N. 11 - Aprile 2006
ALESSANDRO
MAGNO. ALESSANDRO III DI MACEDONIA
Dalla Siria all’Egitto (332 a. C.)
–
Parte VII
di
Antonio Montesanti
La grande vittoria ottenuta
su
Dario
schiuse prospettive immense per Alessandro: gli
apriva la strada verso la Siria ad est e l’Egitto a
sud.
La guerra navale nell’Egeo
Mentre a Tiro il fronte rimase fermo per sette mesi,
nell’Egeo le forze Persiane si battevano con sempre
minore speranza contro i Macedoni, poiché la
vittoria ad Isso rifletteva positivamente i suoi
effetti anche ad ovest, nell’area greco-egea: in Asia
Minore, Farnabazo con la sua potente flotta di stanza
a Chio oltre a creare problemi ai sottoposti di
Alessandro, si stava accordando con il re spartano
Agi.
Lo
spartano ed il persiano appresero della disfatta di
Isso durante l’incontro nell'isola dell'arcipelago
delle Cicladi di Sifso. Qui i due si stavano
accordando per le sovvenzioni che il Gran Re avrebbe
dovuto elargire ai Lacedemoni per condurre la guerra
contro Antipatro. La notizia della disfatta obbligava
di fatto Famabazo a tornare immediatamente a Chio e a
controllare che le città asiatiche costiere dell'Egeo,
che era riuscito a riportare sotto il controllo
persiano, non si ribellassero.
Con lo spartano lasciò il proprio luogotenente
Autofradate e limitava le sovvenzioni previste a dieci
navi e trenta talenti d'argento anziché d’oro. Agide,
vista la situazione, le inviò a Sparta, al fratello
Agesilao, ordinandogli di concentrare tutte le risorse
a Creta dove avrebbe atteso i mercenari scampati a
Isso, e che con essi ritornasse a Sparta.
Ne avrebbe potuti raccoglier molti di più se gran
parte di questi soldati non avesse ceduto alle
lusinghe del loro comandante Aminta e non si fossero
recati in Egitto. L’intraprendente rinnegato macedone
aveva deciso di ritagliarsi un proprio dominio
personale in questo ricco paese, approfittando del
fatto che il satrapo locale, Sabace era caduto in
battaglia.
Con la sua teppaglia si era impadronito di Pelusio, e
poi di Menfi, millantando di essere venuto a governare
in sostituzione del nuovo satrapo. In verità i
Persiani erano stati abbastanza tempestivi da mandare
un vero sostituto al satrapo caduto di nome Mazace,
che riuscì a prevalere sui mercenari ribelli perché
questi si diedero a saccheggiare la città di Menfi
senza curarsi della reazione del presidio Persiano e
degli Egizi.
I mercenari furono finalmente sconfitti e persero la
vita, ma i disordini da loro creati resero impossibile
a Mazace di organizzare una qualsiasi parvenza di
governo in Egitto, mentre il già bassissimo prestigio
Persiano nell’area venne ulteriormente sgretolato da
questa vergognosa guerra intestina, svoltasi sulla
pelle del popolo.
La
città ed il suo re Agide si proponevano come
grimaldelli antimacedoni all’interno del Peloponneso.
Ma le resistenze all’interno dell’Isola di Pelope
erano troppo forti: Atene si rifiutava di collaborare,
Messene, Argo e Megalopoli erano contro la politica
austera e accentratrice di tipo oligarchico che
colpiva i centri sottomessi o alleati. L’avventura
antimacedone di Agi terminava durante il suo assedio
sotto le mura di Megalopoli soverchiato dall'esercito,
di gran lunga superiore, di Antipatro. Agi morì dopo
aver combattuto a lungo in ginocchio, a causa delle
ferite riportate alle gambe. Con la sua morte, Sparta
non rappresenterà più un problema per il regno di
Macedonia.
Farnabazo, nonostante la leva coscritta di equipaggi
pirati, non riusciva a presidiare tutte le basi
costiere ed i porti conservandoli o sottraendoli
dall’egemonia macedone. Ormai alle strette
l’ammiraglio persiano era costretto a rompere il
blocco egeo dalla parte dei Dardanelli con un
tentativo di forzare l’ingresso all'Ellesponto per
rioccupare quella zona. I due ammiragli macedoni,
Egeloco e Anfotero,
mandati da Alessandro ad allestire di nuovo la flotta,
radunarono 160 navi, con le quali intrapresero una
metodica conquista delle posizioni in mano agli
avversari, che a causa della defezione della flotta
Fenicia non potevano più tenere loro testa.
A Tenedo e a Chio fu la stessa fazione filomacedone a
ribellarsi e a chiamare i Macedoni. Farnabazo non
riuscì a tenere la Troade ma provò a dare supporto ai
suoi alleati in Chio, arrestando gli oppositori e
restaurando il potere del tiranno Apollonide. Ma
quando la flotta macedone cinse d’assedio la città, i
Macedoni riuscirono a fare breccia nelle mura e con
l’aiuto della fazione a loro favorevole, conquistarono
la città
sconfissero facilmente
la guarnigione persiana che fu passata per le armi;
3000 mercenari Greci furono fatti prigionieri e
arruolati nell’esercito vincitore, e 42 navi caddero
in mano ad Egeloco.
