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N. 9 - Febbraio 2006

ALESSANDRO MAGNO. ALESSANDRO III DI MACEDONIA

La conquista dell'Anatolia - Parte V

di Antonio Montesanti

 

 

Si spalancavano davanti agli occhi di Alessandro, all’indomani della vittoria sul Granico, le splendide porte dell'Asia Minore, l’attuale Turchia. Oltre alla vittoria sul campo si aggiungeva una vittoria ancor più grande: la morte di tre satrapi su quattro a causa della disfatta. Incapaci di riorganizzare una controffensiva,  i Persiani lasciarono l’intera Anatolia in balia dell’esercito macedone libero di avanzare.

 

A questo punto entrava in gioco il genio politico di Alessandro, nel momento in cui svestiva i paludamenti del guerriero. Occupò solo formalmente il quartier generale persiano, Zelea, procurandosi parecchi consensi nell'area, tanto che alcune città lo accolsero da benefattore, mentre Parmenione occupava, dopo la fuga della guarnigione persiana, Dascylion, a 30 km a sud di Cizico e capitale della Frigia Ellespontica.

 

In questo modo si assicurava una delle porte dell’Asia, i Dardanelli, il cui compito era quello di mantenere i rapporti con l’Europa. La satrapia venne assegnata a Calate, comandante della cavalleria tessala che passava sotto il comando di Alessandro di Lincestide.

 

La marcia argeade procedeva verso le ricche e potenti città interne e costiere dell’Egeo. Anche se le fonti non indicano l’itinerario seguito dalla spedizione, sappiamo da Diodoro ed Arriano che si scelse la via per Sardi, tagliando dai Dardanelli direttamente a sud, poiché nessuno dei due autori cita toponimi sulla costa della Troade o nell'Eolide settentrionale, anche perché alla costa avrebbe dovuto pensare la flotta macedone che si muoveva verso Efeso.

 

L’itinerario terrestre di 270 km, coperto in meno di dieci giorni, seguiva, una volta lasciata Zelea, la strada principale interna che dalla Propontide s’incuneava a sud-est raggiungendo la valle del Macesto, poi attraverso le piane di Balikesir e Kircagac verso Tiatira, per raggiungere quindi la valle dell'Ermo.

 

Qui sorgeva l’antica Capitale della Lidia, governata, una volta morto il satrapo Spitrine, dal comandante della guarnigione, Mitrene, il quale, insieme ad una delegazione di cittadini di Sardi, andò incontro al vincitore del Granico con un ramoscello d’ulivo e spalancandogli le porte della città quando ancora l’esercito macedone non era visibile. Alessandro si fermò in questo luogo per sacrificare nel tempio del padre sommo, Zeus Olimpio, che a Sardi era adorato ed assimilato al persiano Ahuramazda. Dispose inoltre: il nuovo governatore Asandro, una guarnigione, il nuovo tributo, concedendo ai Lidi di governarsi secondo le loro leggi ancestrali, dichiarandoli liberi.

 

Una spedizione, quasi punitiva, di truppe alleate fu inviata ad occupare l’area della Troade con i relativi possedimenti di Memnone. Quindi Alessandro divise l’esercito in due parti nella valle del Caistro l’una, assegnata ad Antigono ebbe il compito di occupare Priene mentre la seconda avrebbe raggiunto Efeso sulla costa, dopo quattro giorni e 100 km di marcia da Sardi.

 

La fama precedeva l’Argeade e in molte città si creavano dei tumulti antipersiani ed Efeso accese con il suo esempio il fuoco della rivolta di tutte le altre città: Magnesia e Tralle, città sul confine cario, si arresero a lui mentre si trovava ancora a Efeso.

 

Benché i tributi rimanessero gli stessi, come l’occupazione e la guarnigione, le città accoglievano Alessandro come un liberatore, in quanto era proprio lui a cambiare i regimi politici oligarchici trasformandoli in democrazia: il governatore persiano di Efeso Sirface, cacciato all’epoca della campagna d’avanguardia di Parmenione (335 a.C.), aveva ripreso  il potere grazie a Memnone e ora veniva nuovamente deposto dagli Efesini democratici che  decisero e conclamarono attraverso un rito sacrificale e una solenne processione, di versare al santuario di Artemide Efesia (*meraviglia) il tributo precedentemente destinato al Gran Re.

 

Un secondo contingente veniva inviato, così come era stato fatto da Sardi per la Troade, nell’Eolide al comando di Alcimaco, fratello di Lisimaco, con lo scopo di rovesciare le presenze oligarchiche o le poche guarnigioni persiane rimaste per restaurare l'autonomia ed instaurare la democrazia.

