N. 13 - Giugno 2006
ALESSANDRO
MAGNO. ALESSANDRO III DI MACEDONIA
Gaugamela
- Parte IX
di
Antonio Montesanti
Era la primavera del 331 a.C. e il confine costituito
dall’impero persiano si era assestato ormai
sull'Eufrate. Un confine che rimarrà per sempre nella
storia e che già prima di Lui aveva costituito una
frontiera e come tale rappresentava la prima barriera
da abbattere, ancor prima dell’Esercito Reale.
Problemi ed organizzazioni d’assestamento
L’intero esercito ripartì da Menfi e attraversò il Nilo e i
suoi canali, quindi si diresse nuovamente in Fenicia
dopo aver attraversato il Sinai. Nel tragitto venne
punita la popolazione della Samaria, che aveva
catturato e bruciato vivo il nuovo governatore
macedone Andromaco.
Vennero sottoposti a giudizio i tiranni filopersiani di
Chio e Lesbo, levata la guarnigione di Rodi ormai
tolta ai Persiani ed al campo era rientrato il
tesoriere Arpalo, che introdusse nei nuovi domini, ‘i
collettori di tributi’: in Siria, Fenicia e Palestina
venne posto Cerano di Berea, per l’Asia Minore,
Filosseno. Nearco fu mandato a governare la Licia e le
regioni non pacificate di Panfilia e Pisidia, Menandro
fu nominato satrapo di Lidia e Asclepiodoro di Siria.
Quindi il Giovane Re, al principio dell’estate si fermò a
Tiro a sacrificare nuovamente ad Eracle-Melqart con
grandiose celebrazioni. Questa volta gli vennero fatti
i dovuti onori dai re ciprioti di Salamina e Soli che
si preoccuparono d’ingaggiare i celeberrimi attori,
Atenodoro e Tessalo, amici personali del Re. Atenodoro
invece di partecipare alle Grandi Dionisie che si
sarebbero svolte da li a poco ad Atene inadempì al
contratto con cui era legato alla città, preferendo
gli onori delle competizioni teatrali in oriente.
Nonostante la multa inflittagli, gli Ateniesi non poterono
impedire ad attori e ad atleti di seguirne l’esempio;
tuttavia sfruttarono la situazione a loro vantaggio:
inviarono una delegazione ufficiale, guidata da
Achille e Diofanto e, seguendo l’esempio della Lega
Corinzia, una corona d'oro per le imprese effettuate
«per il bene e la libertà della Grecia»; con questa
scusa, giunti a Tiro, i rappresentanti, oltre a
congratularsi, chiesero il rilascio dei traditori del
Granico, e questa volta Alessandro, acconsentì alla
richiesta.
Ciò fu possibile grazie al cambiamento della situazione
nella Grecia politica. Anfotero, l'ammiraglio
macedone, stava contrastando contro le forze dello
spartano Agide stanziatesi a Creta con il pericolo che
le ostilità si diffondessero anche nel continente.
Antipatro e il suo navarco dovevano sbrigarsela da
soli nonostante i fondi stessero per finire.
Alessandro non desiderava sospendere la missione di
reclutamento di Aminta in Macedonia, che nella
primavera del 331 a.C. gli avrebbe inviato un'armata
di 15.000 uomini per la campagna in Mesopotamia.
Gli Ateniesi gli promettevano neutralità ed evidentemente
l’ appoggio in cambio di prigionieri: nello stesso
anno, Atene prese le distanze dall'alleanza con
Sparta.
Nel periodo compreso tra l’abbandono di Tiro e l’approccio
in Mesopotamia, Dario inviò le sue proposte. Mentre
durante la campagna in Medio Oriente, richiedeva il
riscatto della sua famiglia, la concessione del’impero
di Lidia, cioè l'Asia Minore dall'Ellesponto all'Ali,
adesso, Dario concedeva tutto il territorio ad ovest
dell’Eufrate, un trattato d'amicizia e/o d’alleanza e
la somma strabiliante di 30.000 talenti per la sua
famiglia e oltre a questo offriva in moglie la figlia
maggiore, Statira. Dopo un alterco con Parmenione, che
consigliava vivamente di accettare, Alessandro
rimandava al mittente seccamente tutte le proposte di
Dario: unica concessione che avrebbe dato era la
possibilità che il suo nemico si fosse sottomesso
incondizionatamente.
Verso lo scontro
Alessandro sapeva che se si fosse diretto a sud,
costeggiando il corso dell'Eufrate, avrebbe
probabilmente ripetuto l’errore di Ciro il Giovane, e
dei Diecimila, che nel 401 a.C. arrivò stremato allo
scontro con Artaserse II. Ma Alessandro aveva studiato
anche in quel caso l’antefatto storico. Ormai era il
momento d’agire, è incredibile ma aveva concesso a
Dario quasi due anni di tempo per poter ricostruire un
esercito.
Il Macedone inviò immediatamente Parmenione a presidiare,
sull'alto corso del fiume, la cittadina di Tapsaco (ad
est dell'odierna Meskene), perché gettasse due
ponti per l’attraversamento e per l’invasione della
Mesopotamia.
Dario sembrò fare lo stesso errore delle Porte Cilicie,
inviando un contingente irrisorio, ma secondo lui
bastevole, guidato dal suo satrapo Mazeo, a cui erano
state ‘strappate’ Cilicia, Fenicia e Siria, affinché
evitasse all'avanguardia macedone il passaggio sulla
sponda orientale del fiume. Il blocco o tentativo di
disturbo operato da Mazeo, con 3000 cavalieri, 2000
mercenari greci e 1000 asiatici, non servì a nulla:
dopo aver tenuto il blocco, evitando che le
costruzioni giungessero sulla riva opposta, alla sola
notizia dell’arrivo di Alessandro, il generale ritenne
superflua la sua resistenza, abbandonando il campo e
permettendo a Parmenione di concludere l’opera.
Intanto il tragitto effettuato dell’esercito macedone,
guidata dal suo Re, pur prolungando di molto il
viaggio per arrivare sul fiume-frontiera, evitò
accuratamente il torrido deserto siriano: seguì la
costa dell'intera Fenicia e giunto lungo quella
siriaca tagliò all’interno della regione verso est
attraversando il passo di Belen, arrivando
sulla sponda occidentale dell'Eufrate ai primi di
agosto.
Una volta attraversato il confine non si diresse
direttamente verso le grandi città persiane, tagliando
trasversalmente la Mesopotamia da nord a sud, come
pensava Dario, ma piuttosto preferì attendere…
Temporeggiò, piuttosto, e seguì la linea
settentrionale tenendosi ai margini della Mesopotamia,
cuore economico del dominio persiano, spostandosi
lungo le pendici degli alti rilievi armeni.
