N. 7 - Dicembre 2005
Cultura
e società comunale in Italia
La
sperimentazione di una forma di democrazia?
di
Bevar Ernesta Angela
Prima dell’XI secolo non si hanno prove di veri e
propri movimenti cittadini se non per quanto riguarda
le conspiratio populi, quelle piccole forme di
protesta cittadine che si rivolgevano di tanto in
tanto contro un vescovo o per le prime dispute intorno
all’anno mille riguardanti i confini delle diocesi nel
corso delle quali verrà abbozzata una prima forma di
diplomazia cittadina. Fino all’XI secolo perciò sulla
scena italiana non esiste nessun comune proprio perché
non si registra la presenza di forti poteri o di una
precisa classe che gestisca il governo municipale,
anche tenendo conto dell’eccezione iniziale dei
boni homines, i quali non hanno comunque una vera
e propria carica ufficiale e spesso fanno parte della
corte vescovile.
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Due teorie, riconducibili a due storiografi di inizio
Novecento, Gioacchino Volpe e Giovanni Cassandro, si
sono fatte strada tra gli storiografi riguardo la
formazione del comune: la prima prende in
considerazione la parte della società comunale a
sfondo nobiliare, per cui il comune sarebbe nato da
una società di ceti in cui la nobiltà tra tutti
giocava il ruolo più importante, pertanto esso avrebbe
un’origine privata; la seconda, che in qualche modo
dagli anni Sessanta ha fatto scuola, secondo la quale
il comune avrebbe avuto origine grazie alla sua forte
componente borghese, avrebbe avuto cioè una natura
territoriale, pubblica e quindi legata alla componente
aristocratica ma anche alla mentalità e alla crescita
del ceto dei mercanti, giudici, notai.
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Fa
ben notare in questo senso Occhipinti come non si
possa ricondurre tutte le esperienze cittadine a un
unico paradigma, pur riconoscendo un ruolo
estremamente importante nella prima fase della
formazione comunale alle grandi famiglie. A questo
proposito la sintesi di Ascheri ci aiuta per aver ben
chiara una panoramica veloce: “il comune in armi
del 1100 era una specie di associazione giurata con
pretese pubbliche; poi nel 1200 esso comincia a
rafforzare in modo monopolistico taluni suoi poteri
sul territorio - come tipicamente, ad esempio, il suo
potere fiscale; nel 1300 poi supera definitivamente la
sua originaria natura associativa, di coalizione di
consorterie e grazie al Signore comincia a farsi
territoriale; infine, nel 1400, si trasforma in ‘Stato
regionale’ che comincia a ritenersi sovrano - salvo a
verificare che a volte ha un potere meno
incondizionato che non prima”.
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Nell’analisi della formazione del comune occorre anche
tenere conto di tre importanti fattori: la crescita
demografica per la quale tra il X e il XIV secolo si
assistette al raddoppiamento della popolazione; il
grande conflitto tra Papato e Impero, durante il quale
la figura del vescovo venne, in qualche modo, ad
essere delegittimata; la migrazione dalle campagne
verso le città. Queste le cause politiche ed
economiche che molto influirono sulla formazione del
comune.
Dal punto di vista politico solo nel momento in cui
avviene la nomina dei consoli, che garantiscono una
certa stabilità, solo allora si può parlare di comune.
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Non vi sono date precise a cui ricondurre questa
nascita, ma per ogni città la data è strettamente
dipendente dal momento in cui il potere episcopale
viene sostituito dall’autorità comunale. Anche se,
come ha ribadito Grillo, in questo senso si può forse
parlare dell’avvento del comune come di una
rivoluzione silenziosa, in quanto gli stessi
personaggi che precedentemente collaboravano con il
vescovo vengono ad amministrare la giustizia come
consoli del comune. Ad un primo allargamento del ceto
dirigente, infatti, era seguita una contrazione per
cui il nucleo del potere ritornò nelle mani delle
stesse persone che lo gestivano in precedenza.
