N. 100 - Aprile 2016
(CXXXI)
ARNALDO
DA
BRESCIA
TRA
RIFORMA
RELIGIOSA
E
AGITAZIONE
POLITICA
RITRATTO
DI
UN
PREDICATORE
–
PARTE
II
di Gabriele Passabì
Il
ritratto
di
Arnaldo
dipinto
da
Giovanni
di
Salisbury
non
è
eccessivamente
di
parte
come
quello
di
Ottone
di
Frisinga.
La
Historia
Pontificalis,
nonostante
sia
stata
scritta
da
Giovanni
mentre
prestava
servizio
presso
Eugenio
III
come
membro
amministrativo
della
curia
ed
in
quanto
tale
riflette
naturalmente
la
lealtà
verso
il
papa,
è
generalmente
considerata
una
fonte
abbastanza
accurata
(HP,
Introduzione
p.
xx).
Giovanni
raramente
si
dimostra
apertamente
ostile
ai
contenuti
di
povertà
e
umiltà
evangelica
della
predicazione
di
Arnaldo.
Egli
infatti
scrive
apertamente
che
considerava
lo
stile
di
vita
ascetico
di
Arnaldo
come
interamente
aderente
alle
leggi
morali
cristiane
ma
non
conforme
alla
vita
che
i
cristiani
normalmente
conducevano
(HP,
XXXI,
p.
64).
Questo
commento,
piuttosto
eloquente,
non
sembra
infatti
una
completa
condanna.
Nonostante
la
figura
di
Arnaldo
venga
equiparata
nella
sua
interezza
a
quella
di
un
agitatore
anticlericale,
i
contenuti
eminentemente
ascetici
della
sua
predicazione
e il
suo
modus
vivendi
pienamente
apostolico
sono
almeno
rispettati,
quando
non
apprezzati,
dall’autore
della
Historia
Pontificalis.
Per
questa
ragione,
accettare
Arnaldo
semplicemente
come
un
agitatore
politico
potrebbe
risolvere
troppo
semplicisticamente
la
complessità
della
sua
predicazione.
Come
mostrato
dalle
Gesta
Friderici,
tale
interpretazione
potrebbe
essere
influenzata
dai
punti
di
vista
meramente
politici
degli
autori.
La
Historia
Pontificalis,
nonostante
la
presenza
dei
doverosi
attacchi
all’Arnaldo
politico,
descrive
più
da
vicino
la
sua
predicazione
e,
in
una
certa
misura,
sembra
persino
comprendere
gli
ideali
ai
quali
si
ispirava,
anche
se
il
giudizio
complessivo
non
può
non
essere
influenzato
dall’impatto
politico
che
essa
aveva
generato.
Tuttavia,
ciò
può
essere
interpretato
come
una
conseguenza
contingente
della
vocazione
ascetica
di
Arnaldo
calata
in
un
contesto
socio-culturale
nel
quale
la
distinzione
tra
lotta
politica
e
riforma
religiosa
non
era
nettamente
definito
(Frugoni,
p.
109).
Un
altro
elemento
che
mette
in
risalto
l’unicità
di
Arnaldo
nel
panorama
del
dissenso
religioso
del
XII
secolo
è il
suo
carattere
di
erudizione
che
tutte
le
fonti
riconoscono,
indistintamente
dalle
loro
posizioni.
A
differenza
di
eretici
come
Tanchelmo
di
Brabante
o
Eone
di
Stella,
che
erano
apertamente
riconosciuti
come
illitterati
(Fichtenau,
p.
56-57),
tutte
le
fonti
concernenti
Arnaldo
fanno
riferimento
alla
sua
erudizione
e
alle
sue
capacità
oratorie.
Ottone
di
Frisinga
descrive
Arnaldo
come
un
dotto,
versato
nella
retorica
ed
amante
delle
novità,
che
era
solito
abbondare
molto
più
nella
profusione
delle
parole
piuttosto
che
nel
peso
delle
sue
stesse
idee
(GFI,
II-xxviii,
p.
143).
Giovanni
di
Salisbury,
allo
stesso
modo,
non
risparmia
parole
di
elogio.
Egli
infatti
riferisce
che
Arnaldo
era
un
profondo
conoscitore
della
Scrittura,
di
grande
intelligenza,
eloquente
nel
discorso
e
veemente
nei
suoi
attacchi
alle
vanità
del
mondo
(HP,
XXXI,
p.
63).
