N. 15 - Agosto 2006
ALESSANDRO
MAGNO. ALESSANDRO III DI MACEDONIA
Opposizioni
alla nuova visione - Parte XI
di
Antonio Montesanti
Ircania (Turkmenistan)
Stabilite le questioni e dopo aver rassicurato gli uomini,
Alessandro ritornava sui suoi piani; doveva
sbaragliare i resti dell’esercito persiano e la sua
preoccupazione consisteva nel fatto che questi non si
andassero ad annidare sulle montagne dell’Elburz.
Nei pressi della moderna città di Damghan a tre giorni di
marcia da Ecatompilo, suddivise come al solito le sue
forze per coprire un’estensione maggiore e per
attraversare tutte le gole del massiccio montuoso: l’Argeade
aveva tra le sue file gli ipaspisti e la fanteria
leggera, puntando verso il punto più pericoloso del
Mar Caspio attraverso il passo di Shamshirbun e il
tratto superiore del fiume Dorudbar lungo le montagne
del Biburz; Erigio aveva la cavalleria a protezione
delle salmerie e avanzava attraverso la strada
principale carrozzabile per Shahrud e il passo di
Chalchaniyan, mentre con Cratero stava il resto
dell’Esercito. I passi non erano difesi se non dalle
solite tribù locali che infastidirono appena la
retroguardia agriana di Alessandro e ciò facilitò il
ricongiungimento che avvenne sulle rive del grande
mare chiuso, a Ban dar Gaz.
L’assassinio di Dario era stato inutile. I satrapi non si
stavano riorganizzando per contrastare il Macedone, ma
si preparavano ad arrendersi: sulle rive del fiume
Ridagno (Neka), durante la prima tappa, Alessandro
riceveva da parte del chiliarca regicida in fuga,
Nabarzane, offerte in cambio della sua stessa vita;
quindi nei pressi della capitale ircana, Zadracarta,
fu la volta di Frataferne, satrapo di Partia e Ircania,
che si arrese di persona.
Qui Alessandro si ricongiungeva con le divisioni di Cratero
ed Erigio. Anche Autofradate, satrapo della Tapuria,
si sottometteva personalmente venendo riconfermato
nella sua carica, a differenza di Frataferne, che
invece veniva rimpiazzato da Amminape, un nobile
persiano che aveva facilitato l’ingresso in Egitto due
anni prima.
Si assistette allora ad una resa generale: le popolazioni
che abitavano i monti Elburz orientali deponevano le
armi, ma il più grande atto di sottomissione avveniva
sul confine occidentale dell'Ircania. Artabazo
portando con se i suoi figli si recava presso il campo
di macedone, seguito dai capi dei mercenari greci.
Artabazo venne accolto calorosamente al contrario dei
mercenari, i quali memori dei colleghi del Granico
imploravano la pietà del Re, il quale invece la negò
categoricamente, ricordando uno dei punti fondamentali
della Lega di Corinto, imponendo una resa
incondizionata che i greci dovevano accettare.
A questo punto toccava ai Mardi,
che abitavano il territorio montuoso della catena
dell’Elburz (Alburz), essere
sottomessi i quali avevano iniziato una campagna di
resistenza e di guerriglia. Questa popolazione, che
abitava il territorio al confine sudoccidentale dell'Ircania,
si vantava di fatto di essere indipendente.
Non solo rifiutavano di sottomettersi ma in
un’incursione riuscirono persino a rapire Bucefalo, il
cavallo di Alessandro; iniziò quindi una campagna
repressiva che li portò a fuggire
sulle montagne, dove venne intrapreso un inseguimento teso
a braccarli sistematicamente, fino a quando non si
arresero e
dovettero, allora, restituire il cavallo e pagare il
tributo con atti di sottomissione e
ostaggi, venendo assorbiti all’interno della satrapia
di Tapuria.
Tornato dalla campagna dei Mardi, Alessandro doveva
sistemare i mercenari greci, che si preparavano ad una
punizione esemplare. Ma ormai questa non aveva più
senso: per prima cosa venne richiesto l’atto formale
di sottomissione gli opliti furono “solamente”
costretti ad arruolarsi; per veterani alle dipendenze
di Dario prima della dichiarazione di guerra del 337
a.C. si concesse la possibilità della smobilitazione.
