N. 8 - Gennaio 2006
AGONIA E
FINE
La
caduta di Kiev, 1240
di Aldo
Marturano
In
altri lavori abbiamo parlato spesso della steppa
ucraina, degli scontri dei nomadi con la Rus’ di
Kiev, delle relazioni che talvolta (ma poi sempre
più frequentemente) questi popoli stabilivano (e
mantenevano) fra principi e principi, spesso per mezzo
di matrimoni dinastici.
Qui vorremmo dare un’idea già abbastanza realistica e
positiva del ruolo che i nomadi Polovzi ebbero nella
storia russa che stiamo per attraversare.
Innanzi tutto diciamo che, a parte i popoli eterogenei
che abitavano il Caucaso e dintorni, la maggior parte
delle genti della steppa erano di ceppo turco (turcofone)
e quindi con relazioni molto strette anche fra regioni
lontanissime fin nell’attuale Gansu a nord della Cina.
E’
utile a questo punto ricostruire le circostanze che si
crearono in queste regioni all’inizio del XIII sec.
per prepararci a capire gli eventi che racconteremo
qui avanti.
Secondo i turcologhi (Roux, Hambis, Vladimircov,
Gumiljov, Minorsky, Bubjonok e molti altri), intorno
alla metà del sec. XI i turchi Kipciaki già si erano
separati dagli Oghuz (anch’essi popoli turcofoni) che
nomadizzavano intorno al Mare di Aral e si erano mossi
verso occidente oltrepassando il fiume Jaik (oggi Ural),
entrando poi nella steppa ucraina. Così facendo
avevano spinto i Peceneghi che lì si trovavano sempre
più verso il Danubio.
Per la prima volta nel 1054 uno di questi popoli, i
Kipciaki, col nome di Polovzi sono notati dalle
Cronache Russe e le stesse ci informano che erano
giunti sotto i confini delle Terre Russe preceduti da
un clan residuo degli Oghuz. Questi ultimi riescono a
giungere fino al Danubio, dove poi saranno sconfitti e
annientati completamente dopo vari scontri dai
Bizantini e dai Bulgari, lasciando i Polovzi alle
spalle.
I
Kipciaki-Polovzi si stabiliscono dunque fra l’Ural e
il Dnestr, alleandosi e legandosi con i numerosi
popoli dell’Anticaucaso prima e coi russi poi.
Nel XIII sec. ormai però si sono già in parte
sedentarizzati, almeno nel senso che non migrano più
stagionalmente su grandissime distanze come era stato
fino a decine di anni prima e nelle fonti occidentali
sono conosciuti meglio col nome di Cumani. E così
lungo il delta del Danubio c’è il clan (in turco
meglio jurt) danubiano variamente composito,
mentre appena sotto Kiev, per quel che qui ci
interessa, troviamo il clan del khan Kobjak e
quello del khan Konciak sulla riva sinistra del
Dnepr (talvolta chiamati volgarmente dai russi i
Cappelli Neri).
Come giustamente dice il turcologo G. Cossuto in un
suo studio sui Turchi di Dobrugia (il Delta del
Danubio), i Polovzi-Cumani-Kipciaki non costituirono
mai un’unità politica, ma di fronte ad un pericolo
comune sapevano unirsi e battersi con tutte le loro
forze. E questo lo possiamo constatare leggendo la
storia russa.
Tuttavia qui va sottolineato un altro aspetto: Quelle
che le Cronache russe considerano splendide vittorie
sui Polovzi, in realtà erano soltanto una delle tante
fughe di questi nomadi davanti ad un inutile
combattimento. Essi infatti, non avendo da difendere
terra coltivata o territori definiti, non appena si
accorgevano che la battaglia volgeva verso la
sconfitta o alla perdita di tempo e di uomini ecco che
ai combattenti veniva dato l’ordine di ritirata. Per
questi motivi, risparmiando uomini e sforzi, dopo
qualche tempo erano in grado di ritornare alla carica
come se niente fosse accaduto.
Per quanto riguarda poi il loro comportamento e le
loro relazioni coi contadini russi che vivevano nei
pochissimi villaggi sulla frontiera della steppa lungo
l’ormai famoso Vallo Serpentino, dobbiamo dire
che i nomadi avevano come abitudine di commerciare per
quanto possibile con loro.
Ben sapevano però che c’era poco da ricavare dagli
acquisti da parte di poveri contadini e quindi
piuttosto spesso ricorrevano alla razzia che provocava
così o la reazione militare dei bojari locali che
risiedevano nella città fortificata vicina oppure, nel
lungo termine, portava a stipulare con loro l’accordo
di acquistare beni di scambio dai Polovzi per
tenerseli buoni e persino di associarli negli affari
(specialmente il prelievo dei dazi delle merci che
fluivano lungo i fiumi). Inoltre, in modo negativo ed
esecrando soltanto secondo la morale odierna, il
traffico più proficuo era la vendita in Crimea
(espertissimi mediatori in questi commerci erano le
repubbliche marinare italiane.) dei giovani schiavi
prelevati nelle razzie. Per questo i Polovzi
incutevano paura quando cercavano di catturare giovani
e giovanette, piuttosto che distruggere raccolti o
rubare oggetti di poco valore.
Diciamo quindi tranquillamente che le affermazioni
catastrofiche o moraleggianti contro i “terrificanti
delitti” dei nomadi che appaiono nelle Cronache non
corrispondono pienamente alla realtà.
