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N. 13 - Giugno 2006

ALESSANDRO MAGNO. ALESSANDRO III DI MACEDONIA

Gaugamela - Parte IX

di Antonio Montesanti

 

 

Era la primavera del 331 a.C. e il confine costituito dall’impero persiano si era assestato ormai sull'Eufrate. Un confine che rimarrà per sempre nella storia e che già prima di Lui aveva costituito una frontiera e come tale rappresentava la prima barriera da abbattere, ancor prima dell’Esercito Reale.

 

Problemi ed organizzazioni d’assestamento

 

L’intero esercito ripartì da Menfi e attraversò il Nilo e i suoi canali, quindi si diresse nuovamente in Fenicia dopo aver attraversato il Sinai. Nel tragitto venne punita la popolazione della Samaria, che aveva catturato e bruciato vivo il nuovo governatore macedone Andromaco.

 

Vennero sottoposti a giudizio i tiranni filopersiani di Chio e Lesbo, levata la guarnigione di Rodi ormai tolta ai Persiani ed al campo era rientrato il tesoriere Arpalo, che introdusse nei nuovi domini, ‘i collettori di tributi’: in Siria, Fenicia e Palestina venne posto Cerano di Berea, per l’Asia Minore, Filosseno. Nearco fu mandato a governare la Licia e le regioni non pacificate di Panfilia e Pisidia, Menandro fu nominato satrapo di Lidia e Asclepiodoro di Siria.

 

Quindi il Giovane Re, al principio dell’estate si fermò a Tiro a sacrificare nuovamente ad Eracle-Melqart con grandiose celebrazioni. Questa volta gli vennero fatti i dovuti onori dai re ciprioti di Salamina e Soli che si preoccuparono d’ingaggiare i celeberrimi attori, Atenodoro e Tessalo, amici personali del Re. Atenodoro invece di partecipare alle Grandi Dionisie che si sarebbero svolte da li a poco ad Atene inadempì al contratto con cui era legato alla città, preferendo gli onori delle competizioni teatrali in oriente.

 

Nonostante la multa inflittagli, gli Ateniesi non poterono impedire ad attori e ad atleti di seguirne l’esempio; tuttavia sfruttarono la situazione a loro vantaggio: inviarono una delegazione ufficiale, guidata da Achille e Diofanto e, seguendo l’esempio della Lega Corinzia, una corona d'oro per le imprese effettuate «per il bene e la libertà della Grecia»; con questa scusa, giunti a Tiro, i rappresentanti, oltre a congratularsi, chiesero il rilascio dei traditori del Granico, e questa volta Alessandro, acconsentì alla richiesta.

 

Ciò fu possibile grazie al cambiamento della situazione nella Grecia politica. Anfotero, l'ammiraglio macedone, stava contrastando contro le forze dello spartano Agide stanziatesi a Creta con il pericolo che le ostilità si diffondessero anche nel continente. Antipatro e il suo navarco dovevano sbrigarsela da soli nonostante i fondi stessero per finire. Alessandro non desiderava sospendere la missione di reclutamento di Aminta in Macedonia, che nella primavera del 331 a.C. gli avrebbe inviato un'armata di 15.000 uomini per la campagna in Mesopotamia.

 

Gli Ateniesi gli promettevano neutralità ed evidentemente l’ appoggio in cambio di prigionieri: nello stesso anno, Atene prese le distanze dall'alleanza con Sparta.

 

Nel periodo compreso tra l’abbandono di Tiro e l’approccio in Mesopotamia, Dario inviò le sue proposte. Mentre durante la campagna in Medio Oriente, richiedeva il riscatto della sua famiglia, la concessione del’impero di Lidia, cioè l'Asia Minore dall'Ellesponto all'Ali, adesso, Dario concedeva tutto il territorio ad ovest dell’Eufrate, un trattato d'amicizia e/o d’alleanza e la somma strabiliante di 30.000 talenti per la sua famiglia e oltre a questo offriva in moglie la figlia maggiore, Statira. Dopo un alterco con Parmenione, che consigliava vivamente di accettare, Alessandro rimandava al mittente seccamente tutte le proposte di Dario: unica concessione che avrebbe dato era la possibilità che il suo nemico si fosse sottomesso incondizionatamente.

 

Verso lo scontro

 

Alessandro sapeva che se si fosse diretto a sud, costeggiando il corso dell'Eufrate, avrebbe probabilmente ripetuto l’errore di Ciro il Giovane, e dei Diecimila, che nel 401 a.C. arrivò stremato allo scontro con Artaserse II. Ma Alessandro aveva studiato anche in quel caso l’antefatto storico. Ormai era il momento d’agire, è incredibile ma aveva concesso a Dario quasi due anni di tempo per poter ricostruire un esercito.

 

Il Macedone inviò immediatamente Parmenione a presidiare, sull'alto corso del fiume, la cittadina di Tapsaco (ad est dell'odierna Meskene), perché gettasse due ponti per l’attraversamento e per l’invasione della Mesopotamia.

Dario sembrò fare lo stesso errore delle Porte Cilicie, inviando un contingente irrisorio, ma secondo lui bastevole, guidato dal suo satrapo Mazeo, a cui erano state ‘strappate’ Cilicia, Fenicia e Siria, affinché evitasse all'avanguardia macedone il passaggio sulla sponda orientale del fiume. Il blocco o tentativo di disturbo operato da Mazeo, con 3000 cavalieri, 2000 mercenari greci e 1000 asiatici, non servì a nulla: dopo aver tenuto il blocco, evitando che le costruzioni giungessero sulla riva opposta, alla sola notizia dell’arrivo di Alessandro, il generale ritenne superflua la sua resistenza, abbandonando il campo e permettendo a Parmenione di concludere l’opera.

 

Intanto il tragitto effettuato dell’esercito macedone, guidata dal suo Re, pur prolungando di molto il viaggio per arrivare sul fiume-frontiera, evitò accuratamente il torrido deserto siriano: seguì la costa dell'intera Fenicia e giunto lungo quella siriaca tagliò all’interno della regione verso est attraversando il passo di Belen, arrivando sulla sponda occidentale dell'Eufrate ai primi di agosto.

 

Una volta attraversato il confine non si diresse direttamente verso le grandi città persiane, tagliando trasversalmente la Mesopotamia da nord a sud, come pensava Dario, ma piuttosto preferì attendere… Temporeggiò, piuttosto, e seguì la linea settentrionale tenendosi ai margini della Mesopotamia, cuore economico del dominio persiano, spostandosi lungo le pendici degli alti rilievi armeni.

