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> Storia Antica

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N. 10 - Marzo 2006

ALESSANDRO MAGNO. ALESSANDRO III DI MACEDONIA

La battaglia di Isso (Ottobre 333 a.C.) – Parte VI

di Antonio Montesanti

 

 

La Cilicia era stata la base operativo-militare di Alessandro per diversi mesi. La sua posizione la rendeva una delle regioni del Mediterraneo in assoluto più interessanti dal punto di visto economico, commerciale e militare: con la sua pianura estremamente ferace, le fresche acque dei fiumi provenienti dalla catena del Tauro che, insieme a dell’Amano ad oriente, estremamente difficili da valicare, aveva rappresentato una satrapie più ricche del regno achemenide. 

Alessandro si preparava a rendere questo giardino naturalmente difeso, una fortezza. Il primo obbiettivo fu quello di rispondere in senso opposto alle mosse già contemplate di persiani: mandò immediatamente Parmenione ad occupare i passi che conducevano in Siria lungo la Via Reale. Si trattava di gole che si estendevano dal Pilastro di Giona, dove le pendici dell'Amano scendono con uno sperone che domina il mare, al passo di Belen, che controlla l'accesso all'Amano verso la piana di Amik nell'entroterra. Parmenion con i piccoli contingenti a sua disposizione riuscì non solo a sgombrate degli avamposti persiani ma a tenere ben saldi sotto il suo controllo i passi, in particolare le gole meridionali, occupando in effetti la Cilicia fino al confine siriano. 

Forse solo dopo un paio di mesi Alessandro si rimetteva in forze dopo che si era ammalato in seguito al tuffo nelle gelate acque del Cidno a Tarso. Accaldato dalla cavalcata attraverso nella soffocante pianura Cilicia nel bel mezzo dell’estate dove in alcuni casi le temperature sfiorano anche i 50° C, il giovane si era lasciato andare all’idea del refrigerio del fiume alimentato dallo scioglimento delle nevi del Tauro con una temperatura prossima allo 0. 

Portato fuori in tempo, prima che il piacere si trasformasse in tragedia, venne ricoverato presso il suo staff medico con un principio di assideramento. Per diversi giorni, colpito da polmonite, fu in preda a febbri alte e insonnia, tanto che oramai si temeva seriamente per la sua vita. 

La malattia del re non solo preoccupava l’esercito ma aveva fatto scendere anche sugli altri ranghi quel senso d’incertezza e di profonda insicurezza che si ha nei momenti decisivi, quando iniziavano a giungere voci dell’avvicinamento dell'esercito persiano. 

La morte del re non era più un’ipotesi ma una concreta possibilità, e probabilmente iniziarono a mescolarsi degli intrighi di avvicendamento negli alti comandi: il primo ad abbandonare, con una mossa che poteva sembrare d’alto tradimento, fu il tesoriere, Arpalo figlio di Macata, il quale si stabilì in Megaride, vicino Corinto, per circa un anno. 

Un gesto apparentemente negativo,che venne considerato in seguito come scelta oculata dopo la guarigione del re e dall’esito dello scontro: nella primavera del 331 a.C. Arpalo sarà richiamato a corte per riassumere i suoi doveri di tesoriere, senza accuse ne un'accusa di tradimento ne di appropriazione indebita a suo carico. Grazie all’intervento del primo medico di corte, Filippo l'Acarnano, che somministrò all’Argeade un “qualcosa di miracoloso”, la febbre cessò ed Alessandro si riprese. 

La notizia della cagionevolezza di Alessandro raggiunse Dario quando si accingeva ad attraversare dell'Eufrate a Tapsaco, cosa che spinse il Persiano ad affrettare il guado del fiume e l'avanzata verso la piana di Amik. 