 

Con la promessa di avere la consegna di Mileto da parte del suo governatore, Egesistrato, il re decise, da Efeso, di dirigersi verso la città la cui importanza era pari a quella che si lasciava. La città, che prima del sacco persiano del 494 a.C. era stata la città greca più potente i cui traffici e le sue cento colonie dominavano il mondo economico mediterraneo, sorgeva presso l'attuale Balàt, alla foce del Meandro (Buyku Menderes).

 

Il magistrato persiano, sapendo che la flotta persiana era ormai solo a qualche giorno di distanza, cambiò idea, optando per la resistenza. Intanto Nicanore ammiraglio della flotta macedone, composta da 160 navi della Lega Corinzia, aveva raggiunto di pari passo l’isoletta di Lade prospiciente al porto milesio. La flotta persiana, composta da 400 navi si assestò presso il promontorio di Micale, attendendo il distacco della flotta macedone dal porto. Parmenione richiese il comando delle navi per attaccare battaglia ma la probabile sconfitta in uno scontro aperto e la situazione di stallo, favorevole ad Alessandro, lo fecero desistere in modo che potesse dedicarsi alla presa della città.

 

Alessandro curioso delle proposte milesie, respinse categoricamente la proposta di Glaucippo, che riteneva che la città potesse divenire una specie di porto franco, aperta sia ai persiani sia ai macedoni; quindi dette subito il via alle operazioni con le macchine d’assedio contro la cinta di mura esterna. I genieri con le sue macchine ossidionali iniziarono a sfondare le mura della città fino alla creazione di brecce consistenti tanto da produrvi all’interno un numero di uomini sufficienti alla conquista, che avvenne in brevissimo tempo grazie al blocco operato da Nicanore lungo l’imbocco del porto, avendo disposto le triremi a ranghi serrati.

 

Al crollo del muro la popolazione civile offrì la sua resa. Alessandro non poteva dimenticare il fatto che gli avi di quei cittadini 150 anni prima avessero dato inizio alla rivolta contro la Persia, e garantì alla città la sopravvivenza in cambio di una guarnigione e dei tributi regolari. Intanto la cavalleria personale del re e tre battaglioni di fanteria furono inviati per bloccare il tentativo di sbarco nemico.

 

Il tutto avveniva sotto lo sguardo attonito di Memnone e della sua flotta dalla punta del promontorio di Micale costretta a ripiegare ad Alicarnasso (odierna Bodrum) ultima roccaforte ed arsenale scelta dal capo supremo dell’esercito come quartier generale, avrebbe resistito con i contingenti di truppe asiatiche del satrapo della regione, Orontobate e con una guarnigione di 2000 mercenari greci al comando degli esuli ateniesi Efialte e Trasibulo.

 

Alessandro aveva dimostrato che una flotta militare anche di gran numero era limitata nelle azioni senza una base a terra; probabilmente per far quadrare i conti, ordinò, con la decisione forse più controversa di tutto il suo regno, che quella macedone fosse totalmente smobilitata ritenendo di poter bloccare i porti alle flotte nemiche da terra, impedendone l’attracco.

 

Nonostante la cooperazione del satrapo cario, il Gran Re nominava Memnone comandante supremo delle forze Persiane di terra e di mare in Anatolia il quale utilizzò immediatamente la sua strategia: difendere la capitale della Caria, non ripetendo l’errore di Mileto e condurre un’offensiva tesa ad attaccare le posizioni Macedoni in Europa.

 

Posta in un teatro naturale, Alicarnasso era stata estremamente e maniacalmete fortificata sotto gli Ecatomnidi. La serie di mura concentriche seguiva le curve dei dislivelli delle alture circostanti alla cui base vi era un fossato murario profondo sette metri e largo tredici. Questa cinta comprendeva anche due poderosi fortilizi: Salmacide, nella parte occidentale e Zefirio sulla piccola isola di Arconneso che delimitava un entrata nel porto e sulla quale sorgeva il palazzo di Mausollo. Inoltre era facilmente rifornibile e raggiungibile dal mare potendo di fatto resistere ad un assedio a tempo indeterminato.