Arriano spiega la scelta con il fatto che da quella parte il calore era meno intenso e il foraggio e le provviste erano più abbondanti: Alessandro aveva necessità di attendere, innanzitutto l'arrivo di un clima più temperato e quindi una condizione climatica utile per affrontare un esercito già disposto e riposato come quello imperiale; le bestie da soma necessitavano di foraggi freschi. Intuiva che la cavalleria avrebbe avuto un ruolo di una certa importanza.

 

In questo modo lo Stratega macedone seguiva anche le ragioni militari, ancor più decisive.

Sin dall’inizio della sua campagna aveva utilizzato tutti gli elementi a sua disposizione, la storia, la geografia e soprattutto l’informazione: i movimenti di Dario gli erano noti, aveva catturato di alcune pattuglie d’avanguardia persiana; il sovrano orientale aveva posto il suo quartier generale lungo il corso superiore del Tigri e questa volta non era fisso come nei precedenti scontri ma volutamente ‘mobile’ in modo da poter aggredire l’avversario alle spalle quando questi si fosse diretto verso Babilonia dove tra l’altro era stato fissato il primo punto d’incontro dell’esercito.

 

La linea difensiva di Dario questa volta prevedeva un’attesa del nemico; aveva scelto la mobilità alla staticità, nel caso di una battaglia campale; la possibilità alla sicurezza, le alte montagne della Media gli avrebbero fornito una via di fuga; la difesa alla spavalderia dell’attacco, inoltre a livello strategico fece quello che i suoi consiglieri – soprattutto greci – gli avevano consigliato di fare sin dal Granico. Intuiti i piani macedoni, Mazeo, in precedenza satrapo della Siria, ebbe l’ordine di impedire il passaggio dell'Eufrate e quindi fare terra bruciata intorno, in modo che una volta superato il fiume, le risorse macedoni si fossero presto prosciugate: vennero arsi villaggi e raccolti. Inoltre all’attendismo macedone ne corrispondeva uno persiano: se proprio l’Argeade non avesse voluto scendere verso sud, Dario lo obbligava a seguirlo verso le terre steppiche e prive di risorse.

 

La cattura delle vedette nemiche lo aveva portato a rimediare al problema che avrebbe dovuto affrontare. Aveva dato ordine di trasportare con se le vettovaglie affinché queste fossero necessarie per un periodo sufficientemente lungo, fino al momento dello scontro che comunque sarebbe giunto presto. Da Tapsaco, si portò senza esitazione sul Tigri, percorrendo con una marcia sostenuta i 2400 stadi (440 km), probabilmente passando per Harran (Carrae) e quindi ad est per Resena e forse Nisibi. L'avanzata condusse la carovana ellenica sulle sponde del fiume forse all'altezza dell'attuale Abu Dahir a nord di Mosul.

 

Dario aveva inviato delle squadre di guastatori per bruciare i raccolti e le vettovaglie. L’aria intorno era ancora calda dei roghi appiccati e il fumo dei combustibili utilizzati per bruciare rendeva l’area e l’aria spettrale e desolata. Venne inviata un’avanguardia che rientrò dopo aver confermato che i Persiani avevano abbandonato il campo e quindi prima di nuove sorprese si sbrigò a passare il fiume.

 

In settembre, l'acqua era ancora bassa, l'esercito poté guadare il fiume senza usare imbarcazioni o ponti, inoltre si scelse un punto in cui il corso d’acqua non era poi estremamente ampio come il suo gemello occidentale; piuttosto i problemi d’attraversamento riguardavano la corrente estremamente impetuosa: il Tigri è considerato il più vorticoso e veloce tra i fiumi orientali e il suo corso è pieno di materiale di ogni genere (pietre, rocce, sabbia, arbusti) proveniente dai torrenti suoi affluenti. Per questo le popolazioni lo chiamarono Tigri, perché nelle lingue orientali concepiva il significato di qualcosa d’aguzzo simile ad un dardo, saetta (ant. persiano).

 

Il passaggio fluviale non fu estremamente drammatico. Tuttavia mentre i cavalieri passarono senza problemi di sorta e la fanteria, pur avendo individuato il guado meno profondo, attraversò l'alveo che produsse come unico effetto negativo la perdita delle vettovaglie personali.

I cavalieri di Mazeo, agli ordini di Satropate, assistettero alla scena e quando decisero per l’intervento, Alessandro spedì in fretta e furia Aristone e i suoi peoni (cavalleria leggera) a contrastare l’offensiva, perché bloccasse le intenzioni nemiche. I cavalieri asiatici vennero decimati mentre il greco tornava dal suo Re con la testa di Satropate, inseguito e ucciso tra i suoi uomini in fuga.

 

All’alba del 21 settembre, dopo che la notte aveva portato con se l’eclissi di luna, vennero espletati i sacrifici di rito ispirati dall’evento e furono tratti gli auspici (favorevoli) per lo scontro ormai imminente dall'indovino di corte. Dopo aver concesso due giorni di riposo, il condottiero guidò p il proprio esercito lungo la pianura assira compresa tra il Tigri e le pendici meridionali del Gordiene (Kurdistan). Anche questo settore era stato messo a ferro e fuoco dai Persiani ma questa volta era stato commesso uno dei tanti errori: dei magazzini e dei granai erano stati bruciati solo dall’alto e quindi i tetti di paglia, in questo modo la parte inferiore e ancora piena di frumento era intatta.

 

Certi delle risorse, rinvigoriti dalla temperatura e sicuri delle loro possibilità accentuate dal continuo arretrare delle linee nemiche, i militi macedoni proseguirono spediti, e si fermarono solo dopo quattro giorni, quando venne intercettato un manipolo di cavalieri nemici. Era necessario appurare, a questo punto, se questo contingente avversario era una guarnigione di controllo delle vie d’accesso al quartier generale di Dario o se fosse l'avanguardia dell'armata avversaria.

 

Alessandro si prese la briga di appurarlo personalmente: a capo di tre squadroni di peoni, ipaspisti e Eterii iniziò un inseguimento immediato con l’ordine che l’esercito lo seguisse da lontano. Alcuni persiani vennero presi dopo che le loro cavalcature furono abbattute dai lanciatori di dardi, quindi confessarono che l'esercito di Dario era accampato nei pressi dell'ampia pianura, di dodici chilometri quadrati, di Gaugamela ("casa, oasi o pascolo del cammello").