Dario era partito da Babilonia dopo aver promosso una leva immane. All'inizio dell'estate del 333 a.C., il Gran Re aveva chiamato a raccolta forze da tutte le satrapie dell'impero escluse quelle dei confini orientali veniva mobilitata l'intera leva dei Persiani e dei Medi e per battere uno yahuna (greco) era convinto che ci volessero altri greci, ingaggiando il più grande numero di mercenari greci mai assoldato: almeno 30.000 uomini, già guidati da Timonda, a capo del quale venne posto Aminta, e che Famabazo si era preoccupato di inviare a Babilonia. 

Aminta, figlio di Antioco, era un esule macedone, fuggito dal regno subito dopo l’assassinio di Filippo in opposizione ed aperto contrasto con l'ascesa al trono di Alessandro. 

Con un esercito del genere non sono prive d’ilarità le vignette dei contemporanei che vedevano il macedone, accompagnato dai suoi fedelissimi, in fuga nel bel mezzo della pianura Cilicia dall’intero esercito nemico con Dario davanti a tutti i suoi militi. Nell’utilizzare una così vasta milizia greca il Gran Re voleva anche il parere di greci che aveva assoldato per vere e proprie consulenze strategiche: l'ateniese Caridemo proponeva una suddivisione delle forze con il grosso dell’esercito che sarebbe rimasto con Dario a Babilonia mentre una seconda milizia qualitativamente più impegnata e guidato dallo stesso stratega greco, si sarebbe scontrato con i macedoni. 

Ancora una volta la diffidente nobiltà persiana, che già aveva ostacolato Memnone, entrò in evidente contrasto con l’ateniese che venne messo a morte per la sua presunzione e la franchezza nel dibattito. Fra i dignitari, alcuni suggerirono al re di far fuori tutti gli Elleni, ma Dario giudicò saggiamente che, se avesse compiuto un tale delitto, nessuno straniero si sarebbe più posto al suo servizio. 

Questa serie di disaccordi, incomprensioni, gelosie nei rapporti interpersonali sulla strategia da adottare ha rappresentato e sarà la grande debolezza della macchina da guerra persiana. Di fronte alle Porte Amaniche, dopo la partenza da babilonia nell’estate del 332 a.C. e tre lunghi mesi di viaggio, a settembre, ci si rendeva finalmente conto dell’inutilità e del rallentamento della marcia dovuta dall'enorme convoglio di bagagli che trasportavano il tesoro reale e l’harem di corte. 

Il tutto venne “spedito” a Damasco, mentre il quartier generale venne stabilito a Sochi, località situata nella parte settentrionale della pianure siriache di Amik alle pendici della catena dell'Amano, luogo che all’occorrenza poteva dispiegare la mostruosa forza d'urto determinata dalla loro quantità dei suoi effettivi. 

Un così lungo viaggio permise ad Alessandro di rimettersi e riorganizzare lo scontro. Stranamente il giovane re non si preoccupava della vicinanza dell'esercito persiano, infatti sembrano ingiustificate le deviazioni verso le città conquistate o annesse: addirittura, invece di avanzare verso oriente scese fino alla città di Solis, all' estremità occidentale della pianura cilicia,dove ringraziò Asclepio per la sua guarigione. 

Una ripresa della strada verso la buona sorte era confermata dalla notizia di una vittoria sul comandante persiano Orontobate che non faceva cadere Alicarnasso ma indeboliva notevolmente la flotta nemica che ora continuava a navigare per l'Egeo difficilmente, solo adesso l’esercito macedone poteva iniziare la marcia verso est, dirigendosi lungo la costa fino a Mallo, all'estremità opposta della piana, dove i rapporti lo informarono che l'esercito persiano era accampato a Sochi

Alla notizia, Alessandro raggiunse in fretta a Castabulo, all'imbocco del golfo di Isso, dove incontrò Parmenione, e poi Isso. I feriti o i malati sarebbero rimasti a Isso, mentre il resto dell'esercito sarebbe avanzato dentro le gole costiere attraversando il contrafforte del Pilastro di Giona. Nelle sue intenzioni erano quelle di bloccare i passi, per non far sfruttare al nemico la superiorità numerica che sapeva essere praticamene sterminata e quindi spostare lo scontro lungo le gole costiere. 