Arriano spiega la scelta con il fatto che da quella parte
il calore era meno intenso e il foraggio e le
provviste erano più abbondanti: Alessandro aveva
necessità di attendere, innanzitutto l'arrivo di un
clima più temperato e quindi una condizione climatica
utile per affrontare un esercito già disposto e
riposato come quello imperiale; le bestie da soma
necessitavano di foraggi freschi. Intuiva che la
cavalleria avrebbe avuto un ruolo di una certa
importanza.
In questo modo lo Stratega macedone seguiva anche le
ragioni militari, ancor più decisive.
Sin dall’inizio della sua campagna aveva utilizzato tutti
gli elementi a sua disposizione, la storia, la
geografia e soprattutto l’informazione: i movimenti di
Dario gli erano noti, aveva catturato di alcune
pattuglie d’avanguardia persiana; il sovrano orientale
aveva posto il suo quartier generale lungo il corso
superiore del Tigri e questa volta non era fisso come
nei precedenti scontri ma volutamente ‘mobile’ in modo
da poter aggredire l’avversario alle spalle quando
questi si fosse diretto verso Babilonia dove tra
l’altro era stato fissato il primo punto d’incontro
dell’esercito.
La linea difensiva di Dario questa volta prevedeva
un’attesa del nemico; aveva scelto la mobilità alla
staticità, nel caso di una battaglia campale; la
possibilità alla sicurezza, le alte montagne della
Media gli avrebbero fornito una via di fuga; la difesa
alla spavalderia dell’attacco, inoltre a livello
strategico fece quello che i suoi consiglieri –
soprattutto greci – gli avevano consigliato di fare
sin dal Granico. Intuiti i piani macedoni, Mazeo, in
precedenza satrapo della Siria, ebbe l’ordine di
impedire il passaggio dell'Eufrate e quindi fare terra
bruciata intorno, in modo che una volta superato il
fiume, le risorse macedoni si fossero presto
prosciugate: vennero arsi villaggi e raccolti. Inoltre
all’attendismo macedone ne corrispondeva uno persiano:
se proprio l’Argeade non avesse voluto scendere verso
sud, Dario lo obbligava a seguirlo verso le terre
steppiche e prive di risorse.
La cattura delle vedette nemiche lo aveva portato a
rimediare al problema che avrebbe dovuto affrontare.
Aveva dato ordine di trasportare con se le vettovaglie
affinché queste fossero necessarie per un periodo
sufficientemente lungo, fino al momento dello scontro
che comunque sarebbe giunto presto. Da Tapsaco, si
portò senza esitazione sul Tigri, percorrendo con una
marcia sostenuta i 2400 stadi (440 km), probabilmente
passando per Harran (Carrae) e quindi ad est
per Resena e forse Nisibi. L'avanzata condusse la
carovana ellenica sulle sponde del fiume forse
all'altezza dell'attuale Abu Dahir a nord di
Mosul.
Dario aveva inviato delle squadre di guastatori per
bruciare i raccolti e le vettovaglie. L’aria intorno
era ancora calda dei roghi appiccati e il fumo dei
combustibili utilizzati per bruciare rendeva l’area e
l’aria spettrale e desolata. Venne inviata
un’avanguardia che rientrò dopo aver confermato che i
Persiani avevano abbandonato il campo e quindi prima
di nuove sorprese si sbrigò a passare il fiume.
In settembre, l'acqua era ancora bassa, l'esercito poté
guadare il fiume senza usare imbarcazioni o ponti,
inoltre si scelse un punto in cui il corso d’acqua non
era poi estremamente ampio come il suo gemello
occidentale; piuttosto i problemi d’attraversamento
riguardavano la corrente estremamente impetuosa: il
Tigri è considerato il più vorticoso e veloce tra i
fiumi orientali e il suo corso è pieno di materiale di
ogni genere (pietre, rocce, sabbia, arbusti)
proveniente dai torrenti suoi affluenti. Per questo le
popolazioni lo chiamarono Tigri, perché nelle lingue
orientali concepiva il significato di qualcosa
d’aguzzo simile ad un dardo, saetta (ant. persiano).
Il passaggio fluviale non fu estremamente drammatico.
Tuttavia mentre i cavalieri passarono senza problemi
di sorta e la fanteria, pur avendo individuato il
guado meno profondo, attraversò l'alveo che produsse
come unico effetto negativo la perdita delle
vettovaglie personali.
I cavalieri di Mazeo, agli ordini di Satropate,
assistettero alla scena e quando decisero per
l’intervento, Alessandro spedì in fretta e furia
Aristone e i suoi peoni (cavalleria leggera) a
contrastare l’offensiva, perché bloccasse le
intenzioni nemiche. I cavalieri asiatici vennero
decimati mentre il greco tornava dal suo Re con la
testa di Satropate, inseguito e ucciso tra i suoi
uomini in fuga.
All’alba del 21 settembre, dopo che la notte aveva portato
con se l’eclissi di luna, vennero espletati i
sacrifici di rito ispirati dall’evento e furono tratti
gli auspici (favorevoli) per lo scontro ormai
imminente dall'indovino di corte. Dopo aver concesso
due giorni di riposo, il condottiero guidò p il
proprio esercito lungo la pianura assira compresa tra
il Tigri e le pendici meridionali del Gordiene
(Kurdistan). Anche questo settore era stato messo a
ferro e fuoco dai Persiani ma questa volta era stato
commesso uno dei tanti errori: dei magazzini e dei
granai erano stati bruciati solo dall’alto e quindi i
tetti di paglia, in questo modo la parte inferiore e
ancora piena di frumento era intatta.
Certi delle risorse, rinvigoriti dalla temperatura e sicuri
delle loro possibilità accentuate dal continuo
arretrare delle linee nemiche, i militi macedoni
proseguirono spediti, e si fermarono solo dopo quattro
giorni, quando venne intercettato un manipolo di
cavalieri nemici. Era necessario appurare, a questo
punto, se questo contingente avversario era una
guarnigione di controllo delle vie d’accesso al
quartier generale di Dario o se fosse l'avanguardia
dell'armata avversaria.
Alessandro si prese la briga di appurarlo personalmente: a
capo di tre squadroni di peoni, ipaspisti e Eterii
iniziò un inseguimento immediato con l’ordine che
l’esercito lo seguisse da lontano. Alcuni persiani
vennero presi dopo che le loro cavalcature furono
abbattute dai lanciatori di dardi, quindi confessarono
che l'esercito di Dario era accampato nei pressi
dell'ampia pianura, di dodici chilometri quadrati, di
Gaugamela ("casa, oasi o pascolo del cammello").