 

Strategie militari e composizione degli eserciti

 

Il campo di battaglia, uno tra i più celebri di tutta la storia era un piccolo villaggio presso il colle di Tel Gomel, tra le riva del fiume Bumelos (l'odierno Khajir) e le pendici del Jabal Maqlub poco a nord del Tigri e tra le rovine dell'antica capitale assira Ninive, e a 90 km a ovest della città di Arbela (l'odierna Erbil).

 

Isso aveva ‘disintegrato’ l’esercito persiano e gli alti comandi avevano dovuto ricostruirlo ex nihilo e questa volta avrebbe dovuto essere qualitativamente all'altezza di quello macedone.

 

Le vedette persiane catturate fornirono informazioni fondamentali ad Alessandro; sembrava che questa volta il re avesse tratto spunto e fatto tesoro dall’esperienza di Isso: era stato scelto un campo di battaglia, a 150 stadi di distanza, sufficientemente ampio per dispiegare tutta la quantità della fanteria e la potenza della sua cavalleria e nascosto alla vista dei macedoni dal massiccio di Jabal Maqlub. In un anno e mezzo i gerarchi persiani avevano avuto il tempo di effettuare una leva che avesse nelle caratteristiche qualitative la propria forza in modo da poter contrastare l’azione di un esercito professionale guidato da un essere quasi sovrumano. Più che la fanteria fu la cavalleria ad essere riorganizzata, poiché si confidava sul fatto che quantitativamente i Persiani avrebbero sovrastato le sarisse macedoni, prima o poi, visto che i mercenari greci disponibili erano troppo pochi; i cardaci (fanteria leggera) erano troppo deboli contro la falange e in più la cavalleria pesante europea era praticamente immune alla pioggia di frecce degli arcieri medi.

 

La cavalleria venne armata con lance lunghe e scudi invece dei giavellotti che spesso erano troppo corti o usati per il lancio.

 

Tuttavia, nonostante le accuratezze, le accortezze e l’esperienza, Dario sembrava non riuscire a venirne a capo della questione. Da una parte si cercava di evitare una battaglia campale, poiché in uno scontro in pianura la cavalleria macedone avrebbe avuto di certo la meglio, dall’altra necessitava un’amplia rada per sfruttare e utilizzare nel modo migliore il potenziale numerico degli effettivi orientali. La presenza di una potente cavalleria, quasi inutilizzata ad Isso, lo convinse della necessità di un ampio terreno pianeggiante, dove potessero essere dispiegati tutti gli uomini impiegati.

 

Su questa immensa piana tra le montagne, il Gran Re poteva contare su un numero di guerrieri impensabile. Se solamente facessimo una media, e si sottolinea media, di tutti gli effettivi che ci hanno tramandato le fonti (Curzio Rufo, Diodoro Siculo, Giustino) , avremmo un esercito così composto: 700.000 fanti, 60.000 cavalieri e 200 carri falcati e 40 elefanti, con un minimo di 200.000 fanti e 45.000 cavalieri (Curzio Rufo) fino a un massimo di 1.000.000 di fanti e 400.000 cavalieri (Arriano).

 

Certamente un buon dato sarebbe ricavabile, qualora anch’esso non sia stato ‘gonfiato’ come suppongono molti storici, che l'intero esercito abbia impiegato cinque giorni per transitare sul ponte sul fiume Lieos (od. Gran Zab), che affluisce nel Tigri a 40 km a sud di Mossul, per passare da Arbela a Gaugamela. Gli studiosi di strategia militare, comunque, si espongono ipotizzando al massimo un rapporto tra i due eserciti di cinque a uno in favore del Persiano.

 

L’unica arma rimaneva la sola cavalleria, inutile contro le lance della taxis: fu allora che venne utilizzata un’arma antichissima, usata già dagli Ittiti e Assiri, di cui i Persiani detenevano la memoria storica e che doveva scardinare l’ordine serrato della fanteria pesante macedone: i tremendi carri falcati. Dario basava la sua forza d’urto su questi elementi, cavalleria e carri: i rialzi, le cunette e le pendenze e qualsiasi ondulazione del terreno, vennero spianati e livellati appositamente. In questo modo L’ampia distesa avrebbe dovuto garantire, soprattutto ai carri e gli uomini a cavallo il maggior raggio di manovra e anche il dispiegamento totale della fanteria.

 

Le forze persiane erano così composte: oltre alla guardia reale (gli Immortali o melofori) e a pochissimi fedeli mercenari Greci, vi erano gli Indiani della pianura confinanti con la Battriana, gli stessi Battriani (o Bactriani) e i Sogdiani erano sotto il comando di Besso, satrapo delle regioni di confine. Gli arcieri a cavallo, i Saci, di stirpe scitica d'Asia (Sciti del Turkestan, a nord del fiume Iassatre) non sottomessi ma alleati erano comandati da Mauace. Barsente, satrapo dell'Aracosia, era a capo degli Aracosii e degli Indiani montanari. Satibarzane era satrapo e comandante degli Arii. Frataferne conduceva i cavalieri Parti, Ircani e Topiri; mentre Atropate i Medi, al loro fianco erano schierati Cadusii, Albani e Sacesini. Orontobate, Ariobarzane e Orxine comandavano le genti provenienti dalle rive del Mar Rosso. Gli Uxii e i Susiani riconoscevano in Oxatre, figlio di Abulite, il loro capo. Bupare guidava i Babilonesi i Carii esuli e i Sittaceni. Oronte e Mitrauste guidavano gli Armeni, Ariace (o Ariarate?) i Cappadoci; Mazeo i siriani della Celesiria e della Siria mesopotamica. A differenza di Isso, Dario poteva contare sui temibili cavalieri sciti, i Massageti, i Saci, i Dahi e soprattutto sugli elefanti delle regioni più periferiche dell'impero.

 

L’Argeade che decise di utilizzare i soli guerrieri efficienti, per la prima volta, fece allestire, un campo con fossato e palizzata con lo scopo di non utilizzare riserve, dove dispose bagagli, salmerie feriti e accompagnatori non combattenti, e che fosse protetto esclusivamente dai fanti traci.

 

Il suo esercito, grazie ai nuovi contingenti di rinforzo dalla Macedonia, era composto ancora da 40.000 fanti e 7.000 cavalieri, di poco più numeroso di quello con cui era partito, ma ben poco in confronto a quanto era riuscito a organizzare il suo avversario.