Dario concedeva ad Alessandro ancora del tempo prezioso perché doveva attendere che il convoglio di bagagli e concubine coprisse i 300 chilometri della piana di Amik a Damasco. L'esercito persiano rimase stanziato a Sochi per almeno tre settimane. 

La cosa che più sorprende è che entrambe le parti erano certe della loro strategia e della loro vittoria, ognuno dei due contendenti studiava una strategia difensiva ma senza curarsi del nemico, pensando solo al campo di battaglia. 

Una volta venuto a conoscenza dell'ubicazione dell'avversario, Alessandro si era messo in marcia ben deciso a raggiungerlo. Il condottiero macedone si era fatto precedere da Parmenione, che aveva presidiato il passo di Karakapu e stabilito un avamposto a Isso, un porto nel Golfo di Iskanderun, poi di Alessandretta, ai margini delle montagne dell'Amano. 

Il Persiano chiaramente avrebbe preferito una vasta pianura come campo di battaglia più adatto per lo spiegamento delle sue forze superiori, invece Alessandro avrebbe scelto le strettoie costiere attendendo i persiani in quel punto dove da Sochi si sarebbero spostati verso il mare. Con alle spalle il Pilastro di Giona e ai fianchi da una parte il mare e dall'altra la catena dell'Amano, il macedone aveva di fatto calcolato tutto: era coperto da ogni lato e pronto ad accogliere frontalmente l’esercito del Gran Re. 

Alessandro li attendeva lungo la Strada Reale che spuntassero dopo aver valicato il passo di Belen, in questo modo lo scontro sarebbe avvenuto in una strettoia e le sarisse macedoni avrebbero bloccato ogni tentativo d’incursione nemica azzerando il vantaggio numerico. 

I macedoni dovevano solo attendere. E Dario si rese conto della strategia macedone: il fatto di mandare le salmerie a Damasco era stato un errore che Dario pensava di superrare con l’irruenza del giovane Alessandro il quale invece iniziò una lunga attesa. 

Nella piana di Amik, i persiani avrebbero avuto difficoltà negli approvvigionamenti via terra e, in inverno, con i raccolti di là da venire, le scorte si sarebbero esaurite in breve tempo. I macedoni invece venivano facilmente riforniti via mare dalla Cilicia. Fattori logistici spinsero Dario inevitabilmente a prendere l'iniziativa. 

Tuttavia non appena i persiani vennero a sapere delle intenzioni macedoni concepirono il piano di tagliare il ponte tra la base di Isso e l’esercito vero e proprio. Con una mossa del tutto inaspettata portò il suo esercito verso nord, aggirando con una marcia circolare in senso antiorario di almeno 150 chilometri attraverso il passo Bahce e le gole di Toprakkale. 

Il Macedone era stato aggirato le comunicazioni tra il suo esercito e le basi in Cilicia con le vettovaglie, le riserve, i feriti, il tesoro erano state tagliate. Dario era giunto nella piana cilicia attraverso le Porte Amaniche, aveva trovato solo gli inabili. 

Non trovandovi il grosso dell'armata macedone, venne preso dallo scontento che si tramutò presto in rabbia, non esitando a sfogare la sua frustrazione facendo uccidere tutti i feriti, e facendo tagliare la mano destra ai componenti della guarnigione lasciata a protezione dell'ospedale da campo. 

L’aggiramento operato dai Persiani a Nord fu una sorpresa totale e lo stesso Alessandro aveva delle difficoltà nel credere prima, e ad ammettere poi, che potesse essere avvenuta una cosa del genere: mandò addirittura alcuni eminenti personaggi del suo stato maggiore a verificare via mare se ciò era vero. 

Una mossa all’altezza di un grande generale, esperto che metteva in seria difficoltà i macedoni, in primo luogo perché disgiungeva i due compartimenti quello militare a sud e quello “civile” a nord, poi perché prendeva alle spalle l’esercito vero e proprio ed in terzo luogo perché occupava un campo di battaglia dove avrebbe potuto schierare in lunghezza gli effettivi.