Se
poi volgiamo lo sguardo ai declivi dell’Anticaucaso,
qui troviamo un’altro popolo particolare, ormai
alleato e quasi assimilato ai Polovzi: Gli Alani.
Saranno proprio questi a trasmettere le prime
avvisaglie del movimento di truppe vittoriose ostili
in arrivo dal sud.
Era ormai da qualche decina d’anni che circolavano
notizie lungo le strade carovaniere che congiungevano
la lontana Cina alla Persia dell’apparizione di un
nuovo popolo formatosi nel lontano deserto del Gobi,
estremo lembo orientale della steppa eurasiatica, a
cui era stato dato il nome di tataro…
Non è nostro compito qui rifare tutta la storia di
questi Tatari, né delle conquiste del loro famosissimo
sovrano, il tataro-mongolo Temügin meglio noto come
Cinghiz Khan, ma ci limiteremo ad accennare alla
loro conquista dei sultanati che si trovavano a quell’epoca
nella regione orientale caspica.
Nel quriltay (assemblea dei nobili
tataro-mongoli) della primavera del 1206 Temügin era
stato eletto Gran Khan delle tredici tribù (in
gran parte turche) e in quella occasione si era
attribuito il nome di Sovrano Oceanico o
Cinghiz Khan, a significare che aveva in progetto
la conquista di tutto il mondo, circondato dall’Oceano
come si credeva a quei tempi.
Il
mondo conosciuto era stato perciò diviso in parti
secondo le quattro divisioni dell’esercito tataro a
ciascuna delle quali era affidato il compito militare
della conquista.
Non entreremo qui nelle diverse interpretazioni date
dagli storici (russi soprattutto) sulla posizione
geografica di queste quattro regioni e diremo soltanto
che Temügin riuscì a mettere insieme una formidabile
armata composta da più di un centinaio di migliaia di
cavalleggeri abilissimi e iniziò le sue imprese
conseguendo molti successi.
Le
prime campagne furono naturalmente contro la Cina con
vari scontri ed esiti incoraggianti, ma quando si
pensò all’occidente Cinghiz Khan trovò davanti
a sé il potente stato dei Kara Khitai o
Qitan Neri. Questi dominavano proprio i territori
fino alla steppa ad oriente e al nord del Caspio,
avendo assoggettato a tributo il Khwarismshah, a sud
del Mare d’Aral (dove oggi è Khivà), la Choresmia ed
altri staterelli, tutti di religione musulmana e di
antica cultura persiana sebbene la loro élite fosse
turca selgiuchida.
Nel 1211 i Kara Khitai debbono però cedere a
Cinghiz Khan, abbandonando a questo punto il
Khwarismshah direttamente esposto alle forze mongole.
Il
sovrano locale, l’intraprendente Maometto figlio del
turco Takasc’, proprio in quegli anni sta cercando di
estendere il proprio dominio fino alla vicina India
con il beneplacito dei Kara Khitai. Qui però, dove
oggi è l’Afghanistan, trova la combattiva dinastia
Ghaznavide di Maometto il Ghoride. Maometto del
Khwarismshah riuscirà ad eliminare questo potere
soltanto dopo la morte del suo omonimo avversario e
giusto nel 1206 l’anno in cui Cinghiz Khan comincia la
sua brillante carriera.
Dunque nel 1215 il Khwarismshah è certamente lo stato
dominante della regione ad oriente del Mar Caspio
avendo incorporato tutte le altre realtà statali
vicine. In realtà, lo ripetiamo, Maometto era riuscito
nel suo intento solo perché glielo avevano permesso i
Kara Khitai, ma poi, non intendendo rimanere vassallo
di costoro solo in ragione di questo aiuto, aveva
trovato terreno favorevole a Samarkanda presso il
principe karakhitaide locale, anch’egli alla ricerca
dell’indipendenza.
Insieme a quest’ultimo occuperà Bucharà e le altre
città intorno al Mare d’Aral suscitando la pronta
reazione militare dei Kara Khitai.
Purtroppo il generale karakhitaide inviato contro
Maometto e il suo alleato di Samarcanda è battuto e
preso prigioniero con grande esultanza di Maometto.
Neppure Samarcanda però intende dipendere dal
Khwarismshah ora che il pericolo dei Kara Khitai è
scomparso e così dopo vari litigi si viene ad un
conflitto che si conclude con l’esecuzione del
principe karakhitaide e con la conquista definitiva di
Samarcanda da parte di Maometto.
A
questo punto il trionfante sovrano si trova faccia a
faccia con Cinghiz Khan che è deciso a volgere
il proprio sguardo verso Occidente. Secondo le fonti,
Maometto riuscì comunque a stringere un patto di non
aggressione con il sovrano mongolo, continuando a
dominare gran parte dell’itinerario che seguiva la
Via della Seta.
Tuttavia il patto non sarà mantenuto a lungo poiché
Maometto sottovalutando la potenza del vicino incorre
nell’errore fatale di dare poco valore ai
salvacondotti forniti dai mongoli ai loro mercanti
diretti in Persia. Ci fu il famoso Saccheggio di Otrar
e la strage dei militari di scorta. Ne seguì subito
una protesta e una richiesta di risarcire i danni alla
carovana danneggiata e per i soldati uccisi.
Maometto risponde sopprimendo anche i Tatari
inviatigli per le trattative.
Cinghiz Khan
condanna subito tale comportamento e si pone a capo di
una spedizione punitiva contro il fedifrago nel 1218.
Tutta la regione è sconvolta dagli scontri che nella
steppa si frammentano facilmente in tutti gli angoli
possibili.