L’intero esercito elllenico si assestò all’interno del campo trincerato sotto il versante settentrionale del Jabal Maqlub per quattro giorni, affinché si riposasse dalle fatiche della marcia esasperata dalla Siria; 10 km separavano le postazioni dei due eserciti e nel bel mezzo della notte del quinto giorno iniziò la marcia attraverso le alture che lo dividevano dal nemico.

 

Alessandro avrebbe voluto attaccare battaglia all’alba prendendo Dario di sorpresa. Ma la tattica non riuscì al Macedone poiché gli esploratori persiani di guardia avvertirono per tempo dei movimenti avversari il loro sovrano, che ebbe la parte terminale della nottata per schierare l’esercito. Questa volta, come detto, e per la prima volta, era il Gran Re ad attendere il Giovane Re che mise da parte la spavalderia degli scontri passati: la sua marcia divenne più cauta durante l’avvicinamento e prese in considerazione i suggerimenti di Parmenione e gli interventi del consiglio di guerra che in questo frangente venne allargato anche ai comandanti mercenari e alleati.

 

Benché i macedoni avessero valicato le alture che introducevano il corpo di spedizione all’interno della piana e nonostante li separassero dagli avversari ancora 5 km, venne inviata un'avanguardia in esplorazione per esaminare nel dettaglio il campo di battaglia, quindi venne abbandonata l’idea di attaccare furasticamente. In un’area in lieve pendenza, a suo vantaggio, venne fermata la disposizione di battaglia. Quindi lo stesso “Figlio di Zeus” si spinse in avanti con i Compagni e alcuni armati alla leggera di copertura, per osservarli agevolmente la disposizione dell'esercito avversario e studiare il campo.

 

In un brano del discorso che egli fece ai suoi generali al suo ritorno alle linee, risultano evidenti due punti sui quali doveva in un qualche modo insistere: l’importanza o la portata storica dello scontro e la differenza tra gli eserciti.

 

«Andate, dunque ed animate le vostre truppe perché compiano oggi la più grande delle imprese mai compiute dagli uomini: non l’Anatolia, non la Fenicia, né l'Egitto, ma l'Asia intera li attende. Di fronte a loro vi è un esercito sterminato di barbari ma in pochi hanno delle armi degne di questo nome: uno non ha che un giavellotto, un altro rotea sassi con la fionda. Da quella parte vi è il semplice numero, da questa saremo in molti di più a combattere!».

 

Sentito questo discorso le posizioni si ribaltarono: questa volta fu il cauto Parmenione, a far cadere i propri timori, spingendo il consiglio macedone ad un attacco fulmineo prima dell’alba convinto che l'intero esercito persiano non si sarebbe potuto schierare al completo; in una situazione del genere l’unico pericolo che attanagliava la mente macedone era la paura di venire sopraffatti dal numero, dalla stanchezza e ancor di più dall’accerchiamento: la notte avrebbe evitato almeno quest’ultimo pericolo.

 

Ancora e anche questa volta il Giovane Condottiero respinse fermamente il consiglio e questa volta sembra che il veterano non abbia gradito questa ennesima umiliazione “appesantita” dall’affermazione che sottolineava il fatto che ci si sarebbe dovuti vergognare a rubare in quel modo la vittoria, che avrebbe dovuto essere ottenuta alla luce del sole. La pesante battuta “gratuita” fu forse dovuta all’incoscienza di Parmenione che sottovalutava che un combattimento notturno avrebbe favorito chi conosceva meglio i luoghi.

 

Decise quindi che l’esercito non si predisponesse in campo aperto ma sulle pendici delle colline, perché quel campo era stato preparato apposta per lo scontro.

Secondo le interpretazioni degli storici antichi questa fu una delle prime volte in cui venne attuata la guerra psicologica: con l’attesa allo scontro, Alessandro intendeva far salire negli animi dei nemici la paura, il dubbio, fiaccarli psicologicamente. Nella loro certezza avrebbe fatto crescere il baco dell’apprensione, lentamente…

 

Allarmati nel bel mezzo del sonno e della notte i persiani rimasero all’erta fino all’alba, gran parte di loro erano al loro primo scontro, e vennero fiaccati forse più nello spirito piuttosto che nel corpo; al contrario, gli uomini di Alessandro erano freschi e imbaldanziti dal fatto che erano loro a preparare l’attacco, non temendo alcuna sortita dai nemici.

 

La disposizione di battaglia. Schieramento e tattica.

 

Persiani

 

Vi sono versioni differenti sulla disposizione delle truppe persiane dovute forse più al gran numero e alla confusione, piuttosto che all’imprecisione delle fonti. La disposizione persiana ci è nota dai piani di battaglia del Gran Re caduti in mano macedone all’indomani dello scontro secondo Aristobulo. Il fronte era dettagliatamente scandito ed organizzato secondo la provenienza:

 

Ala sinistra. Comandante Besso.

 

Linea avanzata: 100 carri falcati.

 

Prima linea – generale Barsaente: (che avrebbe dovuto ammortizzare l’impatto frontale di Alessandro e i suoi hetaìroi), 2000 cavalieri sciti, 1000 battriani, provenienti dall'Afghanistan settentrionale, tutti catafratti.

 

Seconda linea, generale Oxatre: 8000 cavalieri battriani, 1000 arcieri a cavallo dahi provenienti dalla Pianura Turanica, 2000 arcieri a cavallo aracosii, originari dell'Iran orientale, 2000 cavalieri e fanti persiani frammisti susiani, contigui al centro, un numero imprecisato di cadusii, fanti leggeri specializzati nel lancio del giavellotto e provenienti dall'angolo sud-occidentale del Mar Caspio.

 

Centro. Comandante supremo Dario.

 

Linea avanzata: 50 carri falcati.

 

Prima linea (davanti a Dario) – Comandante Orxine. Generali Orontobate e Ariobarzane: indiani, carii, arcieri mardi, provenienti dalla zona ad oriente del Mar Caspio, cossei, montanari dello Zagros a nord di Susa, e i sogdiani, della regione di Samarcanda.

 

Seconda linea: Dario con il suo squadrone scelto di consanguinei e guardia reale di melophóroi affiancato ai lati da 2000 mercenari greci al comando di Patrone e Glauco.

 

Terza linea – Comandante Bupare: uxii dello Zagros, babilonesi, combattenti dal Mar Rosso e sittaceni. Forse di questa linea facevano parte anche gli elefanti ma non appaiono nel corso della battaglia e forse non vennero utilizzati poiché, sembra innervosissero i cavalli.

 

Ala destra. Comandante – Mazeo.

 

Prima linea – Generale Fradate: 50 carri falcati, cavalieri armeni (Oronte e Mitrauste), cappadoci (Ariace).