 

L'esercito macedone si avvicinò seguendo la strada costiera, da Iaso e Bargylia, e l'assalto ebbe inizio alla porta Nord-Est quella di Milasa. L’effetto nullo sortito dai primi tentativi portò Alessandro a puntare sull’inutile espugnazione del sobborgo di Mindo, centro satellite situato a 20 km su quella striscia di terra che corrisponde alla penisola di Alicarnasso: con tre tàxeis (squadroni) di cavalleria, di Aminta, Perdicca e Meleagro, e pochi altri fanti tentò la sortita di soppiatto poi richiese di far crollare una torre, effetto che non produsse la breccia sperata. L’arrivo di soldati persiani da Alicarnasso fece ripiegare il giovane re verso l'assedio alla capitale caria.

 

Il lavoro inesorabile dei macedoni avrebbe prodotto presto lo stesso effetto di Mileto se un episodio non avesse totalmente cambiato la prossima vittoria in una semisconfitta: il crollo di due torri ed un muro avrebbe dovuto portare ad un attacco macedone al mattino successivo se due soldati nella notte non avessero tentato l’assalto da soli.

 

Due pezèteri della tàxis di Perdicca, forse ubriachi ed esaltati dal vino, trascinarono con loro diversi battaglioni fino a che non si giunse ad una battaglia vera e propria. I due nonostante la pioggia di proiettili e frecce a raffica, rimasero illesi; la breccia, peraltro, fu immediatamente circoscritta da un nuovo muro a semicerchio che bloccò l’avanzata macedone. Al mattino la breccia era fatta ma gli assedianti subirono pesanti perdite ed Alessandro fu costretto a proporre una tregua durante la quale vennero ricostruite le mura che furono ancor di più oggetto di attacchi, per cui alla fine venne decisa un'ultima grande sortita.

 

I persiani mandarono contro le macchine da guerra i mercenari ateniesi. Alcune torri d'assedio, elepoli e soprattutto arieti vennero incendiate, Efialte riuscì addirittura a mettere in fuga parte della fanteria macedone, anche se forse lo sgomento dovette colpire il macedone quando vide l’imponente forza di Memnone in aiuto dei mercenari greci. Battendo tra loro gli scudi l'uno contro l'altro giunse l’intervento inaspettato dei veterani di Filippo, guidati da Atarrias, a rincuorare le giovani truppe macedoni, che ribaltò le sorti dello scontro.

 

Solo ora Memnone decideva di abbandonare la difesa della città dopo aver appiccato, nella notte, il fuoco agli arsenali e alle difese murarie, ritirandosi nelle due fortezze di Salmacide e di Zefirio. La città civile era abbandonata alle fiamme. La flotta nemica, ormeggiata nella prospiciente isola di Cos, era operativa ed efficiente a dar manforte ai difensori. Il giovane re aveva assistito a brutti momenti sotto le mura e decise di levare l’assedio. La città intorno alle fortezze venne rasa al suolo (il Mausoleo fu lasciato intatto).

 

Ad Alinda Alessandro incontra Ada, sorella di Mausollo destituita da Pissodaro e Orontobate, la quale adotta Alessandro come figlio e viene posta a capo della satrapia di Caria, la cui totale sottomissione veniva affidata a Tolomeo e Asandro, correggenti della principessa ecatomnide, con 3000 fanti e 200 cavalieri col compito primario di presidiare la zona ed espugnare le fortezze, cosa che avverrà solamente nel 332 a.C.

 

Memnone quindi si preoccupò di attuare la seconda parte del suo piano iniziando una sorta di attacco/devastazione lungo le coste dell'Egeo settentrionale, scegliendo come base l’isola di Chio. Alessandro lasciò la flotta persiana ai suoi progetti e allontanandosi dalla costa, organizzandosi per la campagna d'inverno.

 

Gli ufficiali avrebbero dovuto arruolare truppe fresche per colmare le perdite, benché minime, subite. Il numero di 3000 fanti e 300 cavalieri morti superava di molto quello dei nati dai matrimoni ed in previsione le risorse umane si sarebbero impoverite in fretta.

 

Per la prima volta in un contingente ellenico la prosecuzione della campagna era possibile nel periodo invernale perché Filippo aveva abituato le sue truppe ad un ritmo continuo tanto da non ritirarsi in inverno come invece facevano i Greci. Tuttavia Alessandro concesse agli uomini che si erano appena sposati il permesso di rientrare in licenza in patria per passare l’inverno con le mogli.