I
Tataro-mongoli sfruttarono quella volta anche il fatto
che il decadente Califfato di Baghdad non vedeva di
buon occhio il rafforzamento del Khwarismshah nelle
vicinanze della sua Baghdad e la proposta tatara di
collaborare all’annientamento di Maometto fu accolta
perciò con grande gioia.
Per di più per l’Emiro di tutti i Credenti, il Califfo
an-Nasir (1180-1225), aveva da tempo condannato
Maometto come settario dell’Islam, perché sunnita
insieme a gran parte dei suoi. Il Califfo quindi inviò
i suoi agenti sobillatori nel Khwarismshah che
operarono acchè i Sunniti sotto la protezione di
Maometto si rivoltassero contro gli Sciiti sotto la
protezione del Califfo, sfociando in una specie di
guerra civile e religiosa in tutta la regione
dell’antica Persia.
Non appena la situazione si mostrò più favorevole, i
Tatari cominciarono la loro tattica delle razzie e
delle guerre sparse e le città del Khwarismshah
caddero una dopo l’altra nelle loro mani. I Tatari
però non facevano prigionieri, se non quelli ancora
giovani e in forza che potessero essere utilizzati
come schiavi oppure come artigiani che servivano
sempre quali “fabbriche ambulanti”, per cui la
carneficina fu enorme e provocò un massiccio
spopolamento della regione e la fuga sulle montagne di
chi riuscì a salvarsi.
I
due generali tatari Subedei e Gebe (li rivedremo
ancora nella nostra storia) prevalsero ancora una
volta conquistando alla fine la capitale del
Khwarismshah, Urgenc’ (Organza), e, contemporaneamente
all’inseguimento del vinto Sultan-shah
Maometto, ricevettero l’ordine da Cinghiz Khan
di mettersi in campagna di ricognizione in tutte le
direzioni possibili.
Ed
ecco che ora si aprono le porte verso il sudovest del
Continente Asiatico fino al Mar Mediterraneo
Orientale, ma si offre anche la possibilità di
penetrare nelle steppe ucraine attraversando il
Massiccio Caucasico per i due passi sulle montagne:
quello di Derbent ad oriente o quello di Darjal ad
occidente.
E
Maometto? Senza più appoggi ed aiuti, l’anziano
Sultan-shah ormai malato, riuscito fortunosamente
a rifugiarsi su un’isola del Mar Caspio, nel 1221
muore.
Subedei e Gebe intanto assaltano la Georgia, passano
il Kura, il fiume di Tbilisi, capitale di questo
sfortunato regno cristiano, e giungono sotto Derbent
(nelle vicinanze dell’odierna Bakù).
In
questa occasione Alani e Circassi (nelle Cronache sono
chiamati rispettivamente Jasi e Kasoghi),
venuti a sapere della terribile minaccia che sta per
travalicare il massiccio del Caucaso, cercano
immediatamente l’alleanza dei vicini Polovzi e insieme
a loro e ai locali abitanti delle montagne a forze
unite tentano di impedire il passaggio per
interrompere la marcia dei Tatari.
I
generali tatari però avevano accumulato abbastanza
informazioni ed esperienze e conoscevano bene la
debolezza soprattutto degli Alani e così, dopo una
battaglia senza esito, ricorsero agli stratagemmi
soliti. Mandarono dei messi ai Polovzi promettendo
loro che se fossero diventati loro alleati, nessuno
avrebbe fatto loro del male, ma che lasciassero Alani
e Circassi a sbrigarsela da soli. Naturalmente le
proposte erano accompagnate da ricchissimi doni e
impegni formali a lasciare ai Polovzi il saccheggio di
qualsiasi città o villaggio che fosse stato
conquistato nella steppa dai Tatari.
Questi, abbagliati e inorgogliti dalle parole e
soprattutto dai regali dei messi tatari, abbandonarono
i loro alleati al loro destino e si ritirarono nelle
loro steppe in attesa degli eventi. Lo scopo di
Subedei (Gebe era rimasto in retroguardia) era di
riuscire a guadagnare tempo per riportarsi al più
presto sulle pianure coi loro cavalli e i loro armati
in modo da poter così ritornare alla tattica militare
abituale che lo aveva portato alla vittoria fino a
quel momento.
L’impresa riuscì e i Tatari, giunti nella steppa e
rimessisi a loro agio in sella ai loro cavalli,
ripresero le razzie in tutti i villaggi che
incontravano, senza alcun ritegno.
Naturalmente i Polovzi non stettero a guardare e ci
furono pesanti scontri che però finirono con la
sconfitta di questi ultimi.
Ricordiamo qui, per provare i Polovzi erano ormai
avviati verso una completa russificazione e
sedentarizzazione, che il figlio di Kobjak si chiamava
Daniele e quello di Konciak, Giorgio, e perciò erano
battezzati cristiani e morirono proprio nelle suddette
battaglie.
Tutte queste notizie logicamente giunsero sino alle
orecchie dei Cronachisti russi che scrissero:
“Nell’anno
6732 (è il computo degli anni secondo lo stile
bizantino e corrisponde al nostro 1223-1224 d. C.)...
a causa dei nostri peccati, sono giunti dei pagani (nel
testo si dice “figli di Agar”, la schiava di Abramo
che aveva generato gli Arabi musulmani)
sconosciuti. Nessuno sa bene chi siano e da
dove provengano, nè che lingua parlino nè di che
stirpe siano o quale sia la loro fede. Li chiamano
tatari, ma altri li chiamano tauromeni e altri
peceneghi. Altri ancora, fra cui il vescovo di Patara,
Metodio, attestano che costoro sono usciti dal deserto
di Jetreb... Dio solo sa chi siano e da dove vengono.