Farnabazo e i governanti filopersiani di Chio furono
arrestati, anche se il primo riuscì a fuggire e a far
perdere le proprie tracce.
Così iniziava anche la riconquista, che da adesso sarà
definitiva, dei centri costieri da Mileto a Chio.
La potenza persiana Nell’Egeo fu cancellata dalla
disfatta di Chio, che rese inevitabile la caduta di
Mitilene e di Cos, quest’ultima liberata da Anfotero;
qui il comandante della guarnigione, l’ateniese Carete
consegnò la città dopo essersi assicurato l’incolumità
per sé e per i 2000 Persiani di guarnigione che non
furono trucidati come a Chio.
La guerra nell’Anatolia Orientale
Il
terzo fronte ad occidente era costituito dai settori
centrale e settentrionale dell’Asia Minore che
Alessandro aveva lasciato ad Antigono. I persiani, che
operavano nelle regioni dalle avverse condizioni
logistiche, con
la collaborazione di Ariarate di Cappadocia
che agiva anche in Paflagonia, non solo coscrivevano
alla leva i locali, ma videro giungere di lì a poco i
molti scampati di Isso.
La lotta si svolse in Licaonia e vide come
protagonista Antigono Monoftalmo, satrapo di Frigia,
che in tre battaglie sbaragliò gli eserciti nemici
assicurando la regione al dominio macedone, mentre a
nord
l’enorme numero di soldati orientali venne facilmente
sconfitto dall’abilissimo Calate, il quale li affrontò
e sconfisse. Poco dopo aver assolto il proprio dovere,
lo stratega macedone perderà la vita nel tentativo di
sottomettere le ultime satrapie indipendenti o
filopersiane: la Misia, la Paflagonia e soprattutto la
Bitinia che sancirà la definitiva indipendenza del
regno.
Medesima sorte sarebbe capitata a Balacro nel
tentativo di pacificare la Pisidia. I territori
orientali dell’Asia Minore e le città pontiche di
Calcedonia, Sinope ed Eraclea, sarebbero rimaste
ancora sotto l’egida filopersiana.
Alessandro poteva adesso riorganizzare definitivamente
le zone sotto il controllo macedone ripristinando il
sistema di satrapie, ma limitandone i poteri civili e
quelli finanziari dei singoli governatori, affiancati
da un soprintendente alle finanze; i nuovi satrapi,
che altro non erano che suoi generali, avevano solo il
compito effettivo di rendere sicuri i confini della
regione di pertinenza e governare secondo le leggi
greche di democrazia.
Le
città venivano considerate “alleate”, dispensate dal
tributo in danaro“volontario”, ossia corrisposto sotto
forma di beni in eccedenza, che al contrario di quello
persiano era imposto o obbligato, entravano a far
parte della Lega di Corinto, e solo ad alcune, a
quelle più infide, venne imposta una guarnigione.
Le
tasse solo in minima parte venivano accentrate dalla
parte militare e venivano riversate in mano dei
signori e governanti minori, lasciati al loro posto, e
tramite l'intendente delle finanze, venivano
ridistribuite direttamente ai contadini sotto forma di
servizi. In questo modo veniva di fatto invertito
l’ordine accentratore del sistema fiscale persiano.
Siria, Fenicia (Libano), Palestina
Una volta sbaragliati tutti i nemici, convinto e certo
della fuga dei sopravvissuti avversari, Alessandro
proseguì la sua marcia verso il meridione,
attraversando il cuore della Siria, della Fenicia
(Libano) e della Giudea (Palestina), con gli occhi che
miravano all’Egitto ed i il cuore all’ Oriente, verso
gli altipiani iranici.
Nel mese successivo alla battaglia vennero
riorganizzate le regioni sottratte:
la
Cilicia e la Siria settentrionale vennero lasciate
nelle mani dei Compagni, Balacro e Menone. A Damasco,
si lasciò precedere da Parmenione il quale, affiancato
dalla fedele cavalleria tessala, trovò oltre alle
porte spalancate, anche gli harem dei generali
persiani.
Alessandro che arrivò poco dopo, riservò un
trattamento regale a tutte le donne avversarie e ad i
loro entourage. Scelse per sé la vedova di Memnone,
Barsine, sorella di un dignitario persiano, dalla
quale avrebbe avuto un figlio, chiamato Eracle in
onore di colui che riteneva il proprio antenato.
Inoltre concedeva la libertà anche agli ambasciatori
greci che trovò in città, ad eccezione di quelli
spartani.
Lasciata Damasco, entrò in Fenicia,
occupandola avrebbe chiuso il discorso navale, visto
che proprio dai sui porti e dalle sue foreste di cedri
prendevano il mare le navi Persiane che ancora
infestavano l’Egeo.