In questo modo il giovane era costretto ad un’azione repentina tornando sui suoi passi rivolgendo le sue truppe al nemico e a farle ritornare ad Isso. Il vantaggio persiano era strategicamente cospicuo, ma prima dello scontro decisivo venne fatto un errore di valutazione simile a quello del Granico: il vantaggio venne totalmente sprecato quando fu ordinato di schierare l’esercito all’imbocco della stretta pianura costiera formata dal fiume Pinaro – identificato con l’attuale fiume Dali Chai o col più meridionale Payas Chai – un torrente fangoso simile al Granico laddove i monti della catena dell’Amano si avvicinano di più al mare. 

Invece di arretrare la linea militare di qualche chilometro per sfruttare al meglio la massa ed il vantaggio numerico venne scelto un posto dove proprio quell’esercito non avrebbe mai dovuto schierarsi. Facendo lo stesso gioco che Alessandro si aspettava dal passo di Belen. 

Certo, non si trattava di piane paragonabili a quelle intorno a Sochi, ma intanto l'esercito di Dario aveva una minima possibilità di dispiegarsi, mentre quello di Alessandro avrebbe potuto far lo solo nell'ultima fase della sua avanzata. L’esercito del gran re doveva contare effettivi per almeno trecentomila uomini, ma la ristrettezza dei luoghi ed il sistema di combattimento persiano che prevedeva l’immissione in battaglia a scaglioni successivi, consentì di schierarne non più di sessantamila. 

Naturalmente, sul campo non erano presenti tutti i 600.000 uomini che le fonti tramandano e che si ritiene fosse riuscito a radunare Dario. Le quantità sembrano davvero assurde ma è possibile che se si considerano tutti gli effettivi e l’intera carovana militare ci si possa per lo meno avvicinare. 

Quello che sappiamo riguardo gli effettivi è che, al contrario del Granico, i persiani erano notevolmente superiori a quelli di Alessandro, anche se ne disconosciamo la differenza e le proporzioni: le stime più fondate parlano di 160.000 uomini, schierati lungo un fronte di quattro chilometri per i persiani, mentre da parte macedone sembra ci fossero circa 24.000 fanti e 5000 cavalieri, con altri 4700 mercenari Frigi e Carii. Il dato fondamentale è nella disparità degli effettivi: al minimo il giovane re doveva affrontare un esercito almeno tre volte più grande.

Lo schieramento persiano 

Al centro della linea, dietro alla sponda del fiume Pinaro, vennero collocati i mercenari Greci con armamento oplitico guidati da Aminta e Timonda, affiancati dalla fanteria pesante media dei Cardaci, del tutto assente al Granico, a questi era chiesto di mantenere le posizioni e assorbire l’urto iniziale dell’attacco che il gran Re avrebbe lasciato ai macedoni, per questo a loro difesa venne issata una palizzata per contrastare gli attacchi della cavalleria e della falange.  

Dietro costoro, come riserva, il re schierò un numero imprecisato di leve asiatiche, sempre appiedate, e al centro dello schieramento, secondo l'usanza dei dinasti persiani, si mise egli stesso, su un carro falcato, con una guardia del corpo di 3000 cavalieri: 

"Tutti i comandanti dei barbari guidano il proprio schieramento occupandone il centro, nella convinzione di essere così nel punto più sicuro, poiché sono protetti da una parte e dall'altra, e che, se hanno necessità di dare un ordine, l'esercito ne è informato in metà tempo". (Sen., Anab., I,8,21). 

A destra del nucleo di fanteria pesante, lungo il mare, dispose la cavalleria degli Ircani e dei Medi e la fanteria leggera al comando di Nabarzane, mentre sul lato sinistro un contingente di 6000 arcieri e frombolieri e fanti, in gran parte armati alla leggera fu posto sia davanti ai Cardaci che sui pendii alle falde dell’Amano, al comando del tessalo Aristomede. 