Strategie militari e composizione degli eserciti
Il campo di battaglia, uno tra i più celebri di tutta la
storia era un piccolo villaggio presso il colle di
Tel Gomel, tra le riva del fiume Bumelos
(l'odierno Khajir) e le pendici del Jabal
Maqlub poco a nord del Tigri e tra le rovine
dell'antica capitale assira Ninive, e a 90 km a ovest
della città di Arbela (l'odierna Erbil).
Isso aveva ‘disintegrato’ l’esercito persiano e gli alti
comandi avevano dovuto ricostruirlo ex nihilo e
questa volta avrebbe dovuto essere qualitativamente
all'altezza di quello macedone.
Le vedette persiane catturate fornirono informazioni
fondamentali ad Alessandro; sembrava che questa volta
il re avesse tratto spunto e fatto tesoro
dall’esperienza di Isso: era stato scelto un campo di
battaglia, a 150 stadi di distanza, sufficientemente
ampio per dispiegare tutta la quantità della fanteria
e la potenza della sua cavalleria e nascosto alla
vista dei macedoni dal massiccio di Jabal Maqlub.
In un anno e mezzo i gerarchi persiani avevano avuto
il tempo di effettuare una leva che avesse nelle
caratteristiche qualitative la propria forza in modo
da poter contrastare l’azione di un esercito
professionale guidato da un essere quasi sovrumano.
Più che la fanteria fu la cavalleria ad essere
riorganizzata, poiché si confidava sul fatto che
quantitativamente i Persiani avrebbero sovrastato le
sarisse macedoni, prima o poi, visto che i mercenari
greci disponibili erano troppo pochi; i cardaci
(fanteria leggera) erano troppo deboli contro la
falange e in più la cavalleria pesante europea era
praticamente immune alla pioggia di frecce degli
arcieri medi.
La cavalleria venne armata con lance lunghe e scudi invece
dei giavellotti che spesso erano troppo corti o usati
per il lancio.
Tuttavia, nonostante le accuratezze, le accortezze e
l’esperienza, Dario sembrava non riuscire a venirne a
capo della questione. Da una parte si cercava di
evitare una battaglia campale, poiché in uno scontro
in pianura la cavalleria macedone avrebbe avuto di
certo la meglio, dall’altra necessitava un’amplia rada
per sfruttare e utilizzare nel modo migliore il
potenziale numerico degli effettivi orientali. La
presenza di una potente cavalleria, quasi inutilizzata
ad Isso, lo convinse della necessità di un ampio
terreno pianeggiante, dove potessero essere dispiegati
tutti gli uomini impiegati.
Su questa immensa piana tra le montagne, il Gran Re poteva
contare su un numero di guerrieri impensabile. Se
solamente facessimo una media, e si sottolinea media,
di tutti gli effettivi che ci hanno tramandato le
fonti (Curzio Rufo, Diodoro Siculo, Giustino) ,
avremmo un esercito così composto: 700.000 fanti,
60.000 cavalieri e 200 carri falcati e 40 elefanti,
con un minimo di 200.000 fanti e 45.000 cavalieri
(Curzio Rufo) fino a un massimo di 1.000.000 di fanti
e 400.000 cavalieri (Arriano).
Certamente un buon dato sarebbe ricavabile, qualora
anch’esso non sia stato ‘gonfiato’ come suppongono
molti storici, che l'intero esercito abbia impiegato
cinque giorni per transitare sul ponte sul fiume Lieos
(od. Gran Zab), che affluisce nel Tigri a 40 km
a sud di Mossul, per passare da Arbela a Gaugamela.
Gli studiosi di strategia militare, comunque, si
espongono ipotizzando al massimo un rapporto tra i due
eserciti di cinque a uno in favore del Persiano.
L’unica arma rimaneva la sola cavalleria, inutile contro le
lance della taxis: fu allora che venne
utilizzata un’arma antichissima, usata già dagli
Ittiti e Assiri, di cui i Persiani detenevano la
memoria storica e che doveva scardinare l’ordine
serrato della fanteria pesante macedone: i tremendi
carri falcati. Dario basava la sua forza d’urto su
questi elementi, cavalleria e carri: i rialzi, le
cunette e le pendenze e qualsiasi ondulazione del
terreno, vennero spianati e livellati appositamente.
In questo modo L’ampia distesa avrebbe dovuto
garantire, soprattutto ai carri e gli uomini a cavallo
il maggior raggio di manovra e anche il dispiegamento
totale della fanteria.
Le forze persiane erano così composte: oltre alla guardia
reale (gli Immortali o melofori) e a pochissimi fedeli
mercenari Greci, vi erano gli Indiani della pianura
confinanti con la Battriana, gli stessi Battriani (o
Bactriani) e i Sogdiani erano sotto il comando di
Besso, satrapo delle regioni di confine. Gli arcieri a
cavallo, i Saci, di stirpe scitica d'Asia (Sciti del
Turkestan, a nord del fiume Iassatre) non sottomessi
ma alleati erano comandati da Mauace. Barsente,
satrapo dell'Aracosia, era a capo degli Aracosii e
degli Indiani montanari. Satibarzane era satrapo e
comandante degli Arii. Frataferne conduceva i
cavalieri Parti, Ircani e Topiri; mentre Atropate i
Medi, al loro fianco erano schierati Cadusii, Albani e
Sacesini. Orontobate, Ariobarzane e Orxine comandavano
le genti provenienti dalle rive del Mar Rosso. Gli
Uxii e i Susiani riconoscevano in Oxatre, figlio di
Abulite, il loro capo. Bupare guidava i Babilonesi i
Carii esuli e i Sittaceni. Oronte e Mitrauste
guidavano gli Armeni, Ariace (o Ariarate?) i Cappadoci;
Mazeo i siriani della Celesiria e della Siria
mesopotamica. A differenza di Isso, Dario poteva
contare sui temibili cavalieri sciti, i Massageti, i
Saci, i Dahi e soprattutto sugli elefanti delle
regioni più periferiche dell'impero.
L’Argeade che decise di utilizzare i soli guerrieri
efficienti, per la prima volta, fece allestire, un
campo con fossato e palizzata con lo scopo di non
utilizzare riserve, dove dispose bagagli, salmerie
feriti e accompagnatori non combattenti, e che fosse
protetto esclusivamente dai fanti traci.
Il suo esercito, grazie ai nuovi contingenti di rinforzo
dalla Macedonia, era composto ancora da 40.000 fanti e
7.000 cavalieri, di poco più numeroso di quello con
cui era partito, ma ben poco in confronto a quanto era
riuscito a organizzare il suo avversario.