Solo un gruppo di lacedemoni, che Alessandro credeva ancora
in guerra aperta con i macedoni, vennero messi sotto
stretta sorveglianza.
Nabarzane, che si era reso colpevole di un gravissimo
delitto quando Alessandro rientrò nella capitale
arcana, venne accettato amichevolmente. Nei quindici
giorni successivi di permanenza a Zadracarta (attuale
Gorgan), organizzò giochi e feste, ai quali si
dovevano contrapporre giorni di severità marziale:
Besso aveva occupato il trono di Dario, Alessandro
ancora in Ircania era venuto a sapere che il regicida
era entrato nella sua satrapia, la Battriana, e quindi
aveva assunto le insegne del potere, adottati i titoli
regali, proclamandosi Artaserse V.
Adesso si poteva pensare a Besso, ma anche a Barsaente e a
Satibarzane: la spedizione macedone ripartì
attraversando direttamente i monti Elburz sulla strada
imperiale, entrando in Partia attraverso Bujnurd e la
valle del Kashaf Rud e avanzando verso oriente ai
confini della satrapia di Aria. A Susia (probabilmente
l’attuale Tus o
Meshed) gli si fece incontro il
satrapo Satibarzane, al quale, dopo essersi
formalmente sottomesso venne affiancato nella
riconferma della carica ricoperta, il funzionario
macedone, Anasippo, con un’esigua guarnigione. Da
Susia progettò di puntare verso est, procedendo ai
piedi del massiccio del Kopet Dag, per invadere la
Battriana.
Besso era determinato a resistere confidando nel diritto di
sovranità e contando sul fatto che le satrapie più
orientali si sarebbero unite di fronte alla minaccia
europea.
Anche questa volta Alessandro non cambiò il copione del suo
intervento: voleva schiacciare immediatamente
l’assassino del Gran Re, affrontandolo immediatamente
cercando di chiuderlo prima che potesse organizzare
una parvenza d’esercito
Il re si scagliava allora immediatamente nell'invasione
della Battriana, quando probabilmente tra i fiumi Heri
Rud e Murghab, probabilmente secondo un piano
concordato, alle sue spalle si sollevò Satibarzane, il
quale massacrò la guarnigione di Anasippo, iniziando
una campagna contro il re macedone.
Alessandro allora fermò la marcia verso est, lasciando
Cratero con la parte più imponente e più lenta
dell'esercito, prese con sé i Compagni, la fanteria
leggera e due battaglioni della falange, e in due
giorni e due notti di marce forzate, coprì i quasi 200
km che lo separavano dalla capitale della provincia
d’Aria, Artacoana (attuale Herat).
Satibarzane intanto si era rifugiato, insieme ai profughi
di Artacoana, su una fortezza inespugnabile, che
sembra si possa identificare con Naratu, a
Qalai-Dukhtar, o in Kalati-Nadiri, all’arrivo del
nemico si mine in fuga verso Besso con soli 2000
cavalieri, lasciando la popolazione civile a difendere
la roccaforte.
Per una serie di coincidenze fortunose, tra cui l’appiccamento
del fuoco per allontanare gli assedianti da parte
degli assediati, si rivolse verso la rocca stessa,
bastò quindi una breve spedizione punitiva per
ricondurre la satrapia all’ordine.
Per sancire la sua nuova conquista, vicino alla capitale
Alessandro fondò una nuova città, Alessandria degli
Arii (Herat), e assegnando, questa volta, la provincia
venne assegnata ad un altro nobile persiano
apparentemente più affidabile, Arsame.
Ma anche costui lo deluse, appoggiando la guerriglia che
Satibarzane fomentava da oriente: sarebbe stato
sgominato e ucciso da un contingente al comando di
Erigio, mentre la satrapia sarebbe stata assegnata
definitivamente al governo del cipriota Stasanore.
Quest’esperienza aveva segnato profondamente
l’atteggiamento di Alessandro verso tutti, la fiducia
che egli aveva dato non era stata ripagata
onestamente, per questo che cambiava totalmente
politica. Il suo obbiettivo non era più Besso, per il
momento ma le satrapie di Drangiana e Aracosia, che
erano state affidate ad un altro potenziale traditore
nonché regicida: Barsente. Questi al suo arrivo si
rifugiò presso gli Indiani, ma subì anch’egli un
tradimento che lo consegnò al sovrano: anch’egli si
era ribellato dopo il perdono, pertanto era un
ribelle pervicace e come tale fu messo a morte.