I saggi, coloro che sanno interpretare i libri sanno
bene chi sono, noi però lo ignoriamo e, affinchè i
principi russi lo ricordino, abbiamo qui scritto di
loro e delle disgrazie che sono capitate ai principi
per causa loro. Abbiamo infatti saputo che hanno
conquistato le terre di molte genti... “
E
vediamo allora la situazione intorno a Kiev in quel
periodo.
Qui c’è il nuovo Velikii Knjaz (Gran
Principe o Principe Anziano) Mstislav,
figlio di Romano di Smolensk, mentre nel 1219 a Galic’,
chiamato dai bojari locali, succedeva un altro
Mstislav detto l’Ardito, figlio di Mstislav il
Coraggioso. Il già defunto Coraggioso a sua volta era
lo zio di Mstislav di Kiev. Purtroppo, come il nostro
lettore avrà notato, il ripetersi dei nomi di famiglia
fra i Rjurikidi porta in questi anni ad avere molti
parenti con lo stesso nome. Non possiamo farci nulla e
bisognerà perciò fare attenzione a non causare
confusione fra i diversi personaggi che incontreremo
in questo nostro racconto.
Mstislav di Galic’ (l’Ardito) era sposato con una
figlia del khan Kotjan e quando dagli spalti
della città fu annunciato che lungo il Dnestr era
stato avvistato proprio il khan con i suoi “non
in assetto di guerra”, si pensò immediatamente che i
Polovzi fossero venuti per qualche loro problema
urgente.
Kotjan portava con sé varii doni per il genero e
ragazzi e ragazze per i bojari della città, perché
sapeva bene come andavano le cose a Galic’: Qui a
Galic’ infatti il principe non decideva alcunché senza
l’approvazione dei bojari. Solo se questi potenti lo
avessero bene accolto, avrebbe potuto parlare con
Mstislav ed esporgli i suoi guai.
Finalmente il consiglio presieduto dal knjaz si
riunisce e il khan può spiegare la ragione
della sua visita.
Naturalmente è ascoltato con benevolenza e in parte
pure creduto, quando racconta quel che è successo
giorni or sono negli scontri con i Tatari, ma quando
poi spiega che è qui per chiedere aiuto perché sa che
i Tatari muoveranno presto verso occidente e quindi
verso il Dnepr, sarà lo stesso Mstislav a cercare in
tutti i modi di ridimensionare le paure “eccessive”
del suocero.
Comunque sia si aspetterà l’inverno prima di
intraprendere qualsiasi azione: Così ha deciso il
Consiglio di Galic’.
Kotjan
dunque deve subire l’affronto di vedere ancora per un
po’ i Tatari svernare nelle sue terre e addirittura
non poter impedire che persino la sua Crimea venga
devastata e che Soldaja venga assediata, espugnata e
saccheggiata.
Subedei naturalmente con queste sue azioni cerca in
realtà di rendersi conto della situazione nella steppa
dei Polovzi e addirittura si avvicina pericolosamente
al Vallo Serpentino.
Queste notizie giungono a Mstislav di Galic’ il quale,
ormai convinto dell’emergenza, con l’approvazione dei
bojari si reca immediatamente a Kiev insieme a Kotjan
(e ai doni necessari per essere ascoltati ) dove
incontra il Velikii Knjaz.
Anche questi non crede che la faccenda sia così grave
e urgente, ma Mstislav di Galic’ insiste e dopo molti
discorsi finalmente si indice una nuova assemblea dei
principi più importanti delle Terre Russe intorno a
Kiev.
A
presiedere, com’è la regola, è il Velikii Knjaz
di Kiev, Mstislav figlio di Romano. E’ presente
Mstislav di Galic’, figlio di Mstislav il Coraggioso,
e con lui c’è anche Mstislav di Cerni’gov, figlio di
Svjatoslav, e infine Mstislav detto il Muto di
Volynia, oltre a Kotjan e i suoi alleati e i khan
parenti.
Con chiarezza i Polovzi chiedono la formazione di una
lega comune contro i Tatari, sottolineando che se i
russi non li aiutano ora saranno certamente battuti,
ma poi toccherebbe subito dopo a Kiev e agli altri
udel (principato separato russo) subire la stessa
sorte.
Per convincere i russi ancora una volta i Polovzi
tirarono fuori i loro cavalli della steppa, famosi per
la loro resistenza, i maestosi cammelli bactriani ed
altri animali d’allevamento, ma soprattutto fanno
sfilare le tante ragazze da servizio.
Addirittura uno dei khan del gruppo si fece
battezzare proprio in quell’occasione.
Mstislav di Galic’ naturalmente perorò per la sua
parte quanto Kotjan e i suoi richiedevano e alla fine
sembrò che gli elementi per prepararsi con diligenza
allo scontro con questi famigerati Tatari ci fossero
proprio tutti.
E
così fu deciso: Si sarebbe andati tutti insieme contro
i Tatari. Anzi, si sarebbe richiesta anche la
partecipazione del principe di Suzdal (vicino Mosca)
che sembrava da tempo non essere più interessato alle
faccende di Kiev. Suzdal infatti rispose, ma con poco
entusiasmo e da Rostov-la-Grande (città sul Volga) fu
destinato il suo principe con la druzhina
(compagnia armata del principe), mentre Rjazan’
(altra città) rifiutò qualsiasi aiuto.