Regione fiorente e fondamentale a livello strategico e
finanziario, la Fenicia (Libano) aveva almeno 25
centri costieri di cui almeno un quinto di essi
avevano fatto la storia del Mediterraneo. Erano retti,
secondo il costume fenicio da singoli re (mlk),
monarchie indipendenti solo a livello teorico,
asserviti ai persiani nel servizio della flotta
imperiale.
Per il conquistatore, il controllo di quel territorio
aveva un’importanza strategica decisiva, sia come
corridoio di verso l'Egitto, sia come base navale
dispensatrice di flotte, sia per l’atteggiamento degli
abitanti, secondo il costume fenicio, piuttosto
inclini a passare con facilità da una parte o
dall’altra a seconda delle situazioni.
Qui ricevette subito la resa di Arado su decisione del
suo principe ereditario: Stratone, figlio di
Gerostrato che era impegnato contro i Macedoni
nell’Egeo a fianco dei Persiani. Arado,
città costruita su un'isola, era la più importante
della costa settentrionale; con questa scelta evitò la
presenza della guarnigione macedone. Quindi proseguì
verso sud e si fermò sulla costa verso sud a Marato
(l'attuale 'Amrītove), città costiera della costa
siriaca che lo ricevette aprendogli le porte, grazie
anche all'assenza del suo re, impegnato anch’egli con
la flotta persiana.
Qui ricevette il primo approccio diplomatico da parte
di Dario in una lettera, in cui il Gran Re lo accusava
di aggressione ingiustificata, invocando una pace
negoziabile, iniziando dall’offerta di restituzione su
riscatto delle sue donne e della propria famiglia,
senza fare concessioni territoriali
se non quelle già in possesso del macedone, ossia
cedendogli il territorio al di là del fiume Halys
in Asia Minore.
Si
mostrava disposto comunque a trattare Alessandro come
amico e alleato. Questa negoziazione era di per sé
umiliante per il re di Persia, che per definizione non
aveva pari e dettava semplicemente le condizioni ai
suoi inferiori.
Queste piccolezze non interessavano al giovane
conquistatore: era vincitore di due scontri epocali ed
ancora capace di offendere. L’argeade poneva sul
piatto della bilancia, in ordine di importanza: le
vittorie negli scontri diretti, il possesso quasi
totale dell’Asia Minore, quello venturo del Medio
Oriente e dell’Egitto, un bottino di guerra
esorbitante e i ginecei persiani. Nell'eccitazione
della vittoria e dei fatti, era lui a dettare leggi e
regole della negoziazione.
La
proposta persiana era totalmente inaccettabile e la
risposta non prevedeva compromessi ma esclusivamente
una resa incondizionata:
Alexandros Dario chaire
“I
vostri antenati, entrati in Macedonia e nel resto
della Grecia, fecero a noi del male senza aver subito
in precedenza ingiustizia; io allora, scelto come capo
dei greci e volendo punire i persiani, sono passato in
Asia, essendo stati voi a cominciare. Infatti
prestaste soccorso ai Perinti, che facevano torto a
mio padre, e Ochos mandò un esercito in Tracia, su cui
avevamo il potere. Poiché mio padre morì per mano dei
congiurati' che voi organizzaste, come voi stessi vi
gloriaste nelle lettere inviate a tutti, poiché tu
insieme a Bagoa eliminasti Arsete e ti impadronisti
del potere contro giustizia e non secondo la legge
persiana ma facendo torto ai persiani, e poiché
mandasti ai Greci uno scritto sconveniente sul mio
conto, perché mi muovessero guerra; poiché inviasti
denaro ai Lacedemoni e ad altri Greci, e mentre
nessuna altra città accettava, i Lacedemoni lo
presero, poiché i tuoi messi corruppero i miei amici e
tentarono di far saltare la pace da me preparata ai
Greci, ho fatto una spedizione contro di te perché tu
apristi le ostilità. Avendo vinto in battaglia
dapprima i tuoi generali e satrapi ora te e il tuo
esercito, occupo anche il paese per concessione degli
dei mi prendo cura di quanti schierati con te non sono
caduti in battaglia, ma si sono rifugiati presso di me
non contro volontà ma di buon grado combattono dalla
mia parte. Se invece temi, venendo, di patire qualcosa
di sgradevole da parte mia, manda qualche amico a
prendere garanzie. Venendo da me chiedi la madre, la
moglie, i figli e quant’altro vuoi e avrai. Sarà tuo
ciò che mi convincerai a concederti. E d'ora in poi
quando ti rivolgi a me, fallo come al re dell’Asia e
non scrivermi da pari a pari, ma, se hai bisogno di
qualcosa, dimmelo come al signore di tutte le tue
cose, in caso contrario deciderò di te come di uno che
è in colpa. Se hai da obiettare sul regno, resta pure
e battiti per esso e non fuggire, perché io ti
raggiungerò dovunque ti trovi.”