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Il
passaggio dal vecchio al nuovo in questo senso è quasi
indolore anche se la novità di un’assemblea, in alcuni
periodi rappresentata dalla quasi totalità dei capi
famiglia, alla quale il gruppo dirigente deve
rispondere, muta radicalmente i rapporti di potere
all’interno della società comunale. Allo sviluppo
della civiltà comunale contribuì anche e non poco il
sorgere di una ideologia cittadina che aveva come
fondamento l’idea di una città come luogo delle
libertà, che ebbe grande importanza nello scontro con
l’Impero. La novità consiste proprio in una città che
è consapevole dei suoi diritti e della sua autorità
nel momento in cui assume su di sé i diritti pubblici,
la responsabilità del possesso e, soprattutto, il
potere giurisdizionale.
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Non a caso Waley le definisce “città-stato rette a
repubblica”, cioè delle città che cominciano col
sancire il proprio “diritto” di autogovernarsi e
arrivano ad estendere questo loro “diritto” al di là
dei confini cittadini fino a invadere il “diritto” di
altri comuni. Questo secondo passaggio implica la
creazione, sempre più strutturata, di organi
amministrativi, militari e diplomatici, oltre ad uno
spirito cittadino di patriottismo e ad una
“consapevolezza della propria individualità”.
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Lo
spirito patriottico cittadino si manifestava in alcuni
simboli come il carroccio, cioè un carro trainato da
buoi che portava in battaglia il gonfalone della
città, spesso adorno di simboli religiosi; la
bandiera, invece, indicava il punto dove raccogliersi;
il giuramento di sottomissione; la festa del santo
patrono. In questo senso va letta anche l’apparizione
di un nuovo genere letterario come quello delle opere
che elogiano e lodano il comune, come il Liber
Pergaminus sulla città di Bergamo o il De
Magnalibus Urbis Mediolani (fine secolo XIII) su
quella di Milano, in tutti si trova una descrizione
particolareggiata del comune: da come avviene
l’educazione dei giovani alla magnificazione della
forza delle mura cittadine, dalle virtù dei suoi
abitanti alle loro prodezze in guerra.
I
cittadini fieri della propria città tendono a dare una
grande importanza all’aspetto della stessa, pertanto
acquista sempre più importanza la costruzione di
palazzi e opere pubbliche che attestino il prestigio
del comune. Oltre alle cattedrali e alle strade, il
palazzo del comune è all’apice dell’orgoglio
cittadino.
Nell’architettura intorno al mille la fece da padrone
il romanico migliorato dai contatti con l’oriente e da
nuovi progressi tecnici. Chiese e cattedrali per lo
più, ma anche ponti, case e piazzeforti. I temi
dominanti erano l’apocalisse e la dannazione eterna,
talvolta però vi si insinuavano soggetti presi dalla
quotidianità del lavoro e dalla natura.
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L’esperienza comunale, invece, si lega maggiormente
all’arte gotica costellata di chiese monumentali quasi
a descrivere la numerosità delle persone che avrebbero
dovuto entrarci, dove domina la ricchezza delle
decorazioni e una creatività che corre sul filo del
grandioso. I temi sono simili all’arte romanica, ma la
religiosità viene vissuta in modo più familiare e
semplice. Il ruolo dei pittori, all’epoca considerati
come artigiani e non come artisti, era quello di
pubblicizzare dal punto di vista visivo la città.
Intervenivano anche in questo senso le famiglie
nobiliari, gli ecclesiastici e le corporazioni che con
le stesse modalità propagandavano sé stessi e i propri
interessi.
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Per la manutenzione delle mura, delle provviste di
acqua e della cura delle fontane si prodigavano gli
stessi cittadini prestando la propria opera, lavoro
che era previsto come obbligatorio per la gran parte
della popolazione. Le spese per il mantenimento e la
costruzione della città sembrano essere sostenute
volontariamente.