Questo
è
ancor
più
enfatizzato
dall’associazione,
riportata
in
tutte
le
fonti,
tra
Arnaldo
e il
grande
intellettuale
suo
contemporaneo
Pietro
Abelardo.
Ottone
di
Frisinga
afferma
apertamente
che
Arnaldo
era
stato
studente
di
Abelardo
(GFI,
II-xxviii,
p.
143),
mentre
Giovanni
di
Salisbury
riferisce,
in
maniera
più
cauta,
che
Arnaldo
“era
vicino”
all’intellettuale
francese
senza
stabilire
alcuna
associazione
maestro-allievo.
D’altro
canto
però
lo
stesso
Salisbury
riporta
che
il
predicatore
italiano,
quando
Abelardo
era
partito
per
Cluny,
si
era
messo
a
insegnare
le
sue
dottrine
presso
la
chiesa
di
Sant’Ilario
dove
Abelardo
aveva
soggiornato
(HP,
XXXI,
p.
63-64).
Ciò,
pur
dimostrando
la
cautela
di
Salisbury
nel
avanzare
una
diretta
connessione
tra
Arnaldo
e
Abelardo,
comunque
ci
suggerisce
una
vicinanza
ed
una
affinità
tra
le
due
figure.
La
fonte
che
ha
accentuato
più
marcatamente
l’associazione
di
Arnaldo
con
Pietro
Abelardo
sono
gli
scritti
di
Bernardo
di
Chiaravalle.
In
alcune
delle
sue
lettere
Bernardo
critica
aspramente
il
riformatore
italiano
e il
suo
presunto
magister.
Infatti,
in
una
lettera
al
vescovo
di
Costanza
Bernardo,
pur
considerando
Arnaldo
come
degno
di
lode
per
il
suo
stile
di
vita
morigerato,
lo
descrive
come
un
ladro
che
ha
fatto
irruzione
nella
casa
di
Dio,
un
leone
rabbioso
alla
ricerca
di
qualcuno
da
divorare
con
le
sue
fauci
piene
di
bestemmie
e
malvagità,
un
fabbricatore
di
discordia
e
divisione
(The
Letters
of
St
Bernard
of
Clairvaux,
trad.
B.S.
James,
London,
1953,
p.
330.
Da
questo
momento
riferite
semplicemente
come
BL).
Bernardo
attacca
così
ferocemente
Arnaldo
non
solo
a
causa
delle
accuse
di
Arnaldo
contro
la
Chiesa,
ma
soprattutto
a
causa
del
legame
tra
il
predicatore
italiano
e
Abelardo,
il
quale
era
il
reale
bersaglio
della
sua
invettiva.
Bernardo
riferisce
che
Arnaldo
era
presente
al
Concilio
di
Sens
(1141)
nel
corso
del
quale
gli
insegnamenti
di
Abelardo
vennero
apertamente
condannati
da
una
corte
ecclesiastica
(Verbaal,
2005,
p.
460).
Inoltre,
in
una
lettera
a
papa
Innocenzo,
Bernardo
paragona
Abelardo
a
Golia
e
Arnaldo
al
suo
scudiero:
insieme
avevano
unito
le
loro
forze
contro
Dio
e la
sua
Chiesa
per
diffondere
il
“vangelo
immorale”
di
Abelardo
(BL,
p.
317).
Non
è un
caso
infatti
che
sia
Abelardo
che
Arnaldo
vengano
descritti
da
Bernardo
con
una
simile
descrizione
dell’apparenza
estetica.
Entrambi
infatti
condividevano
la
povertà
nel
cibo
e
nel
vestire,
essi
tuttavia
erano
ingannatori
delle
genti:
le
loro
sembianze
angeliche
nascondono
invece
il
volto
di
Satana
(BL,
p.
318).
Come
suggerito
da
Mews,
Bernardo
di
Chiaravalle
in
realtà
temeva
che
gli
insegnamenti
di
Abelardo
potessero
diffondere
ulteriormente
la
tensione
verso
lo
scisma
in
tutto
il
mondo
cristiano
come
stava
facendo
Arnaldo,
discepolo
di
Abelardo,
in
Francia
e in
Italia
(Mews,
2002,
p.
367).
In
questo
modo,
Bernardo
enfatizza
la
colpevolezza
e
l’eterodossia
delle
posizioni
di
Abelardo
descrivendo
di
riflesso
Arnaldo
apertamente
come
un
nemico
della
Chiesa.