In
quella guerra egli non era l'aggressore, ma vendicava
soltanto i torti commessi dai Persiani: l'invasione
del 480 a.C., il sostegno dato a Perinto nel 340 a.C.
e l'istigazione a uccidere Filippo. Non era tutto.
Dario era un usurpatore del trono persiano, una
creatura di Bagoa, e ora Alessandro aveva stabilito il
suo diritto al regno d'Asia, riconosciuto dai nobili
persiani al suo servizio. Di conseguenza era disposto
a parlamentare solo se Dario si fosse accostato a lui
come assoggettato alla sua maestà.
Altrimenti, la questione sarebbe stata decisa sul
campo di battaglia. Ciò chiuse i negoziati, e Dario
cominciò a formare un secondo esercito per difendere
la Mesopotamia dall'invasore.
L’assedio di Tiro
Alessandro, noncurante delle mosse dell’avversario
continuò la sua marcia attraverso la Fenicia. Biblo e
Sidone gli aprirono entusiasticamente le porte; a
Sidone il re, Stratone II, amico di Dario, fu deposto
dagli stessi cittadini che ne avevano invocato il suo
arrivo.
Più a sud giunse a Tiro città di storia
ultramillenaria, avamposto settentrionale commerciale
dell'Egitto fino al 1200 a.C., epoca nella quale era
stata colonizzata da Sidone, superandola in seguito
per prestigio, almeno fino alla conquista assira, che
aveva fatto precipitare le quotazioni dei centri della
costa libanese a vantaggio della colonia di Cartagine.
La
città si ergeva su due isole, con quella
settentrionale assai più grande dell'altra, unite
artificialmente almeno sette secoli prima dell'arrivo
di Alessandro sulla quella meridionale, più piccola,
si stagliava il tempio di Melqart. La città nuova,
distante poco più di settecento metri dalla terraferma
disponeva di mura possenti su ogni lato alte 150 piedi
(poco più di 40 mt.!) ed era servita inoltre da due
porti, l'uno a nord-est verso Sidone, l'altro a
sud-est verso l'Egitto.
Tiro offriva di sottomettersi mandando una delegazione
di maggiorenti ed inviata dall'assemblea cittadina che
aveva deliberato di favorirlo in ogni modo, in assenza
del re Azemilk. La trattativa proseguì per il meglio,
vennero anche offerti una corona d'oro al
conquistatore e copiosi rifornimenti al suo esercito.
Alessandro aveva capito che nell’atteggiamento dei
Tiri c’era qualcosa di strano e decise probabilmente
di metterli alla prova. Alessandro espresse allora il
desiderio di offrire un sacrificio rituale nel tempio
dedicato al dio della città Melqart, a cui la città
era votata e che era identificato con il greco Eracle,
fondatore della dinastia Argeade.
Era il febbraio 332 a.C., e si stavano svolgendo i
riti sacri proprio in onore del dio. Per ambedue le
fazioni, il sacrificio che Alessandro avrebbe svolto
avrebbe rappresentato una manifestazione della sua
sovranità.
Con questa mossa il giovane metteva in chiara
difficoltà i Tirii sulle loro reali intenzioni: per
questo la stessa assemblea lo invitava a celebrare
nella Tiro Antica, sulla terraferma, specificando che
la loro disponibilità non riguardava l'entrata in
città, che era preclusa a lui come ai Persiani, fino a
quando l'esito del conflitto non avesse preso una
piega più definita. In questo modo si svelavano le
reali intenzioni dei fenici: una velata neutralità.
Questo bastava ad al principe macedone per predisporre
l’assedio della città insulare. Avrebbe sacrificato al
dio Melqart quale che fosse il costo che occorreva
pagare, non prima di aver spiegato
al suo stato maggiore la necessità e i vantaggi di
occupare Tiro, nonché i pericoli e che avrebbe
comportato il lasciarsi dietro una città nemica.
Infatti, in caso di vittoria l’ultima base navale
disponibile per i Persiani sarebbe caduta, e i Fenici
avrebbero spontaneamente consegnato le flotte che
erano ancora con Farnabazo e Autofradate.
Arriano dice che essendo separata dalla terraferma da
un braccio di mare largo quattro stadi «non
potevano essere scagliati colpi se non da lontano e a
bordo di navi, né venire appoggiate scale alle mura,
le cui pareti a strapiombo sull'acqua avevano tolto
ogni speranza all'avanzata della fanteria».
Gli abitanti erano oltretutto convinti che neanche
questa volta nessuno sarebbe entrato nella città
nuova, perché certi dell'appoggio cartaginese promesso
da alcuni rappresentanti della città punica che si
trovavano lì per sacrificare anch'essi a Melqart: si
sentivano talmente sicuri di poter resistere al
conquistatore proveniente dall'Europa che tutto aveva
travolto fino ad allora, che massacrarono i messi
inviati.