L’intero esercito elllenico si assestò all’interno del
campo trincerato sotto il versante settentrionale del
Jabal Maqlub per quattro giorni, affinché si
riposasse dalle fatiche della marcia esasperata dalla
Siria; 10 km separavano le postazioni dei due eserciti
e nel bel mezzo della notte del quinto giorno iniziò
la marcia attraverso le alture che lo dividevano dal
nemico.
Alessandro avrebbe voluto attaccare battaglia all’alba
prendendo Dario di sorpresa. Ma la tattica non riuscì
al Macedone poiché gli esploratori persiani di guardia
avvertirono per tempo dei movimenti avversari il loro
sovrano, che ebbe la parte terminale della nottata per
schierare l’esercito. Questa volta, come detto, e per
la prima volta, era il Gran Re ad attendere il Giovane
Re che mise da parte la spavalderia degli scontri
passati: la sua marcia divenne più cauta durante
l’avvicinamento e prese in considerazione i
suggerimenti di Parmenione e gli interventi del
consiglio di guerra che in questo frangente venne
allargato anche ai comandanti mercenari e alleati.
Benché i macedoni avessero valicato le alture che
introducevano il corpo di spedizione all’interno della
piana e nonostante li separassero dagli avversari
ancora 5 km, venne inviata un'avanguardia in
esplorazione per esaminare nel dettaglio il campo di
battaglia, quindi venne abbandonata l’idea di
attaccare furasticamente. In un’area in lieve
pendenza, a suo vantaggio, venne fermata la
disposizione di battaglia. Quindi lo stesso “Figlio di
Zeus” si spinse in avanti con i Compagni e alcuni
armati alla leggera di copertura, per osservarli
agevolmente la disposizione dell'esercito avversario e
studiare il campo.
In un brano del discorso che egli fece ai suoi generali al
suo ritorno alle linee, risultano evidenti due punti
sui quali doveva in un qualche modo insistere:
l’importanza o la portata storica dello scontro e la
differenza tra gli eserciti.
«Andate, dunque ed animate le vostre truppe perché compiano
oggi la più grande delle imprese mai compiute dagli
uomini: non l’Anatolia, non la Fenicia, né l'Egitto,
ma l'Asia intera li attende. Di fronte a loro vi è un
esercito sterminato di barbari ma in pochi hanno delle
armi degne di questo nome: uno non ha che un
giavellotto, un altro rotea sassi con la fionda. Da
quella parte vi è il semplice numero, da questa saremo
in molti di più a combattere!».
Sentito questo discorso le posizioni si ribaltarono: questa
volta fu il cauto Parmenione, a far cadere i propri
timori, spingendo il consiglio macedone ad un attacco
fulmineo prima dell’alba convinto che l'intero
esercito persiano non si sarebbe potuto schierare al
completo; in una situazione del genere l’unico
pericolo che attanagliava la mente macedone era la
paura di venire sopraffatti dal numero, dalla
stanchezza e ancor di più dall’accerchiamento: la
notte avrebbe evitato almeno quest’ultimo pericolo.
Ancora e anche questa volta il Giovane Condottiero respinse
fermamente il consiglio e questa volta sembra che il
veterano non abbia gradito questa ennesima umiliazione
“appesantita” dall’affermazione che sottolineava il
fatto che ci si sarebbe dovuti vergognare a rubare in
quel modo la vittoria, che avrebbe dovuto essere
ottenuta alla luce del sole. La pesante battuta
“gratuita” fu forse dovuta all’incoscienza di
Parmenione che sottovalutava che un combattimento
notturno avrebbe favorito chi conosceva meglio i
luoghi.
Decise quindi che l’esercito non si predisponesse in campo
aperto ma sulle pendici delle colline, perché quel
campo era stato preparato apposta per lo scontro.
Secondo le interpretazioni degli storici antichi questa fu
una delle prime volte in cui venne attuata la guerra
psicologica: con l’attesa allo scontro, Alessandro
intendeva far salire negli animi dei nemici la paura,
il dubbio, fiaccarli psicologicamente. Nella loro
certezza avrebbe fatto crescere il baco
dell’apprensione, lentamente…
Allarmati nel bel mezzo del sonno e della notte i persiani
rimasero all’erta fino all’alba, gran parte di loro
erano al loro primo scontro, e vennero fiaccati forse
più nello spirito piuttosto che nel corpo; al
contrario, gli uomini di Alessandro erano freschi e
imbaldanziti dal fatto che erano loro a preparare
l’attacco, non temendo alcuna sortita dai nemici.
La disposizione di battaglia.
Schieramento e tattica.
Persiani
Vi sono versioni differenti sulla disposizione delle truppe
persiane dovute forse più al gran numero e alla
confusione, piuttosto che all’imprecisione delle
fonti. La disposizione persiana ci è nota dai piani di
battaglia del Gran Re caduti in mano macedone
all’indomani dello scontro secondo Aristobulo. Il
fronte era dettagliatamente scandito ed organizzato
secondo la provenienza:
Ala sinistra. Comandante Besso.
Linea avanzata: 100 carri falcati.
Prima linea – generale Barsaente: (che avrebbe dovuto
ammortizzare l’impatto frontale di Alessandro e i suoi
hetaìroi), 2000 cavalieri sciti, 1000 battriani,
provenienti dall'Afghanistan settentrionale, tutti
catafratti.
Seconda linea, generale Oxatre: 8000 cavalieri
battriani, 1000 arcieri a cavallo dahi provenienti
dalla Pianura Turanica, 2000 arcieri a cavallo
aracosii, originari dell'Iran orientale, 2000
cavalieri e fanti persiani frammisti susiani, contigui
al centro, un numero imprecisato di cadusii, fanti
leggeri specializzati nel lancio del giavellotto e
provenienti dall'angolo sud-occidentale del Mar
Caspio.
Centro. Comandante supremo Dario.
Linea avanzata: 50 carri falcati.
Prima linea (davanti a Dario) – Comandante Orxine.
Generali Orontobate e Ariobarzane: indiani, carii,
arcieri mardi, provenienti dalla zona ad oriente del
Mar Caspio, cossei, montanari dello Zagros a nord di
Susa, e i sogdiani, della regione di Samarcanda.
Seconda linea: Dario con il suo squadrone scelto di
consanguinei e guardia reale di melophóroi
affiancato ai lati da 2000 mercenari greci al comando
di Patrone e Glauco.
Terza linea – Comandante Bupare: uxii dello Zagros,
babilonesi, combattenti dal Mar Rosso e sittaceni.
Forse di questa linea facevano parte anche gli
elefanti ma non appaiono nel corso della battaglia e
forse non vennero utilizzati poiché, sembra
innervosissero i cavalli.
Ala destra. Comandante – Mazeo.
Prima linea – Generale Fradate: 50 carri falcati,
cavalieri armeni (Oronte e Mitrauste), cappadoci (Ariace).