Tutto insomma era pronto verso la fine di aprile
dell’anno 1223.
Il
punto di concentramento degli armati fu una cittadina
della riva destra del Dnepr vicino ad Olesce, presso
la cosiddetta Isola del Variago. Di qui si guadò gli
armati a piedi per dirigersi a Perejaslavl (città
russa al confine con la steppa), lasciando che la
cavalleria invece giungesse via terra.
Riassumendo, c’erano dunque le forze di Kiev, di
Smolensk, di Cernìgov, di Novgorod dei Severiani,
della Volynia e della Galizia e, con grande sorpresa
di tutti e quale prova che i Tatari erano vicini… si
fecero annunciare persino i messi di Subedei.
Costoro avevano ricevuto istruzioni precise suggerite
dalle circostanze di cercare di dividere gli alleati e
soprattutto di sapere quanti erano gli armati e che
armi avevano e qualsiasi altra informazione militare
utile.
Le
Cronache riportano le loro parole:
“Abbiamo saputo che state preparandovi a intervenire
armati contro di noi, benché noi non abbiamo mai
occupato le vostre terre, ma solo quelle dei Polovzi
che sono nostri cavalieri e soggetti. Facciamo quindi
la pace. Noi non abbiamo intenzione di attaccarvi.
Abbiamo anche saputo che i Polovzi vi hanno sempre
causato grossi guai e allora, di quelli che sono
ricorsi a voi, perché non vi prendete terre e
proprietà e non li cacciate via?”
Naturalmente gli alleati non si fecero convincere e
rimandarono i Tatari senza alcuna risposta
particolare.
Si
aspettò ancora un momento gli armati a piedi dalla
Galizia che arrivarono giusto in tempo dopo essere
discesi lungo il Dnestr e aver risalito il Dnepr fino
all’isola di Hortiza sulle barche, vicino alle rapide.
Anche i Cappelli Neri arrivarono e, finalmente,
ci si mise in cammino verso sud.
In
avanscoperta erano stati mandati intanto i principi
più giovani con altri uomini per cercare di conoscere,
seguendo non visti i messi tatari, la consistenza e
l’armamento del nemico. Al ritorno questi raccontarono
che a loro i Tatari erano sembrati talmente inferiori
da essere addirittura dal punto di vista militare
peggio dei Polovzi. Solo uno degli esploratori, più
vecchio e più esperto, avvertì al contrario che a lui
sembravano essere dei buonissimi cavallerizzi e degli
arcieri formidabili.
Già lungo la confluenza del fiume Hortiza col Dnepr ci
fu il primo avvistamento dei Tatari. Non essendoci un
comando unificato, il giovane Danilo di Volynia decise
senza consultarsi con Mstislav di attraversare il
Dnepr e si lanciò all’attacco.
I
Tatari secondo la loro solita tattica mostrarono di
fuggire tirandosi dietro i russi. A questo punto,
affinché non lo si accusasse di codardia, Mstislav di
Galic’ seguì il nipote e dopo un lungo inseguimento
riuscirono insieme ad avere uno scontro frontale con
l’avanguardia tatara la quale si fece facilmente
battere.
Con questo primo apparente successo gli armati alleati
diressero verso est dove presumibilmente avrebbero
incontrato il grosso delle truppe nemiche. Con una
marcia di circa dieci giorni giunsero così sulle rive
del fiume Kalka (l’odierno Kaliec).
Nessuno era in vista e così quando tutti gli armati si
raccolsero, si fece consiglio. Il Velikii Knjaz
era per attestarsi in quella posizione e attendere il
nemico, mentre Mstislav di Galic’ era per continuare
la ricognizione e stanare il nemico. A questo punto
Mstislav di Kiev si attestò su un’altura che dominava
il fiume e si organizzò per l’attesa, come aveva
deciso sin dall’inizio, mentre Mstislav di Galic’ e
gli altri alleati, sicuri della presenza dei Tatari
sulla riva opposta, decisero di attraversare il fiume
e di ingaggiare battaglia. Nel frattempo si lasciò che
Danilo e il khan Jarun coi loro uomini
tenessero occupati i Tatari con le loro scaramucce non
appena questi si facessero vivi.
I
Tatari infatti erano lì e facilmente circondarono gli
armati dei due sopradetti, mentre accorrevano anche
gli altri principi russi. Lo scontro fu terribile e i
Polovzi come era loro costume, appena videro che si
perdevano troppe forze, rinunciarono e fuggirono. Ciò
sparse il panico nelle file degli alleati che si
trovarono improvvisamente il nemico da tutti i lati e,
giacché questo prevaleva per il numero molto grande,
le sorti della battaglia non erano molto favorevoli.
La
battaglia comunque proseguì per tre giorni quasi senza
interruzione tanto che Subedei, sempre accorto a non
sprecare forze inutilmente in una regione a lui
ostile, chiese una tregua.
Il
generale tataro aveva infatti notato che una parte di
russi si trovava sull’altura e questi avrebbero potuto
essere pericolosi in seconda battuta. Mandò così il
suo messo che annunciò che Subedei aveva deciso di
interrompere lo scontro e che avrebbe lasciato che
Mstislav di Kiev se ne tornasse incolume coi suoi, se
la sua partecipazione alla guerra si fosse fermata
qui. Mstislav, avendo visto i tanti morti delle altre
druzhine russe, pensò bene di salvare almeno la
propria e acconsentì a ritirarsi.