Alessandro, infuriato, disse di aver sognato che
Eracle lo aiutava a entrare in città e, sebbene ciò
gli avesse infuso ulteriore ottimismo sull'esito
dell'impresa, i suoi indovini gli fecero notare che la
presenza del semidio nel sogno stava a indicare la
grande fatica che la conquista gli sarebbe costata,
come tutte e dodici le fatiche di Eracle.
La
sola soluzione che gli permettesse di utilizzare il
cospicuo parco di macchine ossidionali che aveva a
disposizione era la costruzione di un grande molo
d'assedio, impresa tentata oltre due secoli e mezzo
prima, ad opera di Nabucodonosor, il quale per ben
tredici anni ne aveva tentato la conquista, senza
riuscirvi. L'assedio, entrato immediatamente in una
fase di stallo per la superiorità marittima degli
assediati, venne così inaugurato dalla costruzione di
un molo, la cui solidità avrebbe reso Tiro una
penisola fino ai giorni nostri.
Si
trattava, in sostanza, di unire l'isola alla costa e
renderla così accessibile alle elepoli, alle catapulte
e agli arieti da almeno un lato e per fare ciò
predispose la distruzione sistematica dell'Antica
Tiro, cinque chilometri a sud della città, per avere
materiale di riempimento.
I
lavori, che dovevano coprire una distanza di oltre 700
metri, partirono dal lato della terraferma, e non solo
perché chi vi lavorava era al di fuori della portata
del tiro dei difensori. A ridosso della costa,
infatti, i fondali erano estremamente bassi e pieni di
fango, e ciò facilitava l'opera dei genieri, poiché la
melma cementava le pietre che essi gettavano in gran
quantità, e consentiva loro di piantare i pali di
contenimento con estrema facilità. Per il legname,
necessario all'allestimento di torri e zattere, venne
praticamente disboscato l'immediato entroterra
libanese.
Quando la costruzione arrivò all'acqua più profonda
circa cinque metri e mezzo a ridosso della città, nei
pressi delle mura, l'opera ebbe difficoltà a
proseguire perché i Tirii ostacolavano i costruttori.
Vennero disposte a protezione dei “riempitori”, due
grandi torri d'assedio che vennero facilmente bruciate
quando i Tirii con l’aiuto della brezza marina
spinsero una vera e propria nave incendiaria contro
l'estremità del molo, distruggendo completamente le
torri.
Ulteriore danno venne da una burrasca equinoziale che
disgregò parte dell'infrastruttura. La concatenazione
degli eventi negativi era un disastro, per i macedoni
e non tutti avevano la forza e l’entusiasmo per
ricominciare.
Alessandro ordinò una immediata ripresa dei lavori,
stavolta su una base più estesa di circa sessanta
metri, affinché potesse ospitare più macchine
d’assedio. E nonostante il cambiamento di strategia e
tecnica costruttiva le difficoltà create dai Tirii
furono notevoli.
veri e propri “sommozzatori” fenici agganciavano e
trascinavano via cedri interi del Libano che, una
volta gettati in acqua, avevano la funzione di vere e
proprie gabbie di contenimento per il materiale di
costruzione.
Al
giovane re serviva una flotta a protezione del suo
progetto che appoggiasse le operazioni e sbaragliasse
quella nemica a protezione. La fortuna del macedone fu
data dal fatto che, quando all'inizio dell'estate i
disertori dalla flotta egea si sciolsero e
tutti i comandanti Fenici che militavano nella flotta
Persiana defezionarono.
Azemilco accorse con le sue navi per difendere la
propria città, ma il Re di Sidone consegnò la sua
flotta ad Alessandro, imitato da tutti i Re di Cipro e
dalla città di Rodi, che mandò due navi.
Approfittando dell’alleanza con Sidone e
dell’assoggettamento formale di Cipro, si costituì al
suo comando una flotta di 224 navi, comprese le
gigantesche quadriremi e quinqueremi, di cui la
maggior parte proveniente dalle città cipriote di
Salamina, Curio e Amato. La presenza di una flotta
rappresentava la svolta nell'assedio.
In
questo modo i Tirii vennero bloccati all’interno della
loro isola, mentre gli ingegneri militari,
specialmente il geniale Diade, ormai liberi di
operare, costruirono il più formidabile arsenale
offensivo mai visto negli assedi antichi. Le macchine
belliche vennero condotte a ridosso delle mura
attraverso la costruzione di torri d'assedio montate
su navi e catapulte a torsione capaci di scagliare
pietre di considerevoli dimensioni.
Inoltre venivano congiunte le navi più grandi in modo
che vi fosse la maggior distanza fra loro e lo spazio
vacante veniva colmato tramite assi sulle quali erano
costruiti dei ponti che avevano la funzione di immense
piattaforme mobili sul mare, dalle quali i soldati e i
genieri potevano attaccare le mura da vicino.