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Caratteristica peculiare del comune è che i cittadini
stessi partecipavano come parte attiva alla
definizione della politica comunale. La composizione
delle leggi ne è un esempio significativo: i cittadini
obbediscono a quelle regole che essi stessi si sono
date. Molti degli statuti cittadini vengono raccolti,
redatti e posti a revisione, pertanto diventa
importante per i cives che lo statuto venga
approvato dalla consonanza di tutti i cittadini come
pure che esso sia il più breve e comprensibile
possibile.
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Lo sforzo di legiferare in modo da sopperire a tutte
le esigenze della città portò anche alla creazione di
una grande quantità di leggi che potevano riguardare
le condizioni igieniche dei luoghi pubblici o un
rigido coprifuoco come quello che adottò la città di
Modena, o la promulgazione di leggi suntuarie (cioè
derivanti da istanze religiose o economiche) come
quella di non portare vesti di colore scarlatto o
quella sul numero limitato di bottoni di perle che
poteva portare una donna o ancora sul taglio dei
capelli dei senesi che doveva lasciare intravedere un
po’ la nuca. Queste ultime norme danno l’idea di come
tutto all’interno delle mura cittadine venisse
regolamentato fino, talvolta, a ingerire nella sfera
individuale e familiare del cittadino.
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Si noti in ogni singolo caso come la produzione di
documentazione scritta a poco a poco è diventata un
vero e proprio metodo di governo. Il controllo,
richiesto dagli stessi cittadini, avviene grazie al
fatto che ogni tipo di procedura viene messa per
iscritto. Ma non solo per il controllo è necessaria la
scrittura. I rapporti giuridici si definiscono anche
grazie ai documenti e sono proprio questi rapporti che
costituiscono la base della stessa città, sono cioè
spesso un esercizio del potere municipale.
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È una società quella comunale, come dice Albini che
“ha un profondo rispetto per coloro che sanno usare la
scrittura, sia in ambito religioso, sia in ambito
civile”. Ma si tratta anche di una cultura dello
scritto che deve venire incontro alle esigenze di una
società drammaticamente caotica che faceva spesso
ricorso ai notai per risolvere ogni tipo di contrasto
interno, quindi una scrittura che ha una funzione
pratica per e nella civiltà comunale. Ma alla
scrittura, a quella quantità di diplomata e
instrumenta, dà una vera e propria consistenza
solo la figura del notaio, che autenticava ogni
singolo atto e che godeva di una publica fides.
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Man mano che la produzione di questi scritti aumenta e
che la scrittura si allarga ad ogni settore del
comune, come ad esempio all’amministrazione della
giustizia, all’organizzazione della difesa militare,
alla gestione delle finanze, nasce il bisogno di
mettere ordine in questa vastissima produzione, che
raggiunge il suo culmine nel periodo della pace di
Costanza, cioè nel periodo in cui l’assetto della
città fa perno sulla figura del podestà. Tra il 1180 e
il 1250 in particolar modo il testo scritto è ormai
uno strumento dell’amministrazione cittadina. Due sono
le tipologie di documento di questo periodo: i
libri iurium e gli statuta. I primi sono i
libri dei diritti del comune, una sorta di
compilazione scritta, i secondi sono testi più
complessi, rappresentativi dell’intreccio tra il
diritto e l’amministrazione cittadina, conservavano
cioè le leggi e le convenzioni locali pertanto
venivano aggiornati molto spesso.
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Il genere della cronaca è invece in qualche modo il
depositario della memoria cittadina, delle gesta e
della storia cronologica del comune.
Grande importanza in questo senso ebbe l’affermazione
delle lingue volgari e l’avvicinamento della cultura
ai sentimenti collettivi: il tema dell’amore e quello
della donna aprirono riflessioni più ampie sulla
coppia, sulla famiglia. Simbolo di queste riflessioni
e dell’affermazione di una nuova idea del mondo e
della vita sarà in seguito il famoso Roman de la
rose di Jean de Meun.
Fino ad allora la diffusione delle idee passava
attraverso le prediche religiose, le sacre
rappresentazioni e la recitazione dei poemi popolari.