Naturalmente, invece che lasciato andare, fu assalito
dai Tatari e completamente sbaragliato.
I
Tatari non avendo alcun bottino da fare, eccetto
cadaveri e carcasse, lasciarono il campo e si
allontanarono verso sudest, mentre gli alleati si
ritrovarono in fuga a contare i loro morti e ad
accusarsi vicendevolmente dell’insuccesso.
Mstislav di Cernìgov cadde in battaglia, Mstislav di
Galic’ insieme con Mstislav il Muto e Danilo di
Volynia riuscirono a raggiungere le loro barche che
fecero subito bruciare dopo essere giunti sull’altra
riva per non correre il rischio di essere inseguiti ed
infine Mstislav di Kiev rimase ucciso nella mischia
dei fuggitivi.
Per quanto riguarda i Tatari, continuando la loro
marcia verso est, essi si scontrarono prima coi
Bulgari del Volga senza grossi problemi, dopodiché
proseguirono oltre il Jaik per ricongiungersi con il
grosso dell’armata oltre il Caspio, nella steppa poco
a nord del Khwarismshah.
E
possiamo immaginarci i visi e i cuori dei russi
sopravvissuti alla cocente sconfitta mentre
ritornavano lungo la riva sinistra del Dnepr…
Probabilmente ci si interrogava del perché e del come
ciò fosse potuto accadere, sebbene tutti fossero
sicuri di essersi battuti con tutta la forza e la
volontà di vincere possibile. Qualcuno aveva tradito?
Oppure i Tatari erano proprio così imbattibili? E
perché non avevano continuato lungo il fiume per
prendere e saccheggiare magari proprio la grande Kiev?
Certamente sarebbero tornati. E quando? E come
difendersi da un prossimo attacco?
Una cosa strana accadde intanto all’interno della
coalizione: Vasilko di Rostov-la-Grande aveva
impiegato più tempo degli altri a raggiungere il punto
d’incontro e quando arrivò a Cernìgov e seppe della
disfatta sul Kalka si affrettò coi suoi a tornarsene a
casa, contento di averla scampata. Era proprio così? E
il suo ritardo era stato voluto?
Su
questa disfatta naturalmente in seguito si favoleggiò
e si disputò, ma pure si cantò, come è in uso fra
tutti i popoli che trasformano le battaglie e le
imprese, anche non riuscite, in poesia epica e si
raccontò che per la malvagità dei Tatari erano periti
ben settanta fra i più eroici dei combattenti russi
fra cui Dobrynja Cintura d’Oro e Alessandro Popovic’
col suo servo polovzo Torop…
Al
di là però di tutto, il risultato finale era che la
Rus’ aveva subito un bruttissimo colpo e subito
ricominciarono i litigi e le lotte, anche quando al
posto del defunto Mstislav, Kiev passò nelle mani di
Vladimiro figlio di Rjurik. Costui era un uomo avido e
insignificante e passò tutto il tempo a Kiev
dedicandosi solo ad accumulare ricchezze.
Ormai Kiev non rappresentava più una realtà politica
di prestigio, ma non poteva neppure essere considerata
alla stregua di un udel qualsiasi benché avesse
perso persino i cespiti che l’avevano resa splendida
fino al quel fatidico 1223.
I
suoi Velikii Knjaz ormai sono niente di più che
capi militari educati ad una sola attività: la guerra
e il saccheggio per avere un bottino da dividere coi
loro uomini. Il prestigio sacrale che il Velikii
Knjaz aveva avuto fino al tempo di Andrea
Bogoljubskii si è ormai dissolto e i Rjurikidi che ora
si avvicendano vedono nella loro sede kieviana solo un
mezzo per assicurarsi la bella vita e magari per
essere ossequiati anche non meritandolo.
L’unica istituzione che rimane integra e prestigiosa è
invece la Chiesa.
Vediamo
un po’ meglio.
Ci
fu sicuramente da parte delle Chiesa una solenne
celebrazione consolatoria per le truppe ritornate a
Kiev dopo la disfatta sul fiume Kalka. Si tentò di
provare con questo che i barbari delle steppe avevano
prevalso e ucciso tanti cristiani proprio a causa dei
peccati che questi ultimi avevano commesso e non a
causa della loro divisione e disorganizzazione. Ci fu
un digiuno e un pentimento collettivo e si aspettò che
il Signore Dio risollevasse le sorti della città e
delle sue terre.
Nel frattempo la Sede Metropolitana salì ai più alti
livelli di consenso in tutte le Terre Russe e questa
ondata di ottimismo verso la divinità fu sfruttata
pienamente dall’autorità religiosa che vi vedeva la
buona occasione per cercare di unificare le Terre
Russe sotto un unico “unto del Signore” (kieviano
naturalmente.) per battere la minaccia tatara.
Le
occasioni per processioni e funzioni liturgiche
solenni erano diventate numerose a Kiev. Le diocesi
nelle Terre Russe infatti erano migliorate di qualità
ed erano aumentate di numero e perciò in questi anni
si vide un andirivieni di prelati che arrivavano in
città per farsi consacrare nella loro funzione per poi
esser assegnati alle rispettive diocesi ad esercitare
il loro ministero.
Con questi vescovi e arcivescovi c’era sempre un folto
stuolo di pellegrini venuti a venerare i diversi santi
e a visitare i santuari di Kiev, portando offerte di
tutti i tipi alle tombe dei santi russi, a cominciare
da San Teodosio e da Santa Eufrosina di Polozk nel
Monastero delle Grotte per finire ai santi fratelli
Boris e Gleb a Vysc’gorod.