 

Seconda linea – Generale Frataferne. Dall’esterno: Siriani e soldati della Mesopotamia, i medi di Atropate, provenienti dal Golfo Persico, saci (Manace), parti, topiri e ircani di Frataferne, provenienti a sud del Mar Caspio, albani e per ultimi i sacesini, a ridosso dei sogdiani.

 

Dario aveva agito secondo uno schema altamente isometrico/speculare e seguito solo criteri legati alla funzionalità equestre, pedestre o di lancio ed in più aveva utilizzato un criterio di provenienza: le sue truppe più occidentali, provenienti dal settore compreso tra dal Golfo Persico e Siria, sull'ala destra; i persiani e medi, al centro; mentre i guerrieri dalle zone più orientali, afghani e indiani, coprivano l’ala destra.

 

La strategia persiana dettava di creare nel fronte nemico squarci attraverso i carri falcati in cui potesse inserirsi la cavalleria, mantenendo allo stesso tempo l'integrità della propria formazione, inoltre i fronte di ampia cavalleria intatto doveva evitare che i cavalieri macedoni sferrassero un attacco diretto.

 

Macedoni

 

Alessandro utilizzò sempre lo stesso modulo, aveva a disposizione 7000 cavalieri e i 40.000 fanti, cifre forse abbassate da Arriano per rendere ancora più eclatante il confronto. Lo schieramento fu simile a quello dei due scontri decisivi precedenti:

 

Ala destra. Comandante supremo Alessandro.

 

Comandante dell’ala Filota.

 

Prima linea – Generale Balacro: costituita da metà degli agriani e degli arcieri cretesi, e dai sarissofóroi.

 

Seconda linea – Ogni divisione aveva il suo Generale: turme di eteri in successione, partendo dall'esterno, erano guidati dai Generali: Clito il Nero con l'agema o guardia reale, Glaucia, Aristone, Sopoli, Eraclide, Demetrio, Meleagro (I) ed Egeloco. Il figlio di Parmenione, Filota, ne era il comandante assoluto di tutte le compagnie.

 

Centro. Comandante Cratero.

 

Linea unica – Ogni tàxis aveva il suo generale. Da destra a sinistra: Ipaspisti di Nicanore, l'altro figlio di Parmenione; la tàxis falangita di Ceno, Perdicca, Meleagro (II), Poliperconte, Simmia che sostituiva Aminta, in quel periodo in missione in Macedonia per reperire le truppe. I mercenari anziani, guidati da Olenadro, avevano il compito di schiudere gli interstizi falangiti.

 

Falange di riserva o copertura e riserve traci.

 

Ala sinistra – Comandante Parmenione

 

Prima linea – Generale Andromaco: cavalleria mercenaria, la seconda metà degli arcieri cretesi erano alla loro sinistra tra prima e seconda linea.

 

Seconda linea – Generali e truppe da destra a sinistra: tàxis di Cratero, quindi la cavalleria alleata agli ordini di Erigio, i tessali di Filippo figlio di Menelao, tra le due cavallerie, alleata e tessale si disponeva il comandante dell'ala: Parmenione.

 

Tuttavia, questa volta le immense dimensioni dell'esercito persiano e la quasi certezza di finire circondati portarono Alessandro ad adottare una variante che avrebbe risolto parte dei problemi.

 

Il Macedone aveva per la prima volta ridotto l’asse avanzato della falange, in questo modo costringeva i suoi soldati a uno sforzo maggiore, d’altro canto creava una seconda linea “mobile” in modo che i falangiti arretrati potessero agire anche su gli altri fronti. L’aggiramento delle tàxeis era la cosa peggiore che potesse accadere. La seconda linea falangita era costituita da due colonne mobili alle spalle delle quali si trovavano i parenti di Dario, sorvegliati dai traci.

 

Questa seconda linea doveva essere mobile e pronta in ogni momento ad intervenire nel caso in cui vi fosse stato un primo tentativo di aggiramento sui fianchi o addirittura a ruotare di 180° nell’evenienza in cui l’aggiramento nemico avesse raggiunto le spalle dello schieramento.

 

In questa battaglia, per la prima volta, si riconoscono lontanamente due elementi che saranno caratteristici della logistica e della tattica romana del combattimento: il campo trincerato a supporto di uno scontro e la formazione chiusa su diversi lati.

“Questa formazione consisteva di una disposizione quasi a quadrato, poiché i tre lati di un quadrato erano talmente elastici e mobili, almeno sui lati che potevano essere in grado di affrontare attacchi in qualunque direzione provenissero” (W.W. Tarn).

 

Alessandro aveva capito che sarebbe stato senz'altro aggirato ai fianchi e probabilmente aveva già calcolato l’attacco che avrebbe guidato personalmente, era come se avesse già studiato tutto. La cavalleria degli eteri era al fianco della falange e avrebbe dovuto dare l’impressione di difendere il fianco destro che ovviamente era quello più esposto. Però come ulteriore protezione, oltre alla seconda linea falangita, lo stratega supremo predisponeva tre linee, a partire dall'angolo esterno: la prima costituita da metà degli agriani (Attalo), dagli arcieri macedoni (Brisone) e dai mercenari veterani (Cleandro); davanti a loro, un'altra linea di cavalleria leggera (Arete) e di peoni (Aristone); ed infine la terza linea dei mercenari a cavallo (Menida), che avevano il ruolo più importante: impedire, evitare ed intercettare il nemico qualora avesse mostrato le intenzioni di penetrare sul fianco della falange secondo o dell’ala destra di cavalleria.

 

Scopo dell’intero meccanismo era la potenzialità che dovesse avere l'ala destra di operare senza aver pensiero di lasciare sguarnito il lato della falange. Lo stesso meccanismo valeva per l’ala sinistra, monitorata dai traci (Sitalce), dagli alleati a cavallo (Cerano) e dagli odrisi (Agatone).

 

Aneddoti

 

Verso sera Alessandro sacrificò a Phóbos, quindi celebrò in privato riti segreti sotto la supervisione di Aristandro e Telmisso, dopo aver impartito gli ordini ai suoi generali.

Lo scontro non avvenne neanche all’alba ma a mattinata inoltrata del primo ottobre.

Come solitamente accade abbiamo una notizia piuttosto certa del perché ciò avvenne: Alessandro si era addormentato tardi e non si svegliava. A Parmenione toccò, in tarda mattinata, il compito di spronarlo ad alzarsi, poiché nessuno dei suoi ufficiali ne aveva il coraggio!