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Tra il XII e il XIII secolo, poi, nacquero le
università come istituzioni civili, che
rappresentavano per alcuni versi un’alternativa ai
monasteri e alle scuole delle cattedrali (Chartres,
Saint-Victor). Con mutamenti così rilevanti nella
società, cambiavano anche le esigenze intellettuali
delle classi dominanti e dell’intera popolazione. La
crisi delle vecchie istituzioni scolastiche era legata
soprattutto all’assenza nelle scuole di insegnamenti
come il diritto, necessari visto l’aumento delle
cariche amministrative e commerciali che richiedevano
esperti di questo tipo. A questo bisogno risposero
inizialmente gruppi di studenti e professori che si
associarono privatamente formando scuole autonome. A
Bologna, ad esempio, Irnerio e un gruppo di suoi
discepoli commentarono il Corpus Juris di
Giustiniano dando avvio allo studio del diritto. Ma ci
furono anche Parigi, Oxford, Padova, Napoli,
Montpellier, Salerno.
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I nuovi ordinamenti dovevano comprendere lo studio
della medicina, della teologia, delle arti e del
diritto. La medicina, il diritto e la filosofia
contribuirono, in particolar modo, all’idea di un
metodo scientifico basato sull’osservazione dei fatti,
a una concezione laica del potere politico e della
cultura. Mentre il latino, come lingua comune,
consentiva facili spostamenti di docenti e studenti,
tra i quali vi furono i cosiddetti clerici vagantes,
che diffusero un certo tipo di cultura e vivacizzarono
l’ambiente con le loro tipiche canzoni satiriche dette
carmina burana.
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Essere vicini, nel senso di abitare nello stesso
luogo, significava avere soprattutto una forte
comunanza di interessi, essere cioè in unum corpus,
concezione che cozza fortemente con l’idea di una
societas tripartita di guerrieri sacerdoti e
lavoratori, fortemente stratificata come quella
dell’alto medioevo. Quando Pia de’ Tolomei nel
Purgatorio (V I.134) dice "Siena
mi fe’", ribadisce quasi
come sia stato l’ambiente politico e sociale della sua
città a renderla sé stessa, a farne una cittadina nei
modi e nella persona. La città ha avuto un ruolo
determinante per il formarsi della sua personalità. È
il sintomo di quanto il cittadino appartenga al comune
e, viceversa, quanto quest’ultimo influenzi e regoli
la vita dei suoi abitanti.
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Le
città tra il X e l’XI secolo furono coinvolte in un
imponente sviluppo economico. Certo per ogni centro
urbano si deve parlare di uno sviluppo economico
diverso in quanto esso risulta strettamente legato
alla posizione geografica e al tipo di commerci e di
traffici con l’esterno. Così a poco a poco le città si
ingrandivano e venivano a formarsi due classi: i
maiores, proprietari terrieri, e i minores,
artigiani e ceto contadino. In realtà, come ben
sottolinea il Waley, non è possibile operare una
classificazione ben precisa del cosiddetto populus
in quanto erano parecchi quei cittadini che spesso si
impegnavano in diverse attività e che quindi potevano
appartenere contemporaneamente a diverse categorie
sociali. Anche per quanto riguarda il ceto nobiliare
non esisteva alcun impedimento che chi vi appartenesse
potesse anche occuparsi del commercio: a Modena come a
Firenze, ad esempio, intorno alla fine del 1100 il
consul mercatorum, colui che si occupava della
organizzazione mercantile, era un nobile.
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Il
giudice invece proveniva di norma da una famiglia
importante, in quanto l’istruzione legale era molto
costosa, ma anche perché quel tipo di cultura libresca
si era tramandata all’interno di una specifica classe
la quale aveva compiti e ruoli differenti rispetto a
quelli militari o ecclesiastici. Se appare improbabile
la figura di un giudice-mercante non altrettanto però
quella di un giudice-proprietario terriero.
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La
figura che più di tutte definisce la struttura della
città e può esserne rappresentativa è forse quella del
notaio. Appartenente ad una classe colta e nello
stesso tempo laica, come la convenzione della società
medievale, che prevedeva “un clero colto e un
laicato illetterato”, non poteva ammettere.