Tuttavia,
il
legame
tra
Abelardo
e
Arnaldo,
così
come
l’insistenza
delle
fonti
sull’erudizione
di
Arnaldo
rivelano
piuttosto
un
diverso
ritratto
del
riformatore
italiano
rispetto
a
quello
degli
altri
predicatori
europei.
Probabilmente
Arnaldo
non
era
in
possesso
dei
sottili
strumenti
d’indagine
teologica
di
Abelardo,
tuttavia
gli
era
riconosciuta
una
grande
erudizione
e,
di
conseguenza,
non
era
sicuramente
estraneo
alle
discussioni
teologiche
contemporanee
anche
se
non
prese
mai
parte
attiva
a
esse.
Gli
insegnamenti
di
Abelardo
formarono
il
suo
stile
di
vita
e si
dimostrarono
fondamentali
per
lo
sviluppo
del
suo
pensiero
religioso.
La
condanna
di
Abelardo
al
Concilio
di
Sens,
che
più
che
altro
si
dimostrò
essere
un
banco
di
prova
per
le
pretese
di
autorità
avanzata
dalla
Santa
Sede
(Verbaal,
p.
462),
rinforzarono
le
convinzioni
di
Arnaldo
sulla
natura
mondana
della
Chiesa
e,
probabilmente,
radicalizzarono
ulteriormente
la
sua
predicazione.
Tuttavia,
è
durante
la
permanenza
di
Arnaldo
a
Roma
che
possiamo
osservare
come
le
implicazioni
politiche
della
sua
predicazione
si
manifestarono
apertamente.
Sia
Ottone
di
Frisinga
che
Giovanni
di
Salisbury
hanno
in
mente
gli
eventi
romani
nel
loro
giudizio
di
Arnaldo,
per
questo
motivo
non
esitano
a
definirlo
un
agitatore
politico.
Dopo
la
morte
di
Celestino
II,
l’elezione
dell’ex
cistercense
Eugenio
III
rese
possibile
il
ritorno
di
Arnaldo
in
Italia.
Come
riportato
nella
Historia
Pontificalis,
nel
1143
Arnaldo
venne
ricevuto
a
Viterbo
dal
neo-eletto
papa
che
gli
concesse
il
perdono
dopo
aver
ricevuto,
sotto
giuramento,
la
promessa
di
obbedienza
alla
Chiesa
e
l’impegno
a
espiare
le
sue
colpe
con
un
pellegrinaggio
penitenziale
a
Roma
(HP,
XXXI,
p.
64).
Il
perdono
concesso
da
Eugenio
III,
considerato
da
Bernardo
il
papa
che
avrebbe
finalmente
potuto
realizzare
l’ideale
cistercense
di
teologia
politica
(Evans,
2000,
p.
154),
fu
una
dimostrazione
che
gli
insegnamenti
di
Arnaldo
non
erano
poi
totalmente
irriconciliabili
con
l’ortodossia
dottrinaria.
Tuttavia
il
latente
carattere
sovversivo
della
predicazione
di
Arnaldo
non
era
stato
neutralizzato
da
quell’atto
ed
infatti
la
situazione
di
ribellione
a
Roma
accese
nuovamente
la
miccia
politica
dei
suoi
insegnamenti.
Roma
si
trovava
in
uno
stato
di
agitazione
politica
da
prima
che
Arnaldo
lasciasse
Parigi.
A
conseguenza
dei
termini
indulgenti
accordati
da
Innocenzo
II
agli
abitanti
di
Tivoli
nel
1142,
alcuni
membri
dell’aristocrazia
romana
si
erano
ribellati
contro
il
Papa.
Essi
avevano
rinnovato
il
Senato
ed
avevano
eletto
il
patricius
Giordano
Pierleoni
a
capo
di
esso
affinché
potesse
governare
sul
popolo
e
sulla
classe
nobiliare.
In
questo
modo
si
voleva
di
fatto
istituire
una
repubblica,
sul
modello
dei
comuni
dell’Italia
settentrionale
minacciando
in
questo
modo
l’autorità
papale
sull’Urbe.
Eugenio
aveva
provato
a
combattere
la
nuova
repubblica
ed
aveva
avuto
un
parziale
successo
nel
1145
con
la
scomunica
di
Pierleoni.