Seconda linea – Generale Frataferne. Dall’esterno:
Siriani e soldati della Mesopotamia, i medi di
Atropate, provenienti dal Golfo Persico, saci (Manace),
parti, topiri e ircani di Frataferne, provenienti a
sud del Mar Caspio, albani e per ultimi i sacesini, a
ridosso dei sogdiani.
Dario aveva agito secondo uno schema altamente
isometrico/speculare e seguito solo criteri legati
alla funzionalità equestre, pedestre o di lancio ed in
più aveva utilizzato un criterio di provenienza: le
sue truppe più occidentali, provenienti dal settore
compreso tra dal Golfo Persico e Siria, sull'ala
destra; i persiani e medi, al centro; mentre i
guerrieri dalle zone più orientali, afghani e indiani,
coprivano l’ala destra.
La strategia persiana dettava di creare nel fronte nemico
squarci attraverso i carri falcati in cui potesse
inserirsi la cavalleria, mantenendo allo stesso tempo
l'integrità della propria formazione, inoltre i fronte
di ampia cavalleria intatto doveva evitare che i
cavalieri macedoni sferrassero un attacco diretto.
Macedoni
Alessandro utilizzò sempre lo stesso modulo, aveva a
disposizione 7000 cavalieri e i 40.000 fanti, cifre
forse abbassate da Arriano per rendere ancora più
eclatante il confronto. Lo schieramento fu simile a
quello dei due scontri decisivi precedenti:
Ala destra. Comandante supremo Alessandro.
Comandante dell’ala Filota.
Prima linea – Generale Balacro: costituita da metà
degli agriani e degli arcieri cretesi, e dai
sarissofóroi.
Seconda linea – Ogni divisione aveva il suo Generale:
turme di eteri in successione, partendo dall'esterno,
erano guidati dai Generali: Clito il Nero con l'agema
o guardia reale, Glaucia, Aristone, Sopoli, Eraclide,
Demetrio, Meleagro (I) ed Egeloco. Il figlio di
Parmenione, Filota, ne era il comandante assoluto di
tutte le compagnie.
Centro. Comandante Cratero.
Linea unica – Ogni tàxis aveva il suo generale.
Da destra a sinistra: Ipaspisti di Nicanore, l'altro
figlio di Parmenione; la tàxis falangita di
Ceno, Perdicca, Meleagro (II), Poliperconte, Simmia
che sostituiva Aminta, in quel periodo in missione in
Macedonia per reperire le truppe. I mercenari anziani,
guidati da Olenadro, avevano il compito di schiudere
gli interstizi falangiti.
Falange di riserva o copertura e riserve traci.
Ala sinistra – Comandante Parmenione
Prima linea – Generale Andromaco: cavalleria
mercenaria, la seconda metà degli arcieri cretesi
erano alla loro sinistra tra prima e seconda linea.
Seconda linea – Generali e truppe da destra a
sinistra: tàxis di Cratero, quindi la cavalleria
alleata agli ordini di Erigio, i tessali di Filippo
figlio di Menelao, tra le due cavallerie, alleata e
tessale si disponeva il comandante dell'ala:
Parmenione.
Tuttavia, questa volta le immense dimensioni dell'esercito
persiano e la quasi certezza di finire circondati
portarono Alessandro ad adottare una variante che
avrebbe risolto parte dei problemi.
Il Macedone aveva per la prima volta ridotto l’asse
avanzato della falange, in questo modo costringeva i
suoi soldati a uno sforzo maggiore, d’altro canto
creava una seconda linea “mobile” in modo che i
falangiti arretrati potessero agire anche su gli altri
fronti. L’aggiramento delle tàxeis era la cosa
peggiore che potesse accadere. La seconda linea
falangita era costituita da due colonne mobili alle
spalle delle quali si trovavano i parenti di Dario,
sorvegliati dai traci.
Questa seconda linea doveva essere mobile e pronta in ogni
momento ad intervenire nel caso in cui vi fosse stato
un primo tentativo di aggiramento sui fianchi o
addirittura a ruotare di 180° nell’evenienza in cui
l’aggiramento nemico avesse raggiunto le spalle dello
schieramento.
In questa battaglia, per la prima volta, si riconoscono
lontanamente due elementi che saranno caratteristici
della logistica e della tattica romana del
combattimento: il campo trincerato a supporto di uno
scontro e la formazione chiusa su diversi lati.
“Questa formazione consisteva di una disposizione quasi a
quadrato, poiché i tre lati di un quadrato erano
talmente elastici e mobili, almeno sui lati che
potevano essere in grado di affrontare attacchi in
qualunque direzione provenissero” (W.W. Tarn).
Alessandro aveva capito che sarebbe stato senz'altro
aggirato ai fianchi e probabilmente aveva già
calcolato l’attacco che avrebbe guidato personalmente,
era come se avesse già studiato tutto. La cavalleria
degli eteri era al fianco della falange e avrebbe
dovuto dare l’impressione di difendere il fianco
destro che ovviamente era quello più esposto. Però
come ulteriore protezione, oltre alla seconda linea
falangita, lo stratega supremo predisponeva tre linee,
a partire dall'angolo esterno: la prima costituita da
metà degli agriani (Attalo), dagli arcieri macedoni (Brisone)
e dai mercenari veterani (Cleandro); davanti a loro,
un'altra linea di cavalleria leggera (Arete) e di
peoni (Aristone); ed infine la terza linea dei
mercenari a cavallo (Menida), che avevano il ruolo più
importante: impedire, evitare ed intercettare il
nemico qualora avesse mostrato le intenzioni di
penetrare sul fianco della falange secondo o dell’ala
destra di cavalleria.
Scopo dell’intero meccanismo era la potenzialità che
dovesse avere l'ala destra di operare senza aver
pensiero di lasciare sguarnito il lato della falange.
Lo stesso meccanismo valeva per l’ala sinistra,
monitorata dai traci (Sitalce), dagli alleati a
cavallo (Cerano) e dagli odrisi (Agatone).
Aneddoti
Verso sera Alessandro sacrificò a Phóbos, quindi
celebrò in privato riti segreti sotto la supervisione
di Aristandro e Telmisso, dopo aver impartito gli
ordini ai suoi generali.
Lo scontro non avvenne neanche all’alba ma a mattinata
inoltrata del primo ottobre.
Come solitamente accade abbiamo una notizia piuttosto certa
del perché ciò avvenne: Alessandro si era addormentato
tardi e non si svegliava. A Parmenione toccò, in tarda
mattinata, il compito di spronarlo ad alzarsi, poiché
nessuno dei suoi ufficiali ne aveva il coraggio!