Queste cerimonie erano pure occasione di incontro dei
potenti perché insieme ai vescovi venivano a Kiev
anche i principi locali e quindi si creava la
possibilità di parlarsi e di prendere accordi benché
poi tali accordi non si rispettassero mai.
Dunque tutto dava adito a pensare che una ripresa
(anche economica) c’era e che la fiducia nella forza e
nella potenza delle Terre Russe stava rinascendo…
Purtroppo i segni che vennero dal cielo furono funesti
e sfavorevoli e le Cronache li elencano come segni
della volontà divina volta a punire coloro che non
avevano rispettato la legge di Cristo.
Nel 1230 ci fu un forte terremoto che fu sentito da
Novgorod nell’estremo nord fino a Kiev e qui fu
particolarmente distruttivo.
Si
racconta che la Chiesa della Madre di Dio nel
Monastero delle Grotte si crepò in ben quattro punti
proprio mentre si celebrava l’anniversario di San
Teodosio delle Grotte in presenza del Metropolita
Cirillo e quando Vladimiro figlio di Rjurik era
appunto il Velikii Knjaz. Calcinacci caddero
dalla volta rovinando tutta la tavola preparata per la
refezione solenne alla fine della cerimonia…
A
Perejaslavl invece il tempio che subì i maggiori danni
fu la Chiesa di San Michele che risultò pesantemente
lesionata in ben due punti. Il notevole, che il
Cronachista non perde l’occasione di sottolineare, fu
che in quell’anno ci fu pure un eclissi di sole e che
la gente ammutolì per lo spavento per la tutta la
durata del fenomeno.
Anche una cometa, apportatrice di disgrazie, era
apparsa nel 1233.
Insomma, si annunciavano nuove calamità e nuove
disgrazie e i principi russi non si erano ancora
preparati a far penitenza…
Nel 1227 muore Cinghiz Khan, c’è un nuovo
quriltay che elegge il nuovo Gran Khan
nella persona di Öghedei e costui annuncia che il
compito dei Tatari che si trovano già in occidente
sarà ora quello di conquistare al più presto le Terre
Bulgare (del Volga), il Paese degli Asi (Alani,
intendendo così il Caucaso e le terre viciniori) e le
Terre Russe che finora sono rimaste indipendenti.
Questo sarà il destino delle attività del figlio di
Giöci (figlio di Cinghiz Khan) a nome Batu Khan,
assegnato al governo di questa porzione di mondo.
Nel frattempo riprende la lotta per il trono a Kiev,
un’ennesima volta coinvolgendo i Monomachidi e gli
Olgovidi, e Michele di Cernìgov (Olgovide) d’autorità
e con la minaccia armata toglie il posto a Vladimiro
figlio di Rjurik.
Si
erano formati dei partiti per l’uno e per l’altro
candidato e fra quelli che appoggiavano Vladimiro c’è
anche il giovane Danilo che abbiamo visto darsi da
fare nella battaglia sul fiume Kalka.
Si
viene alle mani e purtroppo gli Olgovidi con l’aiuto
dei soliti Cappelli Neri battono gli alleati,
Danilo e Vladimiro, e quest’ultimo è fatto prigioniero
dai Polovzi stessi.
I
potenti bojari, vista la meschina figura fatta da
Danilo, chiamano a Galic’ proprio Michele di Cernìgov
che nel frattempo ha passato la mano a Kiev a Izjaslav
di Novgorod dei Severiani (un pronipote di Oleg del
Cantare di Igor, per intenderci, capostipite degli
Olgovidi). Michele accetta con entusiasmo, visto la
rinomanza e la ricchezza di Galic’ rispetto alla
decadente Kiev.
Vladimiro figlio Rjurik però non ha rinunciato e,
fattosi pagare il riscatto, ritorna alla carica a Kiev.
Da
Suzdal arriverà persino Jaroslav (il padre del famoso
eroe russo Alessandro Nevskii) il quale è fuggito dal
nordest proprio a causa del nuovo arrivo dei Tatari e
si porrà di forza sul trono di Kiev.
In
questi anni 1236 Batu Khan ha già completato la
conquista della Bulgaria del Volga che viene
assoggettata a tributo.
L’anno seguente è la volta di Rjazan’. La città è ben
guarnita con le sue mura alte e possenti, ma i Tatari
sono giunti con le macchine d’assedio disegnate dagli
ingegneri cinesi e persiani e il 21 dicembre la città
è presa. I Tatari continuano la loro marcia malgrado
l’inverno (anche perché col fondo ghiacciato è più
facile proseguire lungo le foreste) verso il nord.
Probabilmente il loro obiettivo è Novgorod-la-Grande.
Lungo la strada occupano e saccheggiano Vladimir (la
città di Andrea Bogoljubskii), ma non riescono a
scontrarsi con il principe locale Giorgio che
sbaraglieranno successivamente sorprendendolo e
uccidendolo sul fiume Sit.
Cade Rostov-la-Grande, Tver e Mercato Nuovo, città
novogorodese a poche decine di chilometri da
Novgorod-la-Grande. Il nemico tuttavia non prosegue
per il nord e nei pressi del Lago Seligher ripiega
verso sudovest attraversando i territori di Smolensk e
poi di Cernìgov che devastano e danno alle fiamme.
E’
una catastrofe unica… con un fuggi-fuggi generale
dei nostri impavidi principi.