Dall’altra parte i Tirii intanto si preparavano al
peggio, approntando delle difese adeguate:
rafforzavano le mura nei punti più vulnerabili,
installavano basi di lancio per le frecce incendiarie,
fissarono schermi difensivi in legno o cuoio per
attutire l'impatto dei colpi e ruote rotanti che
intercettassero i dardi nemici.
Prima del grande assedio si ebbe un rallentamento
delle azioni militari, una sorta di quiete “prima
della tempesta”.
Alessandro da buon calcolatore, con Parmenione si
preoccupava di “pacificare” il territorio circostante,
nel cuore della Siria, e lungo la catena dell'Antilibano,
dove assoggettò diversi centri arabi, perché non
lasciasse alcun potenziale nemico in grado di
infastidire le operazioni d’assedio.
In
un giorno imprecisato del luglio 332 a.C., cominciò
l'attacco che coincideva con la notizia giunta da
Cartagine che i fenici d’Africa erano troppo impegnati
a occidente contro un attacco da parte di Siracusa e
quindi incapacitati a mandare alcun rinforzo.
Il
tempo perso vanificò l’opera del molo d'assedio:
questo si dimostrò al momento dell’attacco inutile,
infatti gli assediati avevano eretto un contromuro
interno e ne avevano riempito l’intercapedine di terra
e pietre spessa cinque metri proprio in quel settore
destinato a subire i colpi delle macchine: la difesa
non poteva essere scardinata.
Alessandro aveva iniziato a pensare di procedere verso
l'Egitto rinunciando a espugnare la città; fu
l'orgoglio a indurlo a un ultimo tentativo: venne
quindi programmato l'assalto finale: un approccio
lungo il lato meridionale, contro quella che era stata
l'isola più piccola, che fino ad allora aveva
trascurato.
In
quel punto ne bersagliò le mura che cedettero, nella
parte sud della cinta muraria, dove l'attacco fu
lanciato con arieti montati su nave, fino a quando non
si aprì una breccia nella fortificazione. I Tirii
reagirono e non permisero agli scalatori di
conquistare le mura: il primo tentativo di
scardinamento era fallito.
Il
condottiero prese poi posto su una delle due navi, cui
aveva assegnato il compito di condurre l'attacco
principale, disponendosi come per terra in prima
linea, come faceva sempre e come non aveva fatto
durante quest’assedio. La breccia venne ingrandita e
una volta bonificate le mura dai difensori.
Tra i primi a raggiungere gli spalti ci fu Admeto,
l'ammiraglio che comandava la nave di Alessandro, il
quale, però, fu trafitto da una lancia. Dopo di lui lo
stesso condottiero e gli ipaspisti irruppero nella
città gettandovi delle passerelle che gli
consentissero di penetrarvi dalle navi seguiti dal
battaglione della falange (taxeis) comandato da
Ceno.
Anche gli attacchi ai due porti si rivelarono un
successo per gli assedianti. Se in quello meridionale
i fenici riuscirono solo a spezzarne le barriere
sott'acqua e a danneggiarne alcune navi che lo
presidiavano, in quello che dava verso Sidone i
marinai ciprioti si valsero dell'assenza delle
barriere per penetrarvi e permettere ai soldati che
trasportavano di entrare in città anche da nord.
La
resistenza dei difensori si concentrò quasi a ridosso
della punta nord, nel cosiddetto Agenorio, la
cittadella intitolata a colui che si riteneva avesse
fondato Tiro e Sidone, dove conversero in più riprese
dopo aver abbandonato gli spalti ritenuti ormai
indifendibili.
La
città era caduta.
La
popolazione venne sistematicamente massacrata. 8000
difensori vennero uccisi, di cui 2000 vennero
crocifissi lungo la costa, a monito di coloro che si
fossero opposti. 30.000 abitanti e di chiunque altro,
anche straniero, si trovasse entro le mura al momento
della conquista vennero ridotti in schiavitù eccetto i
cartaginesi venuti a presenziare le feste della
madrepatria in onore di Melqart, vennero lasciati
liberi di rientrare in Africa: pur congedandoli,
Alessandro considerava gli atti di Cartagine come
ostili, e minacciava il loro impero di future
rappresaglie.
Alessandro allora iniziò i riti propiziatori al grande
Eracle: una sontuosa processione, in cui l'esercito e
la flotta sfilavano ad insegne spiegate, una
manifestazione atletica ed una fiaccolata notturna
avrebbe concluso le celebrazioni.
Solo adesso, tra le rovine fumanti della città
devastata il re offriva il suo sacrificio volutamente
ironico a Melqart, come si era prefissato: la macchina
d'assedio che aveva aperto e scardinato le mura della
città di cui era protettore.
In quel periodo il macedone ricevette nuove proposte
di pace da parte del Gran Re che aveva saputo
evidentemente dei fatti di Tiro. In
una nuova lettera Dario, più accomodante che nella
precedente, gli presentava l'offerta di un riscatto di
10.000 talenti per
il riscatto dei familiari reali, e gli
"concedeva" tutti i territori a ovest dell'Eufrate,
nonché
la mano della figlia Statira e la
qualifica di alleato.