Le interpretazioni di questa lunga dormita sono
fondamentalmente due: la preoccupazione per l'esito
dello scontro lo avrebbe portato ad addormentarsi
tardissimo, vista l’angoscia e l’indecisione sul piano
e sulla tattica da adottare; la seconda versione
riteneva che avesse un sonno talmente sereno poiché
era tranquillo e certo della vittoria. In realtà
dobbiamo pensare che seppe e sapeva quello che doveva
fare, ma questo gli portò via gran parte della notte
per preparare il piano nei minimi particolari. Sembra
che lo Stratega fosse più preoccupato del fatto di
dover inseguire Dario per l’Asia intera piuttosto che
doverlo affrontare sul campo.
Uscito dalla tenda, Plutarco ci ha lasciato la descrizione
del suoi paludamenti: “portava [...] una veste Sicilia
ricamata legata in vita nella parte superiore un
corpetto di lino doppio, di quelle prese ad Isso.
L'elmo, opera di Teòfilo, era di ferro, ma risplendeva
come fosse d'argento puro; vi era attaccata una
gorgiera, anch'essa di ferro, ornata con pietre
(preziose); la spada, mirabile per la tempra e la
leggerezza, gliela aveva donata il re dei Cizi, era
anch’essa decorata; egli amava usare questo tipo
d'arma in battaglia. Portava anche un manto che per la
lavorazione era superiore ad ogni altra parte
dell'armatura: esso era opera di Elicone il vecchio,
dono della città di Rodi in segno di onore, che però
in battaglia era solito toglierlo.” (Plut. Alex.,
XXXII).
Per la prima volta utilizzò Bucefalo solo per la battaglia
vera e propria tenendolo a riposo fino all’ultimo
momento.
Dopo aver tenuto una breve adlocutio ai soli alleati
greci, invocò l’aiuto di “Zeus Patèr” che si
materializzò con l'apparizione di un'aquila in volo
contro il fronte nemico.
La dinamica
Se la formazione di partenza è relativamente chiara, la
battaglia è tramandata in modo differente da fonte a
fonte, tanto che i contemporanei ebbero grosse
difficoltà a ricostruirla: non solo ogni partecipante
ebbe una visione differente e in una prospettiva non
congrua, ma la polvere non deve aver aiutato gli
osservatori in questo compito.
Un episodio riportato da Curzio Rufo è indicatore di una
serie di elementi tra cui l’ammirazione che alcuni dei
persiani dovevano avere per il re Macedone: un
disertore con un cavallo velocissimo poco prima dello
scontro galoppò velocemente verso Alessandro in
persona e gli riferì che il terreno di fronte a lui
era disseminato di spuntoni di ferro nascosti.
Secondo alcuni questo fu il motivo per cui il Figlio di
Filippo avanzò durante lo scontro non diagonalmente
tagliando il campo come suo solito, ossia in maniera
“diretta”, bensì si allargò verso destra, puntando sul
fianco avversario in modo che il fronte macedone
divenisse obliquo.
Il campo fu lasciato sgombro e dell’intero schieramento
macedone avanzò esclusivamente il Re seguito da Clito
e dai compagni, dapprima lentamente e poi sempre più
velocemente. A questo punto Dario, per non fornire
alcun vantaggio ed evitare un inizio d’accerchiamento,
tentò di contrastare il movimento, diede l’ordine di
marciare in avanti con il corno sinistro,
specularmente. Il fronte persiano da questa parte fu
costretto ad un allungamento sempre più a sinistra,
poiché più si avvicinavano i macedoni, più si
allargavano come se volessero aggirare il nemico. A
sua volta il centro persiano era costretto ad avanzare
per non lasciare i due settori troppo disgiunti.
L’avanzamento e lo slittamento verso sinistra con
l’avvicinamento macedone destro, aveva provocato i
primi contatti: gli sciti erano ormai bersaglio di
agriani, arceri e dei giavellotti di Balacro, una
carica diretta su i lanciatori macedoni avrebbe di
fatto isolato i catafratti sciti ed esposti ad un
rientro della cavallria pesante macedone, quindi fu
dato l’ordine di evitare lo scontro e di tentare un
aggiramento. Poco prima dell’aggiramento macedone sul
limite dell’ala, la cavalleria battriana e saca, che
agiva da guardia sui fianchi, non poteva più attendere
e sferrò un attacco teso a bloccare il tentativo.
A questo punto intervenne Menida secondo le disposizioni
che Alessandro gli aveva dato di bloccare un taglio
diagonale della cavalleria nemica in fase di
aggiramento. Qui avvenne il primo contatto a cui si
aggiunsero le linee successive più prossime alla
scintilla. I battilani delle schiere del Gran re
condussero lo scontro verso un momentaneo vantaggio
asiatico. Ma gli uomini in fuga di Menida, inferiori
per numero ed armamento si ripresero quasi
immediatamente grazie al subentrare dei peoni di Arete
e dei mercenari; tutte le armate europee vennero
investite dalla forza d’urto dei catafratti bactriani.
Dopo uno scontro feroce, alla fine, nonostante le
innumerevoli perdite i macedoni evitarono lo
sfondamento e volsero in fuga il nemico.
Vedendo che la falange non avanzava, Dario ordinò che i
carri falcati si muovessero rischiando di perderli per
gli stessi trabocchetti fatti collocare da lui
medesimo sulla piana.
Non è chiaro se abbia ordinato la partenza allo scontro di
quelli obliqui o che dovevano dar man forte alla
cavalleria sulla destra, o abbia ordinato la carica di
tutti i reparti di carri. Secondo alcuni autori, dei
duecento carri disposti, in pochi arrivarono a
contatto: alcuni vennero bersagliati dagli arcieri e
dai lancieri di Balacro e quindi una volta eliminati
gli aurighi vennero neutralizzati, altri non partirono
perché i cavalli vennero spaventati dal rumore che
producevano i pezeteri battendo le sarisse sugli
scudi, altri ancora vennero semplicemente “lasciati
passare”: prima del contatto la falange si apriva
appositamente. Secondo altri autori (Curzio Rufo e
Diodoro Siculo) il contatto, invece, tra carri e
falange ci fu.
Ma i Macedoni seppero bene come difendersi, aprendosi e
richiudendosi appositamente per
massacrarne i guidatori. Comunque solo pochissimi macedoni
vennero investiti dalle falci e fatti a pezzi, i resto
si difese in maniera egregia.
Questa tattica era già fallita clamorosamente.
Ancora una volta Alessandro utilizzò la storia e
l’esperienza, per non commettere gli errori di chi
l’aveva preceduto, ancora una volta Senofonte nella
sua Anabasi di lo aveva aiutato: lo storico/soldato,
inscenando la fittizia battaglia di Timbra (o Timbrara),
attribuiva ai carri falcati un ruolo decisivo,
osservando che costituivano un'arma importante per
tutti i sovrani persiani.