All’interno della città essi si ritagliavano un ruolo
indispensabile per la registrazione di tutto ciò che
richiedeva la trascrizione di un atto, ma esercitarono
anche un ruolo politico conciliando, al tempo stesso,
il loro lavoro con la tessitura, i commerci e la
medicina.
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Figura politica di spicco furono i consoli.
Inizialmente venivano eletti per acclamazione
dell’assemblea generale, almeno fino a quando non
furono introdotte le nozioni di voto e di maggioranza
necessarie a città molto estese e al numero crescente
degli abitanti.
Ma esistono anche delle sperimentazioni quali:
–
l’elezione indiretta in cui nella prima fase venivano
eletti coloro i quali nella seconda fase avrebbero
operato la scelta finale;
–
l’elezione fatta dagli uscenti, coloro i quali avevano
terminato il loro mandato;
–
l’elezione a sorte.
.
Se
l’istituto consolare costituiva una conseguenza
naturale a quello dei boni homines, non
altrettanto la podesteria che seguì al periodo
consolare, la quale nacque da esigenze completamente
differenti. La necessità di un podestà esterno alla
città, di un’autorità che fosse in qualche modo al di
sopra delle parti, si sentì nel momento in cui il
comune riuscì ad imporsi politicamente e a determinare
la sua autonomia, cosa che comportava il nascere di
conflitti per la gestione del potere tra le famiglie
più influenti. Ma non fu determinante solo questo
aspetto nella formazione dell’istituto podestarile,
già il Barbarossa, infatti, aveva incaricato dei
funzionari di tal fatta per l’amministrazione di
alcune città della Lombardia e dell’Emilia.
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Era necessità imprescindibile, però, che si trattasse
di un cittadino colto e a conoscenza delle leggi, che
fosse disponibile a spostarsi nella città in cui
veniva richiesta la sua opera per almeno un anno.
Insomma un vero e proprio professionista forestiero e
itinerante il cui compito non consisteva nel reggere
lo Stato, per così dire, ma nell’amministrare la
città, essendo funzionario del potere cittadino e
ricoprendo, soprattutto, la massima carica
giudiziaria. Un potere neutro, perché esterno, ma che
poteva comportare, a causa della breve durata del
mandato, un clima di instabilità politica.
.
In
alcuni comuni vi erano poi altre cariche tra le quali:
–
il
camerlengo, un funzionario erariale stipendiato, che
rimaneva in carica sei mesi;
–
i
cancellieri, una sorta di notai-scrivani;
–
gli estimatori, che rivedevano gli statuti e
svolgevano gli accertamenti fiscali;
–
i
balivi, i quali badavano alla riparazione delle strade
e agli approvvigionamenti dell’acqua.
(Non sempre con queste denominazioni)
.
Quando la popolazione crebbe con essa crebbero anche i
bisogni e le necessità, di conseguenza nelle città
l’apporto degli artigiani (anch’essi potevano
contempora-neamente avere possedimenti terrieri, si
veda l’esempio di Giotto: pittore, architetto,
proprietario agricolo e noleggiatore di telai) fu
notevole e sempre largamente presente, come anche
quello di coloro i quali si dedicavano esclusivamente
all’agricoltura.
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L’unione dei cittadini, di quelli che risiedevano
dentro le mura, era forte e non costituiva un fatto da
poco risiedere nello stesso luogo, in quanto proprio
questo fattore era quello che metteva in comune gli
interessi, economici e non (la moneta, la difesa della
città, la giustizia, i dazi, l’uso delle acque, ecc.),
della città. È facile, dunque, immaginare come la
popolazione cittadina vivesse il contatto con gli
immigrati, in quanto la presenza di nuovi elementi
costringeva a mutare le distinzioni di classe. Il nome
che fu deciso per coloro che, nuovi arrivati,
cominciavano a entrare a far parte del contesto della
città fu quello di “gente nuova”. Verso costoro molta
parte della nobiltà nutriva pregiudizi e disprezzo in
virtù della convinzione che l’integrazione di nuovi
elementi estranei stesse contribuendo al declino della
antica nobiltà, alla quale era legata un’età dell’oro,
un tempo in cui dominavano austerità e virtù morali.