Danilo è il più coraggioso poiché, quando Michele di
Cernìgov fugge in Ungheria, Danilo entra a Galic’ e di
qui ne approfitta per assoggettare con la scusa della
difesa dal pericolo comune tutte le piccole città del
sud delle terre Russe, compresa Kiev.
Tutto questo avviene perché, oltre allo spavento
suscitato da quello che si è ripetuto sul fiume Sit
con le druzhine russe, Mengu Khan, il fratello
di Batu Khan, mentre era in corso proprio quest’ultima
operazione nel nordest era riuscito sulla via del
ritorno lungo la riva di Cernìgov ad avvicinarsi a
Kiev e aveva fatto a vista una ricognizione
dell’esterno della città appollaiata sulle colline. Di
lì aveva fatto sapere ai kieviani del Podol che i
Tatari erano disposti a non assalire Kiev e a non
devastarla come aveva fatto con le altre che non
avevano accettato la signoria tatara, purché il loro
principe venisse ad omaggiare il khan e ad
accordarsi per un tributo fisso.
La
risposta dell’impauritissimo Michele di Cernìgov fu un
timido rifiuto che però sembrò avere il suo effetto
poiché i Tatari si allontanarono, inspiegabilmente.
E’
l’inverno del 1240 quando giungono notizie che i
Tatari sono di nuovo diretti verso il Dnepr dalla
lontana Crimea…
L’esercito nemico è numeroso ed è accompagnato dalle
macchine d’assedio. Queste devono essere state
tantissime, se si tiene presente che nell’assedio
della città di Nishapur più o meno in quegli anni i
Tatari avevano attaccato le mura di mattoni crudi con
ben 3000 balestre pesanti (non da spalla.), 300
catapulte, 700 lanciafuoco (lanciatori di recipienti
pieni di miscele incendiarie) e, se si contano i
cavalli di ricambio e il foraggio e le riserve di
cibo, si può immaginare come questa enorme “macchina
da guerra” certamente metteva paura a chiunque e, in
special modo, per il fatto di muoversi tutta
all’unisono sotto il ferreo comando del generale in
capo, nel nostro caso di Batu Khan, e dei suoi
sottoposti Subedei e Burundai.
Dicono le Cronache che il rumore che faceva questa
grande massa di uomini e carriaggi era tale che, man
mano che si avvicinava, a Kiev non si riusciva più a
parlare e a capirsi per il frastuono…
Quasi indisturbati i Tatari attraversano quindi il
grande fiume senza problemi e si portano sotto Kiev.
Tutto questo avviene sotto gli sguardi spaventatissimi
della gente rifugiatasi nella città alta e capeggiata
da Demetrio, il luogotenente del Velikii Knjaz
Danilo che è fuggito anche lui. Con Demetrio c’è un
tataro fatto prigioniero mesi prima che ora fa da
consigliere e costui afferma che ha riconosciuto Batu
Khan e che perciò è sicuro che la campagna non si
fermerà finché la città non cadrà.
I
Tatari intanto stanno cercando il punto debole dove
attaccare la prima cinta di mura. Viene individuato il
lato giusto dalla parte occidentale della Porta
Polacca (Ljatskie Vorota), più o meno dove oggi
c’è il corso principale del Kresc’ciatik a Kiev e dove
allora c’erano paludi e sabbie mobili, e, tastato il
terreno per posizionare le pesanti macchine d’assedio,
mettono in atto il piano d’attacco.
Comincia così il bombardamento che continua senza
interruzione giorno e notte finché non si apre una
breccia. A questo punto i Tatari sciamano nella città
di Jaroslav.
Devastano e danno alle fiamme la città bassa e poi si
rivolgono verso quella alta, quella di Vladimiro, dove
i kieviani cercano di raccogliersi e difendersi come
possono.
E’
difficile e dispendioso tirare su le macchine lungo un
dislivello così alto, ma alla fine gli ultimi
difensori sono raggiunti dai Tatari e costretti ad
asserragliarsi nella Chiesa della Decima. La calca
però è tale che per il peso degli uomini raccoltisi
nel coro della chiesa, questo crolla e mette lo
scompiglio.
Sono passati quasi cinque giorni e, malgrado la
disperata difesa, Kiev cade: E’ il 6 dicembre 1240.
E’
uno spettacolo terribile. La città è ridotta ad un
cumulo di rovine e di corpi inanimati ammucchiati per
le strade, mentre i Tatari bivaccano sulle eleganti
vie dell’antica capitale.
Demetrio è stato fatto prigioniero, ma, mentre tutti
gli altri prigionieri (salvo che siano riutilizzabili
come schiavi) vengono passati a fil di spada, il
luogotenente del Velikii Knjaz è risparmiato
perché Batu Khan decide di premiarlo per il coraggio
mostrato benché sia coperto di ferite da capo a piedi.
Conclude il famoso storico di corte N. Karamzin:
“L’antica
Kiev scomparve per sempre giacchè nel XIV e nel XV
secolo era ancora un mucchio di macerie… Invano il
viaggiatore curioso cercherebbe qui i monumenti sacri
a tutti i russi: Dov’è finita la tomba di Santa Olga?
E i resti di San Vladimiro?… Restò in piedi solo il
monumento funebre di Jaroslav il Saggio forse a
ricordare che la gloria dei legislatori civili è
immortale e la più sicura da conservare…”
Oggi certamente la Madre delle Città Russe non
è più un mucchio di fumanti rovine, ma i resti della
città antica fanno ancora capolino qui e là
sapientemente restaurati e Kiev è ritornata ancora più
nuova e più bella. |