Nelle deboli e disorganizzate fanterie orientali queste
armi potevano riportare successo notele , e Dario
sperava che il loro impeto spezzasse il fronte di
battaglia avversario e creasse dei vuoti in cui
avrebbe potuto infilarsi la sua cavalleria pesante. Il
macedone sapeva questo e sapeva come i mercenari
opliti greci, soprattutto spartani, erano stati in
grado di respingere questo tipo di attacco nella
battaglia di Cunassa.
Battaglia di Cunassa
(3 settembre 401 a.C.)
La battaglia si svolse tra i fratelli Artaserse II e Ciro
il Giovane per i trono di Persia.
Ciro rivendicando il trono si avvalse del supporto dei
mercenari greci per formare il nucleo del proprio
esercito, poiché aveva promesso agli Elleni, in
caso di vittoria la libertà delle colonie d’Asia
Minore. Con questo esercito marciò verso le città
mesopotamiche quando dopo una marcia dura
attraverso il deserto siriano venne intercettato a
Cunassa, sulla sponda sinistra dell'Eufrate.
Artaserse con un esercito di gran lunga superiore rischiò
seriamente di essere sconfitto dal valore ed
armamento dei greci i quali seppero ben difendersi
dai cavalieri e dagli attacchi dei carri falcati.
Gli spartani guidati da Clearco sbaragliarono l’ala
sinistra persiana guidata da Tissaferne. Quando il
centro persiano sospinto da Artaserse in persona
attaccò al centro Ciro il Giovane, il quale riuscì
a metterlo in fuga uccidendo il satrapo Artagerse,
guardia personale del Gran Re. Durante
l’inseguimento Ciro viene colpito da un
giavellotto in viso e questo provoca lo sgomento
nelle truppe orientali ribelli. L’ala sinistra del
defunto pretendente, comandata da Arieo, si ritira
consegnando di fatto la vittoria ad Artaserse che
incalza i nemici ma che non riesce ad abbattere il
corpo di spedizione greco che rimane imbattuto,
costringendolo a ritirarsi con il suo secondo
Artaferne.
Senza provviste, un campo e nel nulla del deserto i
mercenari ellenici, di cui fa parte anche
Senofonte, iniziano il lungo ritorno (Anabasi)
verso le coste del Mediterraneo.
L’intera questione della città greche d’Asia si
concluderà 5 anni dopo con la pace di Antalcida
(386 a.C.) che non faceva altro che ribadire il
dominio persiano sulle colonie ioniche.
Le analogie tra le battaglie di Cunassa e
Gaugamela sono impressionanti. |
Vedendo quello che stava accadendo, ossia il fatto che la
sua ala sinistra stava per essere presa alle spalle,
Dario decise di spingere anche i catafratti battriani
e sciti sul fianco destro degli hetaìroi,
affinché fossero a loro volta circondati dalla
cavalleria pesante persiana e chiusi a tenaglia
dall’imponente centro dello schieramento orientale che
si stava rivolgendo a sinistra.
Arete, venne allora comandato da Alessandro di aprire un
varco nel punto esatto di congiungimento tra ala e
centro. Il subalterno macedone, o comunque la sua
divisione ci riuscì egregiamente, non sfondando la
cavalleria centrale persiana ma attirandola a se;
questa manovra aveva comunque ottenuto l’effetto
desiderato dal Macedone.
Appena vide l’aprirsi del varco, e prima che questo si
richiudesse, il Condottiero alla testa del suo
squadrone dispose la formazione a cuneo – detta anche
Lambda, dalla forma della lettera greca –, con Lui e i
Compagni che componevano il cuneo, seguiti dai
pezetèri, imponendo la carica, puntò direttamente sul
Dario. Il tentativo di chiusura immediato del varco fu
reso inutile dalla tattica di combattimento macedone
che conosceva perfettamente l’uso delle sarisse contro
la fanteria avversaria che veniva allargata
progressivamente.
Con questa mossa Alessandro aveva dato una svolta alla
battaglia che ancora era non solo lontana dal prendere
una piega ma in alcuni settori doveva ancora iniziare.
La reazione di Dario e la temerarietà del suo avversario
furono la chiave pregiudicante dello scontro: quando
il suo auriga venne ucciso da un colpo di lancia
scagliata forse da Alessandro stesso, dopo aver
estratto la scimitarra per contrastare personalmente
il Demone occidentale, la ripose dandosi
precipitosamente e vergognosamente, per la seconda
volta, alla fuga.
La fuga del Gran Re decise la sconfitta; lo stesso, che
agli inizi della propria carriera, si era guadagnato
la sua reputazione e aveva segnandola attraverso il
suo straordinario coraggio dimostrato contro le
popolazioni caduse.
I cavalieri che lo attorniavano rimasero come ipnotizzati,
scambiando dapprincipio l’auriga morto per il loro
signore, poi vennero assaliti dal panico quando lo
videro fuggire, prima di darsi alla fuga anche loro,
venendo in buona parte massacrati dalle truppe di
Arete. La nube di polvere sollevata dai fuggiaschi
favorì involontariamente la fuga del loro re, cercato
invano da Alessandro che abbozzò un inseguimento
basandosi solo sul rumore degli zoccoli, delle grida e
delle fruste.
La metà sinistra si frantumò in pochi attimi, tra fughe e
massacri operati dai macedoni.
Quando Alessandro lanciò il suo assalto, furono lasciati
isolati di fronte alle forze battriane anche Menida e
la cavalleria del fianco di guardia, ma Besso dalla
sua posizione poté vedere la distruzione del centro e
fece ritirare in buon ordine le proprie forze, rimaste
praticamente intatte.
Una situazione piuttosto simile, ma in senso speculare e
quindi a vantaggio persiano, accadeva dalla parte
opposta. La sinistra ellenica era ormai sotto
pressione fin dall'inizio. Mazeo e la sua destra
stavano sopraffacendo Cratero e Parmenione, i quali si
erano fatti quasi aggirare dalla cavalleria
avversaria. Dopotutto il lato sinistro era più
sguarnito rispetto a quello destro; i traci, gli
odrisi e gli alleati vennero sopraffatti dai
catafratti armeni e cappadoci e avevano costretto i
tessali a difendersi su due fronti, quello anteriore e
quello estremo laterale sinistro per evitare di essere
aggirati. Questo allungamento, come era avvenuto per i
persiani, aveva provocato lo stesso scollamento tra i
settori del centro e dell’ala sinistra, verificatasi a
Isso.