In questo modo un eventuale attacco all’ala sinistra, da parte di quella destra macedone sarebbe stato neutralizzato da un’azione “missilistica” e di contrasto. La disposizione, piuttosto semplice, sfruttava ene i pendii della catena montuosa dando alla formazione una curiosa disposizione ad “L”. Alle spalle della linea offensiva, proprio dietro la fanteria leggera dell’ala sinistra si collocò Dario con il suo carro circondato dalla guardia scelta Persiana. 

Lo schieramento macedone 

La genialità di un personaggio si distingue da altre caratteristiche per la capacità di rendere normale ciò che sembra impossibile a compiersi. Questo è quello che accadde: per prima cosa l’argeade modificò lo schieramento iniziale da una posizione d’arrivo in colonna organizzò la disposizione con naturalità come se i vari reparti fossero membra del suo corpo e solo in base alla visione ed all’osservazione del nemico. 

Venne ripetuto lo schema del granico: l’esercito venne fatto fermare al di fuori della portata delle armi da lancio avversarie. Su un fronte di circa due chilometri. Al centro veniva collocata la falange formata dalle tàxeis di pezetèri al comando, rispettivamente, di Ceno, Perdicca, Meleagro, Tolomeo e Aminta e protetta sui fianchi dagli ipaspisti di Nicanore. 

L'ultima unità di fanteria pesante, quella comandata da Cratero, era disposta lungo la parte sinistra, la quale ricadeva, come di consueto, sotto Parmenione al comando della cavalleria pesante degli alleati e dei Tessali. A rinforzo della mancina vi erano anche i mercenari greci appiedati e gli alleati a cavallo inoltre i lancieri traci e gli arcieri cretesi questi ultimi due contingenti sotto il comando di Sitalce. 

L’ala destra di cavalleria pesante, costituita dai Tessali, dai peoni di Aristone, dai prodrómoi di Protomaco, dagli arcieri di Antioco e soprattutto dall’elite macedone, dalla quale a sua volta si distaccava in avanti il corpo degli Eteri era sotto il controllo del suo generale e re. Gli Agriani, i frombolieri i lanciatori di giavellotto e gli arcieri cretesi, guidati da Attalo, vennero collocati ancora più a destra proprio di fronte agli arcieri persiani sulle pendici dei monti. 

La battaglia 

La prima mossa fu di Alessandro, poiché sapeva bene che le truppe nemiche sulle colline avrebbero provocato molti danni ai suoi effettivi al momento dello scontro. 

Per prima cosa ordinò ad Attalo di trasferire i guastatori Agriani e i lanciatori di proietti perché si occupassero di eliminare totalmente il pericolo degli arcieri e i reparti di fanteria nemica appostati lungo le pendici dei monti ed ebbero, una volta compiuto il loro dovere, il loro compito di rientrare sull’asse dello schieramento di mantenere le posizioni al lato destro della falange, insieme agli arcieri, pronti a contrastare un’avanzata della fanteria nemica per prevenire un aggiramento sul fianco da parte della fanteria persiana. 

In poco tempo i persiani furono dispersi e costretti a ritirarsi ancor più in alto, e un presidio di 300 cavalieri fu ritenuto sufficiente per dissuaderli dal tentare di rientrare in gioco. 

L'attacco principale fu come sempre lanciato da Alessandro e dalla cavalleria dei Compagni. Appena gli Agriani completarono il compito assegnatogli, senza indugiare Alessandro fece avanzare il fronte prima un'avanzata a passo lento per preservare l'allineamento della falange fino a che non raggiunse il limite della portata delle armi da lancio della fanteria leggera nemica quindi inaspettatamente fece passare la sua ala destra, di Etairoi e cavalieri pesanti, da un andamento “al galoppo” a quello di “trotto” rallentando progressivamente… 

Giunto anch’egli a tiro delle armi leggere (200 m. ca.) si lanciò con tutta la foga in una carica esasperata verso l’ala sinistra persiana la fanteria persiana armata alla leggera non fu in grado di sostenere l'urto che venne messa immediatamente in fuga. 