Tuttavia,
egli
dovette
infine
cedere
alle
pressioni
del
popolo
romano
riconoscendo
l’autorità
del
Senato
che
però
a
suo
volta,
secondo
i
patti,
aveva
dovuto
accettare
il
primato
della
Santa
Sede
e la
restaurazione
del
prefetto
dell’Urbe
di
nomina
papale.
Tuttavia
questa
situazione
di
stabilità
durò
poco
perché
le
ostilità
ripresero
quasi
immediatamente,
fomentate
anche
dall’arrivo
a
Roma
di
Arnaldo
(Harald
Zimmermann,
1993).
Questo
clima
di
sfida
all’autorità
papale
e di
recupero
dei
valori
repubblicani
riaccesero
la
veemenza
della
predicazione
di
Arnaldo
contro
i
cattivi
costumi
della
Chiesa
e
catalizzarono
le
sue
implicazioni
politiche.
Nonostante
il
predicatore
bresciano
avesse
aderito
apertamente
alla
causa
del
comune
romano
solo
dopo
che
Eugenio
III
era
partito
per
Roma
(HP,
XXXI,
p.
64),
le
fonti
lo
descrivono
come
un
elemento
fondamentale
della
rivolta
fin
dal
principio.
Ottone
riferisce
che
Arnaldo
stesso
voleva
restaurare
l’antica
repubblica
romana,
la
classe
senatoria
e
l’ordine
equestre
(GFI,
II-xxviii,
p.
144).
In
questo
modo
lo
storico
tedesco
proietta
l’ideologia
politica
dei
ribelli
romani
su
Arnaldo
mal
interpretando,
più
o
meno
volontariamente,
l’originale
spirito
religioso
della
sua
predicazione.
Egli
infatti
riporta
che
Arnaldo
incitò
la
popolazione
a
distruggere
i
palazzi
dei
nobili
romani
e a
perseguitare
i
cardinali
fornendo
quindi
un
ritratto
di
Arnaldo
più
simile
a
quello
di
un
demagogo
che
voleva
restaurare
la
res
publica
che
quello
di
un
predicatore
asceta
(GFI,
II-xxviii,
p.
144).
Giovanni
di
Salisbury,
come
di
consueto,
ci
offre
un
resoconto
più
bilanciato
pur
sottolineando
la
natura
intrinsecamente
sovversiva
della
sua
predicazione.
Egli
infatti
riferisce
che,
mentre
Eugenio
era
in
Francia,
Arnaldo
approfittò
della
sua
assenza
per
predicare
senza
rischio
di
censura.
Secondo
Giovanni
di
Salisbury
Arnaldo
spesso
prese
parola
pubblicamente
sul
colle
capitolino
e
nelle
piazze
denunciando
l’avarizia
e
l’ipocrisia
di
cardinali
ed
ecclesiastici
paragonandoli
agli
scribi
e ai
farisei
dei
vangeli
(GFI,
II-xxviii,
p.
144).
Come
sappiamo,
questo
giudizio
contro
il
clero
aveva
le
sue
radici
nella
ricerca
ascetica
e
spirituale
di
Arnaldo,
tuttavia,
nel
contesto
della
sollevazione
romana,
esso
ottenne
inevitabilmente
una
connotazione
politica.
Infatti,
nell’accusare
il
papa
di
essere
un
uomo
sanguinario
che
aveva
mantenuto
la
sua
autorità
per
mezzo
del
sangue,
Arnaldo
dichiara
con
fermezza
che
nessuna
forma
di
obbedienza
o di
reverenza
gli
era
dovuta
(HP,
XXXII,
p.
6).
Si
fa
dunque
evidente
il
contenuto
politico
della
sua
predicazione:
le
accuse
religiose
al
papa
di
essere
lontano
dalla
vera
vita
apostolica
potevano
quindi
giustificare
la
disobbedienza
dei
ribelli
romani
e
legittimare
le
loro
posizioni
radicali.
Per
questa
ragione,
alla
fine
del
capitolo
xxxi,
Giovanni
di
Salisbury
fa
dire
ad
Arnaldo
che
“nessuno
può
essere
ammesso
tra
coloro
che
desiderano
imporre
il
giogo
della
servitù
a
Roma,
sede
dell’Impero,
fontana
di
libertà
e
sovrana
del
mondo”
(HP,
XXXI,
p.
62).
Queste
parole
sembrano
rievocare
le
pretese
politiche
dei
sostenitori
del
comune
romano
al
quale
Arnaldo,
secondo
quanto
riportato
da
Giovanni
di
Salisbury,
pare
che
fosse
legato
addirittura
da
giuramento
(HP,
XXXI,
p.