Simmia però questa volta (al contrario di Antipatro) non
riuscì a gestire la sua tàxis, colui che doveva
serrare i ranghi tra i due reparti perse contatto con
l'ala contigua arrestando la spinta e rimanendo a
lungo indeciso tra l'inseguimento e la chiusura delle
righe. L’indecisione gli costò un ingresso delle
truppe di cavalleria indiane che operarono una specie
di aggiramento della falange, riuscendo ad arrivare al
convoglio delle salmerie, e degli ostaggi per riuscire
a liberare i familiari di Dario. Si narra che la
regina madre Sisigambi quando stava per essere
liberata, si sia rifiutata orgogliosamente di tornare
in questo modo da Dario.
L’inaspettato successo indiano sconvolse in realtà i piani:
la doppia linea falangita aveva ceduto e la carica
indiana oltre a riuscire nel suo intento di liberare i
prigionieri rischiava di massacrare l’intera falange
se prontamente il piano predisposto dal Generale
macedone non avesse funzionato a perfezione: le linee
di chiusura a quadrato completarono perfettamente il
loro compito, i responsabili delle seconde linee
fecero girare i propri uomini evitando che le prime
venissero prese alle spalle.
Alessandro a questo punto lanciato nell’inseguimento si
dovette fermare perché ricevette, in un intenso
scambio di messaggi, una richiesta d’aiuto da parte di
Parmenione, che ormai era in difficoltà palese contro
Mazeo, pur riuscendo a mantenere le sue posizioni;
inoltre era stato raggiunto dalla notizia dell’attacco
alle salmerie e agli ostaggi.
Contrariato nei confronti del suo anziano subalterno, il
Giovane Re fu costretto comunque a rientrare.
L'ala sinistra era ancora irreparabilmente aggirata subendo
l'attacco sul fianco; giunse così Alessndro come una
furia sul fianco sinistro dei cavalieri parti, indiani
e persiani, che combattevano animosamente ignari della
fuga del loro sovrano.
Fu uno scontro epico tra le cavallerie detentrici realmente
di quelli che saranno in futuro i potenziali offensivi
espletati e tramandati ai cavalieri, da una parte
romani e dall’altra parti, nella storia a venire.
Una volta liberati dalla pressione nemica i cavalieri
tessali poterono ripartire alla carica mettendo in
rotta i persiani ormai stretti tra due fuochi. Ma a
differenza degli altri reparti questi catafratti, che
continueranno a portare in alto il valore del loro
nome almeno per altri nove secoli, si batterono allo
strenuo uccidendo 60 Compagni riuscendo a ferire
Parmenione, Ceno, Perdicca, Menda ed Efestione,
colpito al braccio da una lancia.
Anche se può sembrare una cifra irrisoria dobbiamo
considerare che la morte di 60 Etairoi è
elevatissima se si considera che nei precedenti
scontri i caduti erano meno di 1/6 del totale di
Gaugamela.
A questo punto l’ala destra persiana era in balia della
cavalleria tessala, a cui veniva lasciato il compito
di spazzar via, insieme alle tàxeis, i resti
dell’esercito persiano che si frapponeva all'avanzata.
Intanto, pigliosamente, il Giovane Condottiero operava una
nuova conversione e non desistette dal l'inseguimento
di Dario e dei fuggitivi in direzione del fiume Lieo
(Grande Zab) e ivi giunto, a 30 km dal teatro
di battaglia, lo attraversò agevolmente poiché Dario
aveva lasciato intatti i ponti per permettere al
proprio esercito di salvarsi. I fuggiaschi si
accalcavano sugli stessi, cosa che fece infuriare il
Macedone che non era interessato a loro e li spingeva
a togliersi di mezzo. Per questo molti morirono
inghiottiti dai gorghi del fiume.
Dopo esser giunto al campo persiano e essersi riposato il
minimo necessario a notte fonda proseguì
l'inseguimento, giungendo la mattina seguente ad
Arbela. Qui non trovò il Persiano ma, come a Isso,
rinvenne il tesoro, il bagaglio, il carro, lo scudo e
le frecce del sovrano.
Il rientro al proprio campo rappresentò per Alessandro il
momento di maggior pericolo durante quei due giorni di
combattimenti. La sua scorta era euforica per la
vittoria e distratta dalla convinzione che tutti i
nemici fossero ormai morti, prigionieri o fuggiti:
procedeva perciò in ordine sparso e senza prestare
troppa attenzione al Re, quando comparve un drappello
di cavalieri orientali sbandati dell'ala sinistra
nemica che lo caricò. Se la cavò trafiggendo con la
propria lancia più di un assalitore, prima di venire
raggiunto e coadiuvato dagli altri, per poi tornare al
campo incolume.
Nonostante il quasi avvenuto cedimento, la figura di
Parmenione ne usciva virtualmente vincitrice poiché
aveva dovuto sostenete un impatto notevolissimo e
ciononostante era rimasta salda sulle sue posizioni.
Sotto un profilo evidentemente numerico possiamo
attestare che le perdite elleniche dovettero assommare
ad 1 o 2 migliaia, nonostante le fonti parlino di
poche centinaia (Diodoro addirittura 500); i persiani,
nonostante vogliamo credere ad un rigonfiamento delle
cifre (tra le 300 e le 90 mila unità), viziate dalla
propaganda, dovettero aggirarsi sulla metà del
contingente orientale.
Dario non riorganizzò le sue forze sparse. A marce forzate
si diresse ad Arbela e da lì, senza fermarsi, deviò
verso est entrando in Media, attraversando i monti
Zagros per il passo Spilik e la moderna città di
Ruwandiz. Con lui c'erano un nucleo della guardia
reale e i resti dell'esercito mercenario. Fu anche
raggiunto da Besso e dalla sua cavalleria, che era
scampata alla battaglia più o meno intatta. Il resto
dei sopravvissuti persiani si disperse, il gruppo più
grande si unì a Mazeo, che compì una lunga deviazione
alle spalle dell'esercito macedone, attraversò il
Tigri e si rifugiò a Babilonia.
Alessandro si proclamava il vero e unico Gran Re d'Asia,
promettendo la ricostruzione di Platea e spedendo una
parte delle spoglie alla lontana Crotone in onore dei
servigi resi da Faillo nel 480 a.C.
Un greco si autoproclamava successore di Serse e
contemporaneamente vendicatore stesso del sacrilegio
di Atene, campione della libertà e dell'autonomia
degli Elleni.
Gaugamela è considerata una battaglia epocale perché
da ora in poi ad Alessandro si apriranno le porte
d’Oriente dopo aver dato prova inappellabile del suo
valore e della sua superiorità, riuscendo in ciò in
cui nessun occidentale sarebbe mai più riuscito a
fare. |