Alessandro si vestiva del ruolo di vendicatore
intransigente cercando di farsi legittimare come re di
fronte al popolo persiano, visto che ormai era in
pericolo la sua figura in relazione ad una rivolta
totale delle ultime regioni occupate: Barsente fuggiva
in India, oltre i confini mentre l'esercito macedone
muoveva alla volta della capitale drangiana di Frada (Farah).
Cospirazioni: la fine della famiglia di Parmenione
Nell’ottobre del 330 a.C., a Frada, ribattezzata Profasia,
avvenne uno dei più grandi scandali del regno, che
comportò l'esecuzione di Filota e l'assassinio di suo
padre Parmenione.
Alessandro, forse in relazione al tradimento di Barsaente
o qualche tempo prima, aveva iniziato ad adottare
delle modalità tipiche della corte persiana che si
fondevano con quelle macedoni: il diadema argeade
diventava doppio, alla tunica a strisce bianche e
la cintola persiane coniugava il mantello e la
kausia che invece erano tipicamente macedoni.
Ma rifiutò
di portare i paramenti del Gran Re, come la tiara,
la kandys e i pantaloni larghi.
Inoltre richiese che i Compagni indossassero abiti
scarlatti in uso ai cortigiani persiani e
introdusse l’uso di cerimonie di corte che
fossero espletate da un gruppo di nobili persiani,
guidato dal fratello di Dario, Ossiatre.
In realtà intendeva fondare un regno nuovo, che
fondesse nel culto della propria persona razze,
società e costumi differenti, per cui non
disdegnava di adottare aspetti da lui apprezzati
del cerimoniale persiano, come pure usanze dei
popoli che veniva a scoprire e che gli risultavano
gradite.
Iniziò pure a rendere accessibile alla sua persona
i sudditi Asiatici e a reclutare questi
nell’esercito sotto il suo comando, tenendoli in
reparti rigorosamente distinti da quelli macedoni.
Questi provvedimenti, lo resero particolarmente
inviso alle truppe macedoni, che consideravano
questo cambiamento sia moralmente indecoroso
(abbandono dei costumi ancestrali per adottare
quelli di popoli considerati inferiori e corrotti)
che politicamente pericoloso.
Lo spazio dato ai nuovi sudditi Asiatici,
l’introduzione di cerimonie in cui il subordinato
diventava un suddito inchinandosi davanti al Re
con la proskynesis, erano visti da molti
ufficiali come una minaccia per le loro libertà e
privilegi. Alessandro cercò di introdurre queste
novità nel modo più cauto, dapprima adottando i
costumi Persiani quando riceveva i nuovi sudditi
in privato, poi anchein pubblico, ma senza
pretendere le stesse forme di adorazione (cioè la
proskynesis) anche dai Macedoni, con i
quali continuava a trattare con la stessa
familiarità di prima. Tuttavia non poté evitare
che nell’esercito serpeggiasse un malcontento
sempre maggiore, che avrebbe trovato modo di
manifestarsi più tardi in congiure e
pronunciamenti.
Alessandro voleva creare un nuovo impero, unendo fra loro
i diversi popoli sottomessi. Per raggiungere
questo scopo, egli doveva apparire come il vero
erede dei grandi imperatori persiani. Quindi, egli
stesso prese in moglie dapprima la principessa
persiana Rossane, poi Statira, la figlia di Dario
e favorì i matrimoni dei Macedoni con donne
persiane. Lasciò inoltre molti governatori di
Dario al loro posto e arruolò nel suo esercito
numerosi soldati e comandanti persiani.
Per la prima volta, i greci furono considerati
membri del suo impero e non più i preziosi alleati
che erano stati in precedenza. I Macedoni non solo
furono contrariati dalla sua adozione di costumi
Orientali, ma ancora di più dalla nomina di
ufficiali Orientali. Ci fu un certo numero di
cospirazioni e ribellioni, ma Alessandro fece
fronte a tutte. Il grosso dei problemi proveniva
dagli ufficiali, mentre le truppe rimanevano
fedeli fino alla venerazione. |
In questo modo intendeva sottolineare le proprie
rivendicazioni sul trono, legittimo successore dei
monarchi persiani, appannaggio del quale si era posto
il fratello del suo precedente avversario, inoltre
tentava, con un’abile mossa di propaganda, non solo di
sottrarre il favore del popolo a Besso, ma anche e
soprattutto di attirare i favori su di se.