 

L’esercito si divise in due contingenti: il primo, guidato da Parmenione a cui vennero assegnate le truppe più anziane, le macchine d’assedio e gli uomini in licenza, sarebbe dovuto salire sull’altopiano anatolico, seguendo una strada che, attraverso Sardi e la vallata dell'Ermo, l'avrebbe portato all'interno della Frigia, pronto ad arginare le truppe del satrapo persiano Atizie; il secondo  distaccamento  al comando di Alessandro, avrebbe seguito la costa della Licia e della Panfilia, per risalire verso l’interno della Grande Frigia in modo da ricongiungersi con l’anziano generale a Gordio, capitale della regione e sede dell’antica dinastia dei Mermnadi, il cui avo più illustre era stato il leggendario Re Mida.

 

Come sempre l’Argeade tenne per se l’impresa più difficile ma al tempo stesso più affascinante. Le forze nemiche non si presentarono e non venne incontrata nessuna resistenza da parte persiana, mentre, al contrario, alcuni problemi sorsero dai centri autoctoni: attraversò Telmesso, nella vallata dello Xanto, ripiegò verso l'interno attraversando la Miliade, quindi tagliò per il passo che separava la Licia dalla Pisidia, scendendo nuovamente sulla costa nei pressi di Faselis.

 

La paura però della possibilità di poter essere sottoposto agli attacchi della flotta persiana in grado di operare liberamente lungo le coste rocciose della Licia, e soprattutto l’impossibilità di attuare quella che gli storici tedeschi chiamano Kontinentalkrieg, ossia di limitare la potente forza navale nemica, spinsero il giovane monarca ad allontanarsi dal mare.

 

Prima di rientrare verso l’interno avvenne lo spiacevole incidente che vide Alessandro il Lincestide coinvolto nella proposta di Dario che gli offriva la somma impensabile di 1000 talenti e il trono di Macedonia se avesse assassinato il più celebre Alessandro. Grazie a Parmenione venne scoperta la congiura e il Lincestide, già al comando della cavalleria tessala al posto di Calate venne arrestato e imprigionato fino  alla fine del 330 a.C., quando sarà processato e giustiziato.

 

Da Faselis l'esercito venne condotto in Panfilia, passando per il monte Klimax, su una strada appositamente costruita dall'avanguardia tracia. Davanti al conquistatore si apriva la fertile pianura della Panfilia, con tre delle città più ricche dell’area: mentre veniva accolto come ospite nella città di Perge, che poi utilizzerà come base delle operazioni nell'area, Aspendo al contrario si dimostrò promettente e offerente 50 talenti e i migliori cavalli, parola che non fu mantenuta e che costrinse Alessandro a richiedere un atto formale di sottomissione.

 

Anche Sillio si dimostrò piuttosto combattiva tanto da spingere Alessandro ad abbandonare “il problema Sillio”, dirigendosi a nord e gratificando il suo amico d'infanzia, Nearco di Creta, come satrapo di Licia e Panfilia, pacificatore ed organizzatore della regione.

 

Il contingente reale entrava quindi del montuoso territorio della Pisidia. Qui tentò di forzare il passo/fortezza di Termesso (Gùlùk), privo del suo parco macchine d’assedio, fu costretto, con l’aiuto degli abitanti di Selge e nemici degli Psidi, a cercare un passaggio ancora più a Nord e a puntare sulla fortezza più accessibile di Sagalasso (Aglasun).

 

Schierò a battaglia parte delle proprie truppe su un colle antistante il forte secondo lo stesso schema: Alessandro guidava l'ala destra, ponendovi gli ipaspisti, preceduti da arcieri e agriani, quindi lo schieramento si sviluppava verso il centro con i pezetèri e terminava con i traci: l’ala destra forte e mobile, doveva aggirare il corno sinistro degli avversari, schierati a difesa delle mura. La fortezza si arrese senza spargimenti di sangue.

 

Quindi si diede ad espugnare le fortezze minori pisidie, alcune delle quali aprirono le porte. Avanzando toccò la costa del grande lago salato Ascanio (Burdur Gólù), giungendo finalmente in prossimità della capitale persiana della Frigia Anatolica: Celene, famosa perché dalla base della sua rocca nasceva il fiume Marsia.

 

In questa città avvenne uno dei più singolari episodi bellici degni di contrattazioni d’età moderna: i mercenari greci che difendevano la città si sarebbero arresi con tutta la città se i Persiani non avessero mandato gli aiuti necessari entro 60 giorni. Alessandro nominò Antigono Monoftalmo satrapo della Grande Frigia e lo lasciò con un modesto contingente di 1500 mercenari a controllare la situazione, attendere i 60 giorni e chiaramente a continuare l’assedio. L’ultima fase di marcia, probabilmente la più dura, da Celene (Golene) a Gordio, richiese almeno un mese.