Probabilmente si trattava di un piano di battaglia persiano che aveva avuto la lezione del Granico, infatti la fanteria pesante dei cardaci, non appena la cavalleria di Alessandro li ebbe superati, si offrì ai mercenari greci di Dario una falla entro la quale vennero spediti approfittandone subito, spingendosi nel cuore dello schieramento avversario e verso gli ipaspisti. si diresse che coprivano minacciando il fianco della falange. 

La situazione a questo punto appariva critica per i macedoni: sul lato opposto, verso il mare la cavalleria persiana di Nabarzane col peso massiccio del suo numero era pressoché irresistibile provocava il crollo dei tessali di Parmenione e della sua cavalleria alleata.

Inoltre l’avanzamento della falange, che non poteva tenere il passo con la carica di Alessandro nell’attraversamento del fiume e nel superamento delle palizzate non fu più serrata e quindi più vulnerabile sia in attacco ma soprattutto sulla difensiva, si aprì un vuoto tra la fanteria e la cavalleria quando i mercenari Greci ne approfittarono per caricarla. 

Gli opliti mercenari al servizio di Dario poterono a questo punto insinuarsi tra le letali sarisse e attaccare i macedoni sul fianco, dove erano più vulnerabili. Sarebbe stata la tattica usata poi dai romani per distruggere le armate macedoni del II secolo a.C, ma fino ad allora mai la falange era stata messa tanto alle strette. 

A questo punto il fronte macedone si presentava malmesso e slegato, quando subentrò il genio. Alessandro aveva tre possibilità: inseguire la fanteria leggera dell’ala sinistra dello schieramento avversario, rientrare in aiuto del nucleo centrale del suo esercito, sorprendendo così il nemico alle spalle e salvando la falange oppure, tentare un attacco suicida contro la mente, diretto al cuore del nemico: scagliarsi contro Dario. 

Confidando nella facoltà di resistenza delle sue linee il figlio di Filippo si scagliò contro la guardia reale Persiana che proteggeva il Gran Re. Questa fu fatta a pezzi e la possibilità che Dario cadesse prigioniero nelle mani del giovane era ormai talmente alta che sembra che i due sguardi arrivarono addirittura ad incrociarsi… 

Secondo la tradizione filomacedone, Dario fuggì al primo profilarsi di uno scontro, mentre la tradizione vulgata, al contrario, riferisce che il gran re avrebbe combattuto dal suo carro da guerra fino a che la sua guardia del corpo non fu completamente annientata e finché lui stesso non fu sul punto di venire catturato. 

Questa fu la chiave della battaglia celebrata probabilmente in un quadro che fece e farà epoca nella storia e che la fortuna ha voluto restituirci nella raffigurazione musiva che si trovava nel peristilio della villa del Fauno a Pompei, che s'ispirava certamente a un dipinto contemporaneo (opera forse di Filosseno di Eretria) basato a sua volta su testimonianze oculari dove si vede il re Macedone con un piccolo seguito di cavalieri che punta contro il carro di Dario, circondato dalla sua guardia personale. 

Ma il fratello del gran re, Oxatre che in seguito sarebbe entrato a far parte degli eteri diventando il suocero di Cratero, fece in tempo a interporre tra la carica macedone e il proprio sovrano un reparto di cavalieri; costoro ingaggiarono una lotta feroce con gli avversali, permettendo a Dario, i cui cavalli da traino erano già stati raggiunti da alcuni colpi di lancia, di svincolarsi. Ai satrapi toccò l’oneroso compito di difendere col sangue la ritirata del re: Reomitre e Atizie, sopravvissuti al Granico, insieme al satrapo della Cilicia Arsame e a quello d’Egitto Sabace, caddero compiendo il loro dovere.

L’idea di catturare o uccidere il Gran Re fu lo scontro topico. Il Persiano si diede alla fuga, preso dal panico, e questa remissività, che si legge nell’espressione di terrore degli occhi di chi compose il mosaico pompeiano. Dario riuscì comunque a sottrarsi alla cattura e la sua fuga decise le sorti della battaglia a favore di tutto l’esercito macedone. 