Alessandro però aveva piena fiducia nei macedoni, convinto
che non lo avrebbero mai potuto tradire, sarebbero
stati recalcitranti, forse, ma non lo avrebbero mai
abbandonato. I macedoni, aveva già dimostrato la loro
intenzione a non proseguire verso oriente, e, almeno
la parte più conservatrice non vedeva di buon occhio
questa conversione al protocollo persiano.
La fedeltà comunque era indiscutibile e non ci fu
opposizione, Parmenione si trovava in Media, e dopo
la cavalleria mercenaria e i volontari tessalici che
aveva comandato presto anche la fanteria falangita
sarebbe stata comandata di abbandonare Ecbatana per
unirsi ad Alessandro, gli rimanevano solo i mercenari
traci.
Probabilmente le cause di una situazione tremenda che si
venne a trovare all’interno dell’entourage di
Alessandro, si devono ricercare nella morte del figlio
di parmenione, Nicanore, comandante degli ipaspisti,
il quale morì di malattia all'inizio della marcia di
Alessandro contro Besso, era l'ottobre del 330 a.C.
Contro ogni forma di rispetto, accecato dai suoi piani,
ormai miopi, il re rifiutò di fermarsi per le esequie,
e abbandonò il solo Filota affinché gli desse
sepoltura ed onori. Forse, per la prima volta, non
avendo nessun membro della famiglia di Parmenione
vicino, Alessandro iniziò ad adottare il cerimoniale
di corte persiano.
La vicenda di Filota, ci è nota dai testi di Arriano (che
si basa su Tolomeo e Aristobulo) e Curzio Rufo.
Sembrava certo che parte della nobiltà macedone al
seguito del Re stesse organizzando un complotto per
uccidere Alessandro.
Questo venne organizzato da alcuni personaggi della cerchia
reale, che non conosceremo mai. Sappiamo solamente che
un tal Dimno, figura secondaria, tentò di coinvolgere
nell’attentato Demetrio, una guardia del corpo di
Alessandro e suo favorito, il quale si spaventò e
chiese aiuto al fratello Cebalino affinché sventasse,
senza coinvolgimenti di sorta, la congiura.
Cebalino si rivolse allora a Filota perché fungesse da
intermediario presso il Re. Nonostante le reiterate
richieste di Cebalino, Filota non intervenne, e il
cortigiano avvicinò direttametne il Re, il quale
decise per l’arresto immediato di Dimno, che si uccise
(o fu ucciso) subito dopo l’ordine d’arresto.
Anche Filota venne arrestato dopo che si tenne un consulto
con i più intimi: Cratero, Efestione e Ceno; in
seguito si dispose che fosse giudicato dall'esercito.
Ciò che risulta strano, e che viene considerato atto di
colpevolezza, è il silenzio di Filota, e che
conseguenzialmente a sua volta è ritenuto uno dei
cospiratori, il quale si difese dicendo che aveva
considerato il racconto di Cebalino era un prodotto
assai fantasioso della sua immaginazione:
probabilmente sapeva ma non parlò, il fatto che sul
punto di morte abbia incolpato un altro membro del
complotto lo rende per lo meno consapevole di una
parte consistente della situazione.
Cratero per ottenere ancora dati corruppe l'amante di
Filota venendo a sapere della delusione e
disaffezione che il figlio di Parmenione covava al suo
interno. Quindi il generale in seconda insistette
veementemente, e alquanto stranamente, per la sua
eliminazione e organizzandone addirittura l’arresto.
Il processo fu tenuto di fronte un'assemblea dell'esercito
costituita forse da 6000 soldati. Alessandro accusava
direttamente Filota addirittura di aver organizzato la
cospirazione.
La difesa era composta dai comandanti della falange,
Aminta, figlio di Androgene, e Ceno, cognato di Filota;
mentre dalla parte dell’accusa si poneva tra gli altri
un ufficiale inferiore, Belone, popolare tra le truppe
che ricordava a tutti, durante il discorso di difesa
di Filota, la sua notoria arroganza.