 

Nella città vi fu la grande riunificazione degli eserciti, uomini e mezzi: i due distaccamenti principali si riunivano, rientrarono dalla licenza invernale 3000 fanti e 650 cavalieri dalla Macedonia, inoltre il re ritrovava le sue macchine d’assedio.

 

In questa città accorse anche una delegazione ateniese che chiedeva clemenza e la liberazione dei mercenari ateniesi catturati sul Granico, Alessandro in quest’occasione non fu clemente e si rifiutò di rilasciarli poiché Memnone era sempre attivo con la sua flotta e l'appoggio navale ateniese era fondamentale: più di tutto temeva un’intesa tra gli Ateniesi e l’ammiraglio Rodio. Questi, aveva iniziato le operazioni nell’Egeo del nord con notevole successo, stava cercando di sottrarre quante più città possibile al nemico: aveva lasciato che Alessandro si allontanasse dalla costa per troncare le comunicazioni con l’Europa e sottrargli l’Ellade.

 

L’isola di Chio venne presa nella primavera del 333 a.C. grazie al tradimento degli oligarchi  e l’isola di Lesbo venne stretta d’assedio: Antissa, Metimna ed Ereso avevano offerto la resa. Soltanto Mitilene resisteva perché sede di una guarnigione macedone. Stava accadendo l’irreparabile, tutte le fazioni antimacedoni, sia isolane delle Cicladi sia continentali, Spartani per primi, inviarono ambascerie nelle quali si preparavano ad un suo sbarco per unirsi a lui.

 

Alessandro dovette allora considerare seriamente la possibilità che il tesoro accumulato fino ad allora venisse affidato agli ammiragli Anfotero ed Egeloco, perché ricostruissero la flotta, sciolta l’anno precedente: 500 talenti vennero concessi per questo scopo: il primo avrebbe dovuto occuparsi dell’Ellesponto mentre il secondo delle Isole Egee; mentre altri 600 ne furono inviati ad Antipatro, perché rinforzasse i presidi Macedoni nella Grecia.

 

Ma se “La fortuna aiuta gli audaci”, la morte del comandante rodio per malattia, durante l'assedio di Mitilene, suggellava quest’affermazione. A Memnone succedevano Famabazo, il nipote, e Autofradate altrettanto abile nello spingere alla resa la città di Mitilene e conquistare prima l'intera Lesbo e poi la piccola isoletta della troade Tenedo; inoltre anche Mileto venne ricondotta a tributo e sotto la guida di un governatore persiano Idane, insieme ad Andro e Sifno nella Cicladi.

 

Dario, in maniera apparentemente inspiegabile, richiamò tutti i mercenari sulle navi, ordinando che fossero sbarcati a Tripoli, in Fenicia. Farnabazo portò le truppe richieste a sud, in Licia, dove le consegnò a un emissario di Dario, anch'esso nipote di Memnone, Timonda figlio di Mentore". A Farnabazo rimanevano solo 1500 uomini...

 

Alessandro in realtà sembra seguire un itinerario sacro. A Gordio, l’antica capitale frigia, vuole affrontare il nodo legato al timone del carro del mitico fondatore della dinastia frigia, Gordias: il giogo era unito al timone per mezzo di un elaborato o aggrovigliato nodo di scorza di corniolo, le cui cime erano invisibili. La leggenda narrava che chi fosse riuscito a sciogliere quel nodo sarebbe divenuto padrone dell'Asia.

 

Il giovane condottiero si recò sull’acropoli cittadina dov’era custodito il carro. Dopo aver riflettuto e tentato esclamò: “Non importa come lo sciolgo!” e con un colpo di spada lo troncò di netto di fatto sciogliendolo. Fece quindi esporre il carro liberato e sacrificò a Zeus Basileus, mentre il dio medesimo approvava il segno con le folgori.

 

Quindi Alessandro guidò il suo esercito fuori della città e lo condusse velocemente attraverso l’Anatolia verso Oriente. La fretta era giustificata. La predizione del nodo in realtà apriva le porte della Grande Asia ma prima avrebbe dovuto sciogliere, affrontandolo, l'esercito imperiale che Dario stava mobilitando.