 

Le interpretazioni di questa lunga dormita sono fondamentalmente due: la preoccupazione per l'esito dello scontro lo avrebbe portato ad addormentarsi tardissimo, vista l’angoscia e l’indecisione sul piano e sulla tattica da adottare; la seconda versione riteneva che avesse un sonno talmente sereno poiché era tranquillo e certo della vittoria. In realtà dobbiamo pensare che seppe e sapeva quello che doveva fare, ma questo gli portò via gran parte della notte per preparare il piano nei minimi particolari. Sembra che lo Stratega fosse più preoccupato del fatto di dover inseguire Dario per l’Asia intera piuttosto che doverlo affrontare sul campo.

 

Uscito dalla tenda, Plutarco ci ha lasciato la descrizione del suoi paludamenti: “portava [...] una veste Sicilia ricamata legata in vita nella parte superiore un corpetto di lino doppio, di quelle prese ad Isso. L'elmo, opera di Teòfilo, era di ferro, ma risplendeva come fosse d'argento puro; vi era attaccata una gorgiera, anch'essa di ferro, ornata con pietre (preziose); la spada, mirabile per la tempra e la leggerezza, gliela aveva donata il re dei Cizi, era anch’essa decorata; egli amava usare questo tipo d'arma in battaglia. Portava anche un manto che per la lavorazione era superiore ad ogni altra parte dell'armatura: esso era opera di Elicone il vecchio, dono della città di Rodi in segno di onore, che però in battaglia era solito toglierlo.” (Plut. Alex., XXXII).

 

Per la prima volta utilizzò Bucefalo solo per la battaglia vera e propria tenendolo a riposo fino all’ultimo momento.

 

Dopo aver tenuto una breve adlocutio ai soli alleati greci, invocò l’aiuto di “Zeus Patèr” che si materializzò con l'apparizione di un'aquila in volo contro il fronte nemico.

 

La dinamica

 

Se la formazione di partenza è relativamente chiara, la battaglia è tramandata in modo differente da fonte a fonte, tanto che i contemporanei ebbero grosse difficoltà a ricostruirla: non solo ogni partecipante ebbe una visione differente e in una prospettiva non congrua, ma la polvere non deve aver aiutato gli osservatori in questo compito.

 

Un episodio riportato da Curzio Rufo è indicatore di una serie di elementi tra cui l’ammirazione che alcuni dei persiani dovevano avere per il re Macedone: un disertore con un cavallo velocissimo poco prima dello scontro galoppò velocemente verso Alessandro in persona e gli riferì che il terreno di fronte a lui era disseminato di spuntoni di ferro nascosti.

 

Secondo alcuni questo fu il motivo per cui il Figlio di Filippo avanzò durante lo scontro non diagonalmente tagliando il campo come suo solito, ossia in maniera “diretta”, bensì si allargò verso destra, puntando sul fianco avversario in modo che il fronte macedone divenisse obliquo.

 

Il campo fu lasciato sgombro e dell’intero schieramento macedone avanzò esclusivamente il Re seguito da Clito e dai compagni, dapprima lentamente e poi sempre più velocemente. A questo punto Dario, per non fornire alcun vantaggio ed evitare un inizio d’accerchiamento, tentò di contrastare il movimento, diede l’ordine di marciare in avanti con il corno sinistro, specularmente. Il fronte persiano da questa parte fu costretto ad un allungamento sempre più a sinistra, poiché più si avvicinavano i macedoni, più si allargavano come se volessero aggirare il nemico. A sua volta il centro persiano era costretto ad avanzare per non lasciare i due settori troppo disgiunti.

 

L’avanzamento e lo slittamento verso sinistra con l’avvicinamento macedone destro, aveva provocato i primi contatti: gli sciti erano ormai bersaglio di agriani, arceri e dei giavellotti di Balacro, una carica diretta su i lanciatori macedoni avrebbe di fatto isolato i catafratti sciti ed esposti ad un rientro della cavallria pesante macedone, quindi fu dato l’ordine di evitare lo scontro e di tentare un aggiramento. Poco prima dell’aggiramento macedone sul limite dell’ala, la cavalleria battriana e saca, che agiva da guardia sui fianchi, non poteva più attendere e sferrò un attacco teso a bloccare il tentativo.

 

A questo punto intervenne Menida secondo le disposizioni che Alessandro gli aveva dato di bloccare un taglio diagonale della cavalleria nemica in fase di aggiramento. Qui avvenne il primo contatto a cui si aggiunsero le linee successive più prossime alla scintilla. I battilani delle schiere del Gran re condussero lo scontro verso un momentaneo vantaggio asiatico. Ma gli uomini in fuga di Menida, inferiori per numero ed armamento si ripresero quasi immediatamente grazie al subentrare dei peoni di Arete e dei mercenari; tutte le armate europee vennero investite dalla forza d’urto dei catafratti bactriani. Dopo uno scontro feroce, alla fine, nonostante le innumerevoli perdite i macedoni evitarono lo sfondamento e volsero in fuga il nemico.

 

Vedendo che la falange non avanzava, Dario ordinò che i carri falcati si muovessero rischiando di perderli per gli stessi trabocchetti fatti collocare da lui medesimo sulla piana.

Non è chiaro se abbia ordinato la partenza allo scontro di quelli obliqui o che dovevano dar man forte alla cavalleria sulla destra, o abbia ordinato la carica di tutti i reparti di carri. Secondo alcuni autori, dei duecento carri disposti, in pochi arrivarono a contatto: alcuni vennero bersagliati dagli arcieri e dai lancieri di Balacro e quindi una volta eliminati gli aurighi vennero neutralizzati, altri non partirono perché i cavalli vennero spaventati dal rumore che producevano i pezeteri battendo le sarisse sugli scudi, altri ancora vennero semplicemente “lasciati passare”: prima del contatto la falange si apriva appositamente. Secondo altri autori (Curzio Rufo e Diodoro Siculo) il contatto, invece, tra carri e falange ci fu.

 

Ma i Macedoni seppero bene come difendersi, aprendosi e richiudendosi appositamente per

massacrarne i guidatori. Comunque solo pochissimi macedoni vennero investiti dalle falci e fatti a pezzi, i resto si difese in maniera egregia.  

Questa tattica era già fallita clamorosamente.

Ancora una volta Alessandro utilizzò la storia e l’esperienza, per non commettere gli errori di chi l’aveva preceduto, ancora una volta Senofonte nella sua Anabasi di lo aveva aiutato: lo storico/soldato, inscenando la fittizia battaglia di Timbra (o Timbrara), attribuiva ai carri falcati un ruolo decisivo, osservando che costituivano un'arma importante per tutti i sovrani persiani.