L'assemblea invocò dunque la pena di morte. Filota
sottoposto a interrogatorio, fece svariate ammissioni
di slealtà, tra le quali alcune riguardavano i
colloqui sediziosi tra Parmenione ed Egeloco, defunto
nel 330 a.C. Questo non costituiva un atto d’accusa
verso il vecchio generale, ed Alessandro fu costretto
ad utilizzare l'assassinio politico, anche perché il
padre che fosse sopravvissuto ad un figlio condannato
a morte, avrebbe potuto creare innumerevoli problemi.
Il Re inviò allora ordini direttamente ad Oleandro, Menida
e Sitalce comandanti dei veterani, dei mercenari e dei
traci rimasti a Ecbatana e fratello di Ceno, uno dei
principali artefici dell'arresto di Filota. A lui
vennero inviate le istruzioni per l'assassinio. Dopo
11 giorni di viaggio su dromedari veloci, il
dispaccio raggiunse la capitale della Media, e
Oleandro e i suoi compagni agirono immediatamente,
uccidendo l'anziano generale mentre stava leggendo una
lettera del suo re. Contemporaneamente Filota dopo
essere stato torturato, veniva lapidato a morte
insieme ai cospiratori accusati da Cebalino.
Certamente Parmenione e forse i suoi figli, non avevano
approvato parte degli orientamenti di Alessandro come
ogni volta il Veterano aveva sempre avuto da ridire
sulle sue scelte tattiche e strategiche probabilmente
disapprovava la nuova visione ecumenica del sovrano.
In generale, il Re fu sempre molto leale nei confronti dei
singoli del proprio entourage, e diede sempre loro più
di una chance, esemplificativo fu il caso di Arpalo,
che lo deluderà più volte prima di scatenare la sua
ira.
A questo punto Alessandro iniziò a diventare sospettoso: si
procedette ad accusare i figli di Andromene (Aminta,
Simmia e Attalo) che erano stati intimi di Filota ed
erano rimasti pericolosamente compromessi quando il
loro fratello minore, Polemone era fuggito dal campo.
I nemici di Aminta lo avevano accusato di collusione ma si
difese talmente bene che fu prosciolto, dopotutto
Aminta aveva partecipato alla messa in stato d'accusa
di Filota.
Altra vittima invisa, fu Alessandro il Lincestide,
imprigionato e processato per tradimento dopo tre anni
d’isolamento e incorso nell’incapacità di difendersi,
venne sommariamente giustiziato. Benché fosse genero
di Antipatro, era stato preferibile eliminarlo. Il Re
chiariva una volta per tutte che l'opposizione, almeno
quella subdola, non sarebbe stata tollerata, e che la
slealtà sotto qualsiasi forma sarebbe stata punita con
la massima durezza.
A questo punto era necessario rivedere l’ordinamento
gerarchico-militare: venne attuato un processo di
frammentazione. Incominciò col riorganizzare le Hai
dei Compagni, Filota fu rimpiazzato da due ipparchi a
capo di due ipparchie di un migliaio di uomini
ciascuna, a capo delle quali pose, rispettivamente,
Efestione e Clito il Nero.
Con una diarchia combinata di vecchio e nuovo, un ufficiale
della vecchia guardia ed una figura emergente avrebbe
impedito nella cavalleria degli Hetairoi si
sviluppassero legami con un singolo comandante.
Gli ipaspisti, invece, restarono sotto un unico comandante,
Neottolemo, parente dello stesso Alessandro e
collegato per nascita alla casa reale dell'Epiro.
Allo stesso tempo, i coetanei di Alessandro acquisirono una
migliore posizione a corte, spodestando gli elementi
della generazione di Filippo. Tolomeo, figlio di Lago,
che era stato esiliato nel 337/36 a.C., in seguito
allo scandalo di Pissodaro, fu nominato capo delle
guardie del corpo al posto di Demetrio. Alessandro
istituì allora una speciale compagnia disciplinare,
nota come “unità di insubordinazione”, a cui veniva
deferito ogni militare macedone che avesse espresso
critiche.
Alessandro era ora pronto a lanciarsi in una campagna molto
dura di due anni in Afghanistan, spingendosi a nord
fino al fiume Oxus. Questo paese era selvaggio, duro e
i suoi abitanti erano cavalieri formidabili. Sembrava
che Alessandro non si volesse fermare mai. Alla fine
della campagna annuncerà la sua intenzione di invadere
l'India. |