 

L’esercito iniziò dunque la sua lunga e faticosa discesa verso la costa del Mediterraneo orientale non prima che Alessandro passasse brevemente per Ancyra (Ankara) per formalizzare la sottomissione dei Paflagoni e dei Pontici stanziati lungo le coste meridionali del Mar Nero. Queste tribù furono ed esentate dal pagamento di territorio, che non sarà comunque pacificato,  assegnate alla satrapia della Frigia Ellespontica rafforzando ulteriormente la sovranità di Calate, impegnato ancora contro le guarnigioni persiane.

 

Nell’estate del 332 a.C., il figlio di Olimpiade si produsse allora in un tentativo mal riuscito di sottomettere le popolazioni costiere del Mar Nero, senza ottenere i risultati sperati. Lo stesso avvenne per la regione centrale della Cappadocia. Dopo averla divisa in due subregioni nominò il satrapo locale Sabina a capo della Settentrionale e  Ariarate della quella meridionale.

 

Proseguì la sua folle corsa verso le Porte Cilicie passando per il lago Iatta e per Tyana, deciso a raggiungere il Mediterraneo entro la fine dell’estate. Le Porte Cilicie, l’unico passo verso sud tagliano la catena del Tauro a sud della moderna Pozanti, erano presidiate da un minuscolo contingente persiano che fu ridotto facilmente a ragione.

 

Arsame, l’unico satrapo sopravvissuto al Granico, ricordando i consigli di Memnone si era rifugiato presso il collega della Cilicia, Alarne, il quale non riuscì ad eseguire nessuno dei due ordini/consigli ricevuti: presidiare l’unico passo che collegava la Cilicia all’altopiano anatomico, da cui stavano giungendo gli invasori, né a lasciare la capitale Tarso ad un cumulo di macerie, nella sua ritirata verso la Siria ad attendere l’esercito reale. Proprio l’arrivo di un contingente dell’avanguardia della cavalleria macedone impedì che la capitale venisse data alle fiamme.

 

Il Gran Re aveva deciso, contro il parere dei Greci mercenari alla sua corte, di affrontare personalmente in uno scontro aperto il suo rivale. Un esercito gigantesco, costituito dalle truppe di tutte le satrapie, escluse quelle già occupate da Alessandro e dell’India e Battriana troppo distanti, iniziò a radunarsi a Babilonia.

 

A quest’ordine avevano dovuto sottostare anche Farnabazo e Autofradate, che furono costretti, nonostante le vittorie e la situazione favorevole a inviare tutti i mercenari greci al loro servizio, in Fenicia (Libano). Ciò metteva definitivamente fine al piano dei navarchi persiani dell’Egeo di fomentare la rivolta e tentare uno sbarco nella Grecia continentale.

 
Nel frattempo il satrapo Orontobate veniva definitivamente sconfitto da Tolemeo ed Asandro, con la relativa pacificazione e sottomissione della Caria.

Alessandro entrava in Cilicia senza colpo ferire, solo con diversi mesi di marcia estenuante alle spalle che trovarono il giusto sollievo in un bagno nel fiume di Tarso: il Cidno. Questo tuffo nelle acque gelide del fiume, costò al giovane macedone una sosta forzata e prolungata a causa della polmonite ipotermica che lo colse di lì a poco.

 

Le condizioni del re insinuarono il germe della rivolta ad Atene mentre Dario si convinceva dell’esito dello scontro: raggiunse velocemente la città di Sochi, in Siria, dietro la catena montuosa dell’Amano che separa la Cilicia dalla Siria.
Questa splendida catena montuosa è valicabile in due punti: uno a nord, attraverso il valico omonimo ed il secondo, cento km più a sud, detto Porte Siriane o Colonna di Giona.

 

Ristabilitosi, Alessandro cercò una posizione favorevole per lo scontro aperto: per l’esercito macedone era necessaria una pianura molto estesa per poter effettuare lo schieramento di tutti gli effettivi: ad Isso, nel punto in cui l’Asia si congiunge all’Europa, Alessandro vedeva il campo di battaglia ideale, laddove la pianura cilicia sconfinava nella pianura costiera siriana.

 

I due eserciti si rincorsero nel tentativo di raggiungere ognuno il campo di battaglia prescelto dall’altro, ambedue i condottieri spavaldi e certi della loro superiorità. I Macedoni scesero verso sud con l’intenzione di raggiungere Sochi passando per le Porte Siriane, mentre Dario, non curante delle mosse dell’avversario o coll’idea, forse balenata anche ad Alessandro, di sorprendere le retrovie nemiche puntava verso le Porte Amaniche, per entrare in Cilicia. Il Gran Re giunse, attestandosi tra il Golfo di Isso e lungo il corso del fiume Pinaro.



 

 

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