Paradossalmente, fu proprio all'ala destra che la ritirata dei persiani si trasformò in una rotta, e assunse i contorni più drammatici. La fuga della guida indusse l’intero schieramento a fare altrettanto, favorendo l'inseguimento di Parmenione. 

Quindi mentre i Compagni e il loro generale imperversavano nel centro nemico, la cavalleria pesante macedone rientrava rivolgendosi contro i mercenari Greci i quali presi alle spalle, furono decimati, fino a quando il disertore macedone Aminta, loro generale, riuscì a rompere l’accerchiamento e ritirarsi. Il resto delle truppe persiane iniziò una lenta e disperata ritirata dopo la notizia della fuga del Re Dario, incalzati pesantemente duramente dalla cavalleria tessala subivano perdite gravissime. 

La loro meta erano le montagne ma, nei casi in cui riuscivano a sfuggire al l'inseguimento degli uomini di Parmenione, nelle strette gole tra i dirupi si creò una calca tale che molti cavalli precipitarono insieme ai loro cavalieri, altri calpestarono a morte quelli che li precedevano o crollarono a terra ostruendo la via, mentre la fanteria si ammassava facile preda dei tessali. 

La fase dei combattimenti, dunque, dovette durare davvero poco. Solo l'oscurità permise ai persiani di mettersi in salvo, sebbene prima che scendesse la sera, nel raggio di quella quarantina di chilometri che separava il sito della battaglia dalle pendici del Tauro, almeno stando a quanto riferiscono gli storici antichi essi dovettero lamentare ben 100.000 morti tra i fanti e 10.000 tra i cavalieri; è facile arguire come la maggior parte di essi sia caduta nel corso della rotta.

Il dopo Isso

Dario pensò solo a fuggire, abbandonò carro, paramenti reali, l’accampamento e il proprio harem per ripassare la catena dell’Amano e mettere il fiume Eufrate tra sé e Alessandro. Non aveva con sé che 4000 uomini. I Persiani e i loro alleati si dispersero ai quattro venti, anche se un consistente nucleo si radunò in Cappadocia presso il dinasta locale. Nessuno si preoccupò dei bagagli, del tesoro e delle donne rimaste presso il campo di Damasco. 

A completare il catastrofico risultato della battaglia ci fu la caduta della famiglia di Dario nelle mani di Alessandro. Il Re Macedone trattò le spaurite damigelle Persiane con i dovuti onori e rispetto, sapendo dell’immenso prestigio che gli derivava dalla conquista dell’harem del suo rivale. Anche se Isso non fu la battaglia finale della guerra, fu sicuramente decisiva. In un solo colpo Il Gran Re perse le sue migliori truppe, quasi tutti i validi ufficiali che avevano fatto parte dello staff vincente di Artaserse III e , soprattutto il proprio prestigio di monarca e condottiero, caduto nella polvere a causa della fuga. Fino alla fine Dario apparirà come un monarca sconfitto nell’orgoglio, disposto a fare concessioni sempre più grandi al suo rivale per far cessare la guerra, come vedremo tutte senza esito. 

L’inseguimento dei persiani proseguì per tutta la notte, Alex voleva evitare che l’esercito nemico fosse in grado di riorganizzarsi. La fuga disomogenea avrebbe favorito un disgregamento totale dei persiani: Gli 8000 mercenari greci sopravvissuti che non speravano nel perdono scapparono verso ovest, raggiungendo Tripoli sulla costa fenicia, dove ritrovarono le navi che li avevano trasportati in Siria da Lesbo, la maggior parte seguì Aminta passando per Cipro, in Egitto, Un altro gruppo, comandato dal traditore macedone Aminta, fece vela per l'Egitto, dove tentò di annettere il Paese occupò Pelusio e puntò poi su Menfi, sostenendo di essere il vero successore del satrapo Sauace dove alla fine trovò la morte; a le sue truppe erano troppo indisciplinate e vennero decimate da una sortita dei difensori della città. 