62).
Tuttavia,
la
Roma
repubblicana
e la
sua
eredità
classica
avevano
un
particolare
significato
simbolico
per
Giovanni
di
Salisbury
e
spesso
costituirono
un
leif
motiv
delle
sue
opere.
Esse
rappresentavano
per
lo
storico
inglese
i
valori
stoici
di
clemenza,
decoro
e
frugalità
che,
per
come
l’autore
stesso
riporta,
erano
condivisi
anche
da
Arnaldo
stesso
(O’Daly,
2011,
p.
525).
Per
questa
ragione
Giovanni
non
sembra
propenso
a
condannare
completamente
il
ruolo
politico
di
Arnaldo:
nonostante
egli
avesse
riportato
con
sprezzo
il
suo
coinvolgimento
politico
e la
sua
vicinanza
agli
ambienti
repubblicani
romani,
Giovanni
non
accusa
apertamente
Arnaldo
di
rivoluzione
come
Ottone
di
Frisinga
(O’Daly,
p.
529).
Al
contrario,
sottolinea
ed
elogia
lo
stile
di
vita
frugale
ed
apostolico
di
Arnaldo
e,
di
conseguenza,
sembra
comprendere
come
questa
aderenza
letterale
all’insegnamento
evangelico
possa
averlo
condotto
su
posizioni
radicali
di
condanna
del
papato.
In
conclusione,
la
predicazione
di
Arnaldo
da
Brescia
e il
suo
modus
vivendi
radicale
possedevano
alla
base
un
profondo
sostrato
spirituale
che
invocava
la
necessità
per
tutta
la
società
cristiana
di
ritornare
alla
semplicità
della
vita
apostolica.
Questi
ideali
lo
condussero
a
criticare
aspramente
la
Chiesa
che
era
chiaramente
percepita
come
l’opposto
dell’esempio
di
carità
espresso
dai
vangeli.
Questa
contraddizione,
accresciuta
nelle
sue
implicazioni
sociali
dal
movimento
di
rinnovamento
spirituale
che
si
andava
diffondendo
in
Europa
e
dall’inclinazione
all’attivismo
radicale
ereditato
dall’esperienza
patarina,
spinsero
Arnaldo
a
mettere
in
discussione
la
stessa
legittimità
sacrale
della
Chiesa.
Tuttavia,
le
implicazioni
politiche
dei
suoi
insegnamenti
poterono
trovare
la
loro
piena
manifestazione
solo
nella
contingente
situazione
di
ribellione
che
Arnaldo
si
trovò
a
vivere
a
Roma.
Infatti,
il
tentativo
dell’aristocrazia
romana
di
fondare
un
comune
che
si
riappropriasse
delle
prerogative
politiche
e
ideali
dell’antica
Repubblica
catalizzarono
drammaticamente
l’impatto
politico
della
sua
predicazione.
Per
questa
ragione,
potrebbe
risultare
troppo
semplicistico
definire
Arnaldo
un
mero
agitatore
politico,
un
demagogo
che,
in
quanto
tale,
aveva
cercato
di
cavalcare
l’onda
repubblicana
del
malcontento
romano.
Egli
rappresenta
piuttosto
un
unicum
nella
storia
del
dissenso
religioso
del
XII
secolo:
la
sua
predicazione
si
definisce
di
natura
eminentemente
spirituale
ed
ascetica
nei
contenuti
ed
era
corroborata
ulteriormente
dalla
sua
nota
erudizione.
Le
implicazioni
politiche
poterono
manifestarsi
apertamente
nella
contingenza
della
situazione
politica
romana.
La
situazione
di
sollevazione
politica
antipapale
aveva
infatti
costituito
uno
sfondo
perfetto
per
la
sua
invettiva
contro
il
clero
corrotto
che,
pur
radicata
nelle
aspettative
spirituali,
trovò
a
Roma
un
perfetto
banco
di
applicazione,
rivelando
le
sue
conseguenze
politiche.
La
predicazione
di
Arnaldo,
ed
il
ritratto
di
essa
offerto
dalle
fonti,
costituisce
quindi
un
perfetto
esempio
di
come
la
sfera
religiosa
e
quella
politica
erano
in
rapporto
di
mutua
permeabilità
nel
XII
secolo,
e di
come
figure
radicali
ed
erudite
come
quella
del
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