 

Nelle deboli e disorganizzate fanterie orientali queste armi potevano riportare successo notele , e Dario sperava che il loro impeto spezzasse il fronte di battaglia avversario e creasse dei vuoti in cui avrebbe potuto infilarsi la sua cavalleria pesante. Il macedone sapeva questo e sapeva come i mercenari opliti greci, soprattutto spartani, erano stati in grado di respingere questo tipo di attacco nella battaglia di Cunassa.

 

Battaglia di Cunassa (3 settembre 401 a.C.)

 

La battaglia si svolse tra i fratelli Artaserse II e Ciro il Giovane per i trono di Persia.

Ciro rivendicando il trono si avvalse del supporto dei mercenari greci per formare il nucleo del proprio esercito, poiché aveva promesso agli Elleni, in caso di vittoria la libertà delle colonie d’Asia Minore. Con questo esercito marciò verso le città mesopotamiche quando dopo una marcia dura attraverso il deserto siriano venne intercettato a Cunassa, sulla sponda sinistra dell'Eufrate.

Artaserse con un esercito di gran lunga superiore rischiò seriamente di essere sconfitto dal valore ed armamento dei greci i quali seppero ben difendersi dai cavalieri e dagli attacchi dei carri falcati.

 

Gli spartani guidati da Clearco sbaragliarono l’ala sinistra persiana guidata da Tissaferne. Quando il centro persiano sospinto da Artaserse in persona attaccò al centro Ciro il Giovane, il quale riuscì a metterlo in fuga uccidendo il satrapo Artagerse, guardia personale del Gran Re. Durante l’inseguimento Ciro viene colpito da un giavellotto in viso e questo provoca lo sgomento nelle truppe orientali ribelli. L’ala sinistra del defunto pretendente, comandata da Arieo, si ritira consegnando di fatto la vittoria ad Artaserse che incalza i nemici ma che non riesce ad abbattere il corpo di spedizione greco che rimane imbattuto, costringendolo a ritirarsi con il suo secondo Artaferne.

 

Senza provviste, un campo e nel nulla del deserto i mercenari ellenici, di cui fa parte anche Senofonte, iniziano il lungo ritorno (Anabasi) verso le coste del Mediterraneo.

L’intera questione della città greche d’Asia si concluderà 5 anni dopo con la pace di Antalcida (386 a.C.) che non faceva altro che ribadire il dominio persiano sulle colonie ioniche.

Le analogie tra le battaglie di Cunassa e Gaugamela sono impressionanti.

 

Vedendo quello che stava accadendo, ossia il fatto che la sua ala sinistra stava per essere presa alle spalle, Dario decise di spingere anche i catafratti battriani e sciti sul fianco destro degli hetaìroi, affinché fossero a loro volta circondati dalla cavalleria pesante persiana e chiusi a tenaglia dall’imponente centro dello schieramento orientale che si stava rivolgendo a sinistra.

 

Arete, venne allora comandato da Alessandro di aprire un varco nel punto esatto di congiungimento tra ala e centro. Il subalterno macedone, o comunque la sua divisione ci riuscì egregiamente, non sfondando la cavalleria centrale persiana ma attirandola a se; questa manovra aveva comunque ottenuto l’effetto desiderato dal Macedone.

 

Appena vide l’aprirsi del varco, e prima che questo si richiudesse, il Condottiero alla testa del suo squadrone dispose la formazione a cuneo – detta anche Lambda, dalla forma della lettera greca –, con Lui e i Compagni che componevano il cuneo, seguiti dai pezetèri, imponendo la carica, puntò direttamente sul Dario. Il tentativo di chiusura immediato del varco fu reso inutile dalla tattica di combattimento macedone che conosceva perfettamente l’uso delle sarisse contro la fanteria avversaria che veniva allargata progressivamente.

 

Con questa mossa Alessandro aveva dato una svolta alla battaglia che ancora era non solo lontana dal prendere una piega ma in alcuni settori doveva ancora iniziare.

La reazione di Dario e la temerarietà del suo avversario furono la chiave pregiudicante dello scontro: quando il suo auriga venne ucciso da un colpo di lancia scagliata forse da Alessandro stesso, dopo aver estratto la scimitarra per contrastare personalmente il Demone occidentale, la ripose dandosi precipitosamente e vergognosamente, per la seconda volta, alla fuga.

 

La fuga del Gran Re decise la sconfitta; lo stesso, che agli inizi della propria carriera, si era guadagnato la sua reputazione e aveva segnandola attraverso il suo straordinario coraggio dimostrato contro le popolazioni caduse.

 

I cavalieri che lo attorniavano rimasero come ipnotizzati, scambiando dapprincipio l’auriga morto per il loro signore, poi vennero assaliti dal panico quando lo videro fuggire, prima di darsi alla fuga anche loro, venendo in buona parte massacrati dalle truppe di Arete. La nube di polvere sollevata dai fuggiaschi favorì involontariamente la fuga del loro re, cercato invano da Alessandro che abbozzò un inseguimento basandosi solo sul rumore degli zoccoli, delle grida e delle fruste.

 

La metà sinistra si frantumò in pochi attimi, tra fughe e massacri operati dai macedoni.

Quando Alessandro lanciò il suo assalto, furono lasciati isolati di fronte alle forze battriane anche Menida e la cavalleria del fianco di guardia, ma Besso dalla sua posizione poté vedere la distruzione del centro e fece ritirare in buon ordine le proprie forze, rimaste praticamente intatte.

 

Una situazione piuttosto simile, ma in senso speculare e quindi a vantaggio persiano, accadeva dalla parte opposta. La sinistra ellenica era ormai sotto pressione fin dall'inizio. Mazeo e la sua destra stavano sopraffacendo Cratero e Parmenione, i quali si erano fatti quasi aggirare dalla cavalleria avversaria. Dopotutto il lato sinistro era più sguarnito rispetto a quello destro; i traci, gli odrisi e gli alleati vennero sopraffatti dai catafratti armeni e cappadoci e avevano costretto i tessali a difendersi su due fronti, quello anteriore e quello estremo laterale sinistro per evitare di essere aggirati. Questo allungamento, come era avvenuto per i persiani, aveva provocato lo stesso scollamento tra i settori del centro e dell’ala sinistra, verificatasi a Isso.