Per il momento l'Egitto era destinato a rimanere in mano persiana. Il resto dei mercenari pare prendesse il mare alla volta di Creta, dove dette man forte agli spartani per la loro campagna nell'isola. Altri andarono a offrire i propri servigi a Sparta, la sola potenza ellenica che si manteneva fuori dall'orbita fìlomacedone. 

Altri 4000 mercenari greci si rifugiarono in Cappadocia che intanto si era ribellata unendosi agli insorti, tant’è che l’interno della regione restò turbolento e la sua conquista richiese la presenza di Perdicca e dell'esercito al completo nel 322 a.C.

La notizia di Isso esplose mentre la flotta persiana si trovava all'ancora a Sifno, e i comandanti furono mandati in gran fretta sulla costa dell'Asia Minore per sopprimervi la ribellione. Arrivarono però troppo tardi. All'inizio della primavera 332 a.C., la flotta affondò. I contingenti delle città della Fenicia e di Cipro tornarono in patria per pattuire la loro pace con il conquistatore, mentre Famabazo e Autofradate furono lasciati con un'esigua quota delle loro forze originarie. Non sarebbero più stati in grado di contrastare la flotta macedone. Tenedo, Chio, Lesbo e Cos furono occupate senza che opponessero resistenza, e lo stesso Famabazo fu colto di sorpresa, non avendo avuto il tempo di mettersi in salvo da Cos. 

 L'intera costa egea fu liberata dall' occupazione persiana e riorganizzata. Come in precedenza, si instaurarono democrazie, anche laddove le oligarchie erano state sanzionate dalla Lega di Corinto e le posizioni di potere furono occupate da partigiani del re. Il resto della flotta persiana trovò rifugio a Creta, dove si sarebbe svolto l'ultimo atto della guerra dell'Egeo. 

Alessandro nel frattempo stava godendo i frutti della vittoria: impadronitosi del convoglio del Gran Re ad Isso che da solo risolveva gran parte dei sui problemi economici. Il giovane sovrano trovò le paghe dell’esercito persiano che equivaleva almeno a 10 volte il suo. La cifra riportata da Arriano è di 3000 talenti, nulla, peraltro, a paragone di quel che avrebbe trovato nella ricca Damasco. 

Parmenione alla testa di un distaccamento venne mandato proprio nella capitale siriana nel campo persiano; qui s’impadroniva dell’intero tesoro reale, di un gran numero di preziose suppellettili e di numerosi inviati Greci al Gran Re, fra cui due Tebani, un Ateniese e uno Spartano, a testimonianza di come I Greci fossero per la maggior parte ostili ai Macedoni. 

Dario, inoltre, «secondo l'uso orientale, si era portato dietro il proprio gineceo; le principesse della casa reale, comprese la moglie di Dario Statira e la regina madre Sisigambi, furono catturate nell’accampamento oltre il Pinaro, mentre a Damasco caddero nelle mani di Parmenione le nobildonne dell’harem reale. Furono tutte trattate con il massimo rispetto, le principesse poterono conservare il loro seguito e il loro titolo reale. Alessandro non le fece oggetto di riscatto ma le portò con sé, chiamando Sisigambi «madre» (come aveva fatto con Ada in Caria) e promettendo doti alle figlie di Dario. 

In questo modo assumeva il ruolo di Dario, per cui le nobili persiane rappresentavano un fattore importante nella sua rivendicazione di essere il vero ed unico re del1’Asia. Quando Statira morì, nel 331 a.C., si celebrarono funerali adeguati al suo rango. 

Tra le altre venne fatta prigioniera Barsine, Prima moglie di Mentore e poi del fratello Memnone di Rodi, era la figlia di Artabazo e discendente di Artaserse II, che, data la sua avvenenza fu immediatamente inviata da Parmenione al suo re. La sua educazione filoellenica e la sua bellezza, che la faceva forse la donna più bella dell’epoca riuscirono a conquistare Alessandro; divenne sua amante e dalla relazione nacque un figlio, Eracle che non venne mai considerato l'erede del padre.



 

 

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