Questa volta le offerte furono presentate al consiglio
degli Eteri così com’erano e scatenarono un dibattito.
In questa occasione si svolse una delle battute più
memorabili del giovane eroe, riportata da Plutarco.
Parmenione, quando gli fu letta la lettera, la
commentò dicendo: “O giovane, se io fossi in te
accetterei le proposte di Dario”; e Alessandro gli
rispose: “Anziano e saggio Parmenione, anch’io se
fossi in te accetterei…”.
Disse infatti di non aver bisogno delle ricchezze di
Dario, né di accettare una parte invece di tutto il
territorio, poiché le ricchezze e tutta la regione gli
appartenevano; se lo desiderava avrebbe sposato la
figlia di Dario anche se lui non gliel’avesse data in
sposa. Se proprio Dario voleva ottenere benevolenza si
recasse (come supplice) presso di lui.
Dopotutto, per la seconda volta, Dario non gli
concedeva nulla che Alessandro non si fosse già
conquistato da solo.
In realtà secondo il punto di vista dei nobili
Macedoni, di cui Parmenione era portavoce, la
spedizione che doveva dare nuove terre da colonizzare
e sfruttare, nonché posti di comando aveva pienamente
raggiunto lo scopo.
Se Alessandro avesse accettato gli accordi si sarebbe
potuto finalmente procedere alla distribuzione dei
terreni. Dal punto di vista della “vendetta” contro le
guerre mediche e della liberazione dei Greci soggetti
ai barbari i patti erano stati rispettati.
Tuttavia Alessandro impose il suo punto di vista e
fece respingere i patti: col nemico si doveva andare
fino in fondo.
La
presa di Tiro da parte di Alessandro non era
importante come le battaglie di Isso o Gaugamela, ma
la città era vitale per i vasti piani di Alessandro e
l'assedio mostra il livello di abilità raggiunto dai
Greci in questo tipo di guerra.
L’assedio di Gaza
Solo adesso Alessandro poteva riprendere il viaggio
verso sud.
Conquistata Tiro, cadute le ultime piazzeforti
Persiane in Asia Minore e nel mare Egeo, respinti gli
attacchi dei satrapi, Alessandro poteva già chiudere
la partita con Dario, attaccandolo nel cuore
dell’impero prima che riuscisse a riorganizzare il
proprio esercito, ma scelse invece di deviare verso
l’Egitto, attratto da quel paese misterioso in cui le
divinità parevano davvero interagire con gli uomini.
Uscito da Tiro, Alessandro puntò a sud e marciò
direttamente lungo la costa verso la Palestina; le
città venivano rendere omaggio ad Alessandro,
conferendogli così il pieno controllo dell'intera
regione Mediorientale, passaggio obbligato verso
l'Egitto. Mazace, suo satrapo,gli aveva fornito
garanzie sul fatto che le forze macedoni avrebbero
avuto via libera nel paese.
I
nuclei di resistenza rimasti sulla costa levantina si
concentravano a Gaza, la più meridionale delle città
palestinesi, a ridosso del deserto egiziano, dove
Batis, il governatore della città o comandante della
guarnigione persiana, aveva ingaggiato truppe
mercenarie arabe e ammassato scorte per mesi in vista
di un lungo assedio, convinto che la sua roccaforte
potesse resistere a qualsiasi assedio o assalto.
Gaza si presentava come un caposaldo di difficile
accesso. Prossima al mare, circondata per circa tre
chilometri e mezzo di sabbia e paludi lungo i quali
era improbabile far avanzare torri mobili e macchinari
ossidionali, e grazie alla sua posizione, in cima a un
alto colle dai dirupi scoscesi; le sue mura erano alte
e spesse.
Tanto alte e spesse che, quando arrivarono sul luogo,
i genieri di Diade dissero al condottiero di mettere
da parte qualsiasi velleità di conquista, perché non
solo non si potevano avvicinare gli ordigni d’assedio
alla cinta muraria celermente ma le scarse risorse
locali non ne permettevano la costruzione di grandi
quantità.
Le
sole macchine che potevano essere utilizzate erano
quelle da lancio, dato che era impossibile far
risalire lo scosceso pendio a quelle adibite allo
sfondamento.
Infatti nell’impossibilità quasi totale di utilizzare
macchine d’assedio, s’iniziò lo scavo di alcune
gallerie che portassero sotto le mura; la natura del
luogo lo permetteva, era un terreno cedevole di scarsa
consistenza che consentiva lo scavo veloce,
trattandosi di sabbia marina.
Come per Tiro, il generale avrebbe anche potuto
proseguire, abbandonando alle sue spalle la roccaforte
con l'intera regione già nelle sue mani, e lasciando
magari solo qualche presidio in zona.
Il
risultato fu una posticipazione degli assalti diretti
finché le mura di Gaza non furono minacciate dalle
gallerie sotterranee, abbastanza facili da scavare nel
terreno soffice.
