
grigio e la torre. Come in Cesta do fantazie,
direbbe Denisa. Zitim tvoj tvar; se avessi ancora
sedici anni verrei ogni notte in questo campo a fare
l’amore con il mio ragazzo senza paura, invece porto
il peso di una vita sottosopra.
Jen on o nás vi a shora se kouká,
rukou mi smiš a láskou mĕ houpat,
tak pojd’ ještĕ bliž, tam do listí fouká
pár říjnovejch sil, co ho do barvy dá
Torno in auto e mi dirigo verso casa, in garage
finalmente scopro il misterioso guardiano della
notte, che si aggira di auto in auto lasciando
impronte sui parabrezza; balza sul cofano dopo
giorni di ricerche e si lascia guardare per un
attimo il muso bianco e il naso rosa, prima di
sparire sotto un’altra auto.
Giugno 2008.
Quando appoggio l’orecchio sulla schiena di Denisa
mentre dorme mi sembra che abbia ancora un cuore
piccolo, eppure indossa già le magliette che portavo
appena un anno fa, ha il suo account messanger, il
suo numero di cellulare. Mi sembra che la distanza
tra noi si assottigli sempre di più. Ma è una falsa
percezione.
Quando è Denisa a guardare me non vede una madre che
è rimasta un’eterna adolescente, vede un uomo, non
nel senso che potreste pensare, non che mi veda come
il surrogato del padre ma, come piace dire a lei,
nel senso che un uomo è uguale a una donna, si
possono denominare entrambi con un solo termine:
človek.
Denisa si lamenta sempre che nella lingua italiana
non ci sia un termine equivalente a človek, che
renda subito l’idea della distanza che ancora sente
con questo mondo complicato e un po’ noioso degli
adulti. Ma anche la sua è una falsa percezione.
Me ne accorgo guardando un bambino sulle ginocchia
di suo padre mentre gli mostra il suo sentiero del
mammut. Così sembrano di una bellezza che eguaglia
quella delle madonne con bambino del Lippi. Nel
Quattrocento a nessun pittore sarebbe venuto in
mente di rappresentare un padre con il figlio sulle
ginocchia, oggi gli uomini hanno imparato a
rivendicare il loro diritto di paternità, un ruolo
che la società ha voluto negare loro per troppo
tempo.
Mio zio per asciugare le braghe del figlio lo
metteva sul termosifone pur di non toccarlo, il
padre di Davide non lo ha mai preso in braccio per
paura di farlo cadere, mio padre mi portava dal
barbiere ogni sabato e mi dava delle grosse pacche
sulla spalla.
Padri di una volta, i nostri, che cercavano di non
far trapelare mai incertezze o fragilità ai nostri
occhi. Per fortuna quelli di oggi non hanno paura di
accarezzare i capelli dei figli o lasciarsi
accarezzare dai figli.
Ecco allora il človek di cui parla Denisa, è lo
stesso che vediamo per le strade, che ci viene a
importunare quando scatta il rosso, quello che
l’elettore di destra guarda con imbarazzo e quello
di sinistra con rammarico ma, infondo, dà fastidio a
entrambi.
Sulla via Laurentina due di loro fanno scendere una
malinconia addosso: uno è un bulgaro senza braccio
che porta sempre un cartone attaccato al collo con
scritto il numero dl permesso di soggiorno e
farfuglia qualcosa senza senso sugli spermatozoi;
l’altro è un arabo, non saprei dire di dove, forse
un afgano, che gira sempre scalzo e con un lungo
cappotto, d’estate e d’inverno, e non smette mai di
sorridere, anche quando già sa che non riceverà la
tua elemosina.
Se piove sono gli unici a non abbandonare la strada
perché non lavano i vetri; il bulgaro sbatte
ripetutamente la nuca contro un palo della luce,
l’afgano cammina sul lato interno della strada,
rasente lo spartitraffico, e quando arriva
all’incrocio con la Colombo guarda smarrito la
grande arteria, come un animale guarderebbe al mare,
poi decide di tornare indietro da dove era partito.
Mi è difficile immaginare che uno dei due sarebbe in
grado di violentarmi, mi è difficile immaginare come
si potrebbero togliere dalla strada. Per noi
automobilisti stanno lì come una qualsiasi cosa
inanimata, siamo attenti solo che con le loro sudice
mani non si infilino nell’abitacolo, non ci
tocchino.
A uno dei ragazzi che vende arbre magic sulla
Laurentina io la mano l’ho stretta tante volte, non
mi è venuta nessuna dermatite, nessun fastidioso
fungo, niente scabbia. Abita accanto alla Facoltà di
Lettere e torna a lavorare in strada solo quando non
riesce a trovare un lavoro normale.
Ieri, nella consuetudine delle cene a tarda notte
dopo gli spettacoli teatrali, si è avvicinato al
tavolino all’aperto del bar di Trastevere, a cui
sedevo con amici, uno slovacco che chiedeva
l’elemosina, un človek, avrebbe detto Denisa.
E sì che vedere uno slovacco fare l’accattone per
una via di Roma è come vedere un italiano fare
l’accattone a Bratislava in pieno centro. Alla
nostra indifferenza reagisce con uno sproloquio
sulla mancanza di pietas dei Romani.
Nella Roma antica l’humanitas era la qualità che
distingueva l’uomo dagli animali e da coloro che non
meritavano l’appellativo di homo humanus, i barbari
senza rispetto per la valori morali, cultura ed
educazione.
Qualcuno ha detto che la pietas è riconoscere e
rispettare l’uomo in ogni uomo, nel disagio di
questa epoca contemporanea potrebbe significare
ritrovare e rispettare l’uomo in ogni uomo.
Argomento con l’accattone in un buono slovacco il
mio punto di vista, con la convinzione che il
dialogare con lui ci metta su un piano di parità e
d’interscambio, ma decido fermamente di non aprire
la borsa.
L’uomo ci guarda con aria sprezzante e ci grida
voltandosi mentre si allontana da noi: “Voi siete
tutti cani, compresa la mia paesana!”. |