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Il
nuovo cittadino doveva prestare giuramento alle leggi
della città, questo implicava direttamente il suo
coinvolgimento in tutte le attività comunali e la sua
fedeltà al comune d’appartenenza. Le testimonianze del
comune di Viterbo riportano questa cerimonia per
l’ammissione di un cittadino
“investendoli con bastoni, ch’essi tenevano in mano
dicendo: Ora voi siete cittadini di Viterbo, ammessi a
tutti i benefici soliti ai cittadini viterbesi”.
I requisiti che occorrevano per passare da
habitatores a cives erano generalmente: la
possibilità di adempiere agli oneri fiscali, il
possesso di beni immobili e un periodo di permanenza
nella città.
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Ha ancora senso la discussione storiografica in merito
al fatto se l’esperienza comunale sia stata o meno la
sperimentazione di una forma di democrazia?
Se è vero da una parte che furono proprio i ceti
urbani a proporre un’alternativa allo strapotere dei
signori rurali, ai quali si opposero con forza,
reclamando l’autogoverno come un vero e proprio
diritto, dall’altra parte dobbiamo tenere presente
come la nostra concezione di democrazia sia fortemente
legata ad un preciso significato dell’idea di popolo,
che non coincide con il popolo d’età comunale, il
quale non era certamente uno di quei poteri forti che
venivano a scontrarsi per definire nuovi ambiti e
settori di dominio, ma che fu presente sulla scena
politica solo nell’adesione a quel progetto politico
dal quale difficilmente riuscì a trarre qualche
vantaggio. C’è poi da tenere conto anche del rapporto
tra città e contado, della dipendenza e dello
sfruttamento del secondo da parte della prima. Non
esistette mai in questo periodo una democrazia, per
così dire, economica.
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Ma a pensarci bene anche la cittadinanza vera e
propria, quella che prevedeva diritti, partecipazione
politica, giuramenti di fedeltà, ideali e valori
comuni come la concordia, era appannaggio esclusivo di
quel cittadino maschio, che possedeva un patrimonio o
che comunque poteva permettersi di pagare le tasse,
che poteva magari ottenere cariche politiche e
amministrative. La descrizione è quella di un
cittadino borghese, quindi di una parte della
civitas non di tutti.
Forse la storiografia ha proiettato sull’esperienza
comunale i problemi successivi dell’unità d’Italia e
della nostra identità nazionale, valutando la
città-stato italiana medievale nella prospettiva
storica di una linea di continuità? O forse è
necessario pensare ai comuni, vista la loro lunga
durata sul territorio italiano che arriva, pur con
grossi cambiamenti storici, fino a noi, come ad un
esperimento di una forma politica che è un po’ la
radice della dimensione municipale attuale?
Riferimenti bibliografici:
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Occhipinti, L’Italia dei comuni, Carocci, Roma
2000
M.
Ascheri, Città-Stato e Comuni: qualche problema
storiografico, in “Le carte e la storia”, V
(1999), pp. 16-28 – Distribuito in formato digitale da
“Reti Medievali”
Waley, Le città repubblica dell’Italia medievale,
Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1980
C.
Pinzi, Storia di Viterbo, Roma 1887-1913, II, p.70
nota.
Y.
Renouard, Le città italiane dal X al XIV secolo,
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1975
A.A.V.V., Storia medievale, Manuali Donzelli,
Roma 1999, Cap. XIV, XV, XIX
Cultura e società nell’Italia medievale,
Studi per Paolo Brezzi, Roma 1988, 117-147 e 367-392
G.
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Scriptorium 1998.
E.
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dal sito internethttp://www.rm.unina.it/repertorio/civcom.html
A.
Desideri, Storia e Storiografia, Tomo primo, G.
D’Anna, Messina - Firenze 1987 |