 

Simmia però questa volta (al contrario di Antipatro) non riuscì a gestire la sua tàxis, colui che doveva serrare i ranghi tra i due reparti perse contatto con l'ala contigua arrestando la spinta e rimanendo a lungo indeciso tra l'inseguimento e la chiusura delle righe. L’indecisione gli costò un ingresso delle truppe di cavalleria indiane che operarono una specie di aggiramento della falange, riuscendo ad arrivare al convoglio delle salmerie, e degli ostaggi per riuscire a liberare i familiari di Dario.  Si narra che la regina madre Sisigambi quando stava per essere liberata, si sia rifiutata orgogliosamente di tornare in questo modo da Dario.

 

L’inaspettato successo indiano sconvolse in realtà i piani: la doppia linea falangita aveva ceduto e la carica indiana oltre a riuscire nel suo intento di liberare i prigionieri rischiava di massacrare l’intera falange se prontamente il piano predisposto dal Generale macedone non avesse funzionato a perfezione: le linee di chiusura a quadrato completarono perfettamente il loro compito, i responsabili delle seconde linee fecero girare i propri uomini evitando che le prime venissero prese alle spalle.

 

Alessandro a questo punto lanciato nell’inseguimento si dovette fermare perché ricevette, in un intenso scambio di messaggi, una richiesta d’aiuto da parte di Parmenione, che ormai era in difficoltà palese contro Mazeo, pur riuscendo a mantenere le sue posizioni; inoltre era stato raggiunto dalla notizia dell’attacco alle salmerie e agli ostaggi.

Contrariato nei confronti del suo anziano subalterno, il Giovane Re fu costretto comunque a rientrare.

 

L'ala sinistra era ancora irreparabilmente aggirata subendo l'attacco sul fianco; giunse così Alessndro come una furia sul fianco sinistro dei cavalieri parti, indiani e persiani, che combattevano animosamente ignari della fuga del loro sovrano.

 

Fu uno scontro epico tra le cavallerie detentrici realmente di quelli che saranno in futuro i potenziali offensivi espletati e tramandati ai cavalieri, da una parte romani e dall’altra parti, nella storia a venire.

 

Una volta liberati dalla pressione nemica i cavalieri tessali poterono ripartire alla carica mettendo in rotta i persiani ormai stretti tra due fuochi. Ma a differenza degli altri reparti questi catafratti, che continueranno a portare in alto il valore del loro nome almeno per altri nove secoli, si batterono allo strenuo uccidendo 60 Compagni riuscendo a ferire Parmenione, Ceno, Perdicca, Menda ed Efestione, colpito al braccio da una lancia.

 

Anche se può sembrare una cifra irrisoria dobbiamo considerare che la morte di 60 Etairoi è elevatissima se si considera che nei precedenti scontri i caduti erano meno di 1/6 del totale di Gaugamela.

 

A questo punto l’ala destra persiana era in balia della cavalleria tessala, a cui veniva lasciato il compito di spazzar via, insieme alle tàxeis, i resti dell’esercito persiano che si frapponeva all'avanzata.

 

Intanto, pigliosamente, il Giovane Condottiero operava una nuova conversione e non desistette dal l'inseguimento di Dario e dei fuggitivi in direzione del fiume Lieo (Grande Zab) e ivi giunto, a 30 km dal teatro di battaglia, lo attraversò agevolmente poiché Dario aveva lasciato intatti i ponti per permettere al proprio esercito di salvarsi. I fuggiaschi si accalcavano sugli stessi, cosa che fece infuriare il Macedone che non era interessato a loro e li spingeva a togliersi di mezzo. Per questo molti morirono inghiottiti dai gorghi del fiume.

 

Dopo esser giunto al campo persiano e essersi riposato il minimo necessario a notte fonda proseguì l'inseguimento, giungendo la mattina seguente ad Arbela. Qui non trovò il Persiano ma, come a Isso, rinvenne il tesoro, il bagaglio, il carro, lo scudo e le frecce del sovrano.

 

Il rientro al proprio campo rappresentò per Alessandro il momento di maggior pericolo durante quei due giorni di combattimenti. La sua scorta era euforica per la vittoria e distratta dalla convinzione che tutti i nemici fossero ormai morti, prigionieri o fuggiti: procedeva perciò in ordine sparso e senza prestare troppa attenzione al Re, quando comparve un drappello di cavalieri orientali sbandati dell'ala sinistra nemica che lo caricò. Se la cavò trafiggendo con la propria lancia più di un assalitore, prima di venire raggiunto e coadiuvato dagli altri, per poi tornare al campo incolume.

 

Nonostante il quasi avvenuto cedimento, la figura di Parmenione ne usciva virtualmente vincitrice poiché aveva dovuto sostenete un impatto notevolissimo e ciononostante era rimasta salda sulle sue posizioni. Sotto un profilo evidentemente numerico possiamo attestare che le perdite elleniche dovettero assommare ad 1 o 2 migliaia, nonostante le fonti parlino di poche centinaia (Diodoro addirittura 500); i persiani, nonostante vogliamo credere ad un rigonfiamento delle cifre (tra le 300 e le 90 mila unità), viziate dalla propaganda, dovettero aggirarsi sulla metà del contingente orientale.

 

Dario non riorganizzò le sue forze sparse. A marce forzate si diresse ad Arbela e da lì, senza fermarsi, deviò verso est entrando in Media, attraversando i monti Zagros per il passo Spilik e la moderna città di Ruwandiz. Con lui c'erano un nucleo della guardia reale e i resti dell'esercito mercenario. Fu anche raggiunto da Besso e dalla sua cavalleria, che era scampata alla battaglia più o meno intatta. Il resto dei sopravvissuti persiani si disperse, il gruppo più grande si unì a Mazeo, che compì una lunga deviazione alle spalle dell'esercito macedone, attraversò il Tigri e si rifugiò a Babilonia.

 

Alessandro si proclamava il vero e unico Gran Re d'Asia, promettendo la ricostruzione di Platea e spedendo una parte delle spoglie alla lontana Crotone in onore dei servigi resi da Faillo nel 480 a.C.

 

Un greco si autoproclamava successore di Serse e contemporaneamente vendicatore stesso del sacrilegio di Atene,  campione della libertà e dell'autonomia degli Elleni.

 

Gaugamela è considerata una battaglia epocale perché da ora in poi ad Alessandro si apriranno le porte d’Oriente dopo aver dato prova inappellabile del suo valore e della sua superiorità, riuscendo in ciò in cui nessun occidentale sarebbe mai più riuscito a fare.

 

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