Nel frattempo giunsero via mare da Tiro le macchine
d'assedio, che vennero montate su una larga
piattaforma. Era necessario ora l’avvicinamento alle
mura e per fare ciò serviva un terrapieno tutt'intorno
al perimetro della città, un controvallo che si
appoggiasse alle pendici della collina, ammorbidisse i
pendio e consentisse alle macchine di avanzare con
maggiore celerità.
Diade aveva a disposizione solo sabbia e fango, per
costruire un terrapieno sufficientemente solido da non
sprofondare sotto il peso delle sue macchine, e
dovette riuscirci in un tempo brevissimo.
Completata l’opera, lunga 350 metri ed alta 75, gli
sforzi si con concentrarono soprattutto lungo il lato
meridionale, dove pareva che le mura fossero meno
consistenti; nel giro di poco tempo le difese vennero
tempestate di pietre e indebolite dagli scavi.
Appena Batis vide gli ordigni avvicinarsi
minacciosamente alle mura, ordinò ai mercenari arabi
di compiere una sortita, perché appiccassero il fuoco
agli arieti e alle torri, mentre dalle mura i compagni
saettavano i macedoni impegnati a spegnere le fiamme.
Presi dal panico i soldati di Alessandro si diedero
alla fuga ma lo steso re si precipitò con gli
ipaspisti a bloccare la fuga dei suoi, ma fu trafitto
da un dardo di catapulta, che trapassò scudo, corazza
e spalla sinistra; Curzio Rufo sottolinea che proprio
quel giorno, insolitamente, il re aveva indossato la
corazza, che si rivelò fondamentale per attenuare la
violenza del colpo e che probabilmente gli salvò la
vita.
Lo
dovettero portare via sull'orlo dello svenimento
eppure accolse la ferita con soddisfazione, perché i
suoi indovini gli avevano predetto che avrebbe
conquistato la città ma che per quel giorno avrebbe
corso un grave pericolo.
Qui accadde qualcosa di straordinario perché il
presunto figlio di Eracle nell’arco di poche ore dopo
l’atroce ferita era di nuovo in prima linea. La ferita
riprese a sanguinare abbondantemente nonostante la
tamponatura, «e la piaga, che ancora tiepida non aveva
suscitato dolore, cominciò a gonfiarsi sotto la
pressione del sangue raffreddato».
Alessandro riprese le operazioni d'assedio con
rinnovato e incredibile vigore, guidando personalmente
i successivi assalti che trovarono una forte
resistenza, ma i difensori furono via via sfoltiti dal
fitto lancio delle catapulte, e alla fine le mura
crollarono, grazie al lavoro combinato delle macchine
e degli scavatori, e vennero occupate dagli ipaspisti
come al solito in testa.
I
difensori si batterono come leoni e riuscirono a
respingere tre assalti, durante i quali Alessandro,
sempre in prima linea, una seconda, più lieve ferita a
una gamba da un sasso. Accecato dall'ira, appoggiato
ad una lancia, continuò a combattere lanciando il
quarto assalto, dopo che la breccia sui lati era stata
allargata e la strada ai suoi pezetèri era spianata,
che valendosi delle scale irruppero sugli spalti
facendo a gara a chi sarebbe arrivato primo.
Anche allora la resistenza dei difensori non cessò, e
quasi tutti caddero senza arretrare di un passo
rispetto al punto in cui la falange si era avventata
loro contro. Anche Batis fece la sua gran bella
figura, continuando a combattere nonostante fosse
stato crivellato di colpi e lasciato solo dai suoi
mercenari. Seguì la prevedibile carneficina, mentre i
combattenti di Gaza cercavano di resistere fino allo
stremo.
Al
termine dell’assedio il comandante Batis, catturato
vivo venne portato al cospetto Alessandro, più
indispettito che ammirato dal suo valore, gli promise
che non gli avrebbe dato la morte che tanto aveva
cercato in battaglia, ma lo avrebbe tenuto a lungo in
vita per fargli soffrire ogni tormento.
Così al pari di Achille, fece lo stesso che il pelide
aveva fatto col corpo di Ettore con la differenza che
l’eunuco di Gaza era lasciato in vita: al capo della
resistenza vennero bucati i talloni e fatte passare le
corde che a loro volta erano legate al carro di
Alessandro che replicò il gesto che Achille, girando
col carro e col corpo del nemico legato ad esso per
tre volte attorno alla città espugnata.
Tutti i maschi adulti vennero passati per le armi,
mentre i loro figli e le loro mogli vennero fatti e
venduti come schiavi. La roccaforte sarebbe stata
ripopolata solo trasferendo in città nuclei di
abitanti dall'entroterra e assunse il ruolo di
fortezza a guardia dell'accesso all'Egitto.
«Senza dubbio quell'assedio non divenne famoso per
l'importanza della città, ma per il doppio pericolo
corso da Alessandro» (Curt. Ruf.) |