N. 6 - Novembre 2005
ALAN
TURING
Intelligenza artificiale
di
Gilberto Trombetta
Deep the apple in the brew
Let the Sleeping Death sep trough*.
Tutto iniziò così, con
una filastrocca, in un giorno lontano del 1931. Era il
primo anno di Alan Turing a Cambridge. Quelli erano
gli anni più felici, delle scoperte scientifiche e
della scoperta del teatro. Quelli che seguirono,
furono gli anni dell’affermazione scientifica e della
solitudine umana. Quelli erano gli anni in cui nacque
l’Intelligenza Artificiale.
Accolta da alcuni come
l’alba di una nuova era, osteggiata da altri come
fosse una bottega di ciarlatani, una pseudoscienza
avida di soldi e avara di risultati. Una disciplina
senza padre né madre, ma con tante madrine:
psicologia, filosofia, biologia, fisica, matematica,
ingegneria. Una scienza bambina, presuntuosa ed
impavida, creativa e spudorata, allevata nel calore
delle passioni diversissime di ricercatori eclettici,
vissuta tra agi e stenti alterni, adulata e
disprezzata, coccolata e abbandonata.
Una scienza ibrida,
figlia del secolo ventesimo, proiettata nel
ventunesimo, ma con radici antiche nel mito ebraico
del Golem e nella filosofia leibniziana. L’IA è
un’avventura che sa insieme di scienza e di mito, di
sfida e di mistero, che vive nel silicio e nelle
astrazioni della logica formale, ma che mira anche al
segreto delle emozioni, delle passioni e degli istinti
dei viventi.
Nel 1950, dopo una vita
di successi scientifici e di fallimenti umani, dopo
essere stato uno degli eroi più sconosciuti della
seconda guerra mondiale, dopo aver inventato la
‘macchina universale’ (prototipo del moderno
computer), Turing scrisse quello che ancora oggi resta
uno dei testi fondamentali dell’IA: Computing
Machinery and Intelligence.
L’articolo cominciava
alla maniera informale, chiarissima e provocatoria
tipica di Turing. “Propongo di considerare la domanda,
«Possono le macchine pensare?». Bisognerebbe
cominciare con le definizioni di cosa significhino
‘macchina’ e ‘pensare’, ma invece di tentare tale
definizione, sostituirò la domanda con un’altra, che è
strettamente connessa e si può esprimere con parole
relativamente non ambigue. La nuova forma del problema
si può esprimere nei termini di un gioco. Lo
chiameremo gioco dell’imitazione”.
Tutto l’articolo è così:
limpidissimo e ironico. Venti pagine senza una
formula, senza una frase che non sia comprensibile a
un sedicenne. Venti pagine da cui traspare il genio
ribelle di Alan Turing. Venti pagine in cui Turing
sembra aver immaginato molti sviluppi dell’IA e
previsto tutte le critiche da lì a quarantanni. Venti
pagine in cui inventò il ‘test’ che diventerà uno dei
punti più dibattuti della disciplina.
Turing prese le mosse da
un gioco che chiamò gioco dell’imitazione. Un
ricercatore è chiuso in una stanza e può comunicare
col mondo esterno solo tramite una tastiera con la
quale invia messaggi e uno schermo sul quale legge le
risposte. In altre due stanze, anch’essi isolati, ci
sono un uomo e una donna. Il ricercatore deve riuscire
a capire solamente dalle risposte che danno, chi dei
due sia l’uomo e chi la donna.
I due però hanno il
diritto di mentire spudoratamente: loro scopo infatti
è di non lasciar capire il proprio sesso. Cosa c’entra
l’IA? È proprio qui che entra in gioco la provocazione
lanciata da Turing. Cosa accadrebbe se lasciassimo che
una macchina giochi al posto di uno dei due? Il
ricercatore sbaglierebbe l’identificazione lo stesso
numero di volte? E sarebbe capace di riconoscere,
anziché il sesso dei due giocatori, quale dei due sia
la macchina? Se si avesse una macchina tanto
sofisticata – sostenne Turing - da reagire in tutto e
per tutto come un essere umano, non si sarebbe
costretti a concludere che essa pensi?
Otto anni prima dello
sconvolgente articolo di Turing, un giovane
ventiduenne, molto prima che vedessero realmente al
luce, iniziava a pensare in maniera scientifica ai
Robot. Nel 1942 immaginava che i robot del futuro
sarebbero stati costruiti per essere in tutto e per
tutto i migliori amici dell’uomo. Immaginava che, al
momento della costruzione, ad ogni robot venissero
impresse in modo indelebile nel cervello delle leggi a
tutela dell’uomo. Immaginò, anzi inventò, le tre leggi
della robotica. Quel ragazzo si chiamava Isaac Asimov.
Fino ai primi decenni
del ventesimo secolo gli esseri meccanici erano
chiamati automi, dal greco autòmaton, ciò che
si muove da sé. Nel 1921 lo scrittore ceco Karel Capek
scrisse il dramma teatrale R.U.R.: Rossum’s
Universal Robots (I Robot universali di Rossum).
La parola robot deriva dallo slavo robota e
vuol dire lavoro forzato, schiavitù (la radice è la
stessa per le parole che denotano il lavoro in russo e
in tedesco: robota e arbeit). Capek fu
candidato al nobel, ma non lo vinse. Morì nel 1938
mentre era ricercato dalla Gestapo per le sue
posizioni antinaziste. Il suo R.U.R. sarebbe
passato alla storia.
IA forte e IA debole,
cibernetica, robotica, artificial life, rete neurali,
sistemi esperti. Sono tutte scienze figlie più o meno
legittime delle idee di Alan Turing. Oggi i campi di
ricerca si muovono in nuove direzioni rispetto
all’inizio. La stessa IA, oltre che essere stata
scorporata in più discipline, vive un forte scisma al
suo interno, nato da un approccio diametralmente
opposto alla materia. La cosiddetta corrente forte
dell’IA predica la possibilità di creare macchine
pensanti a partire dalla creazione di un determinato
algoritmo, un programma. Sostiene cioè che
l’intelligenza possa nascere dalla creazione di un
particolare sistema formale che manipoli simboli.
La corrente debole
dell’IA, anche chiamata approccio bottom-up, sostiene
invece che il solo modo per arrivare ad
un’intelligenza artificiale sia quello di costruire
una serie di reti neurali così potenti che permettano
l’emersione di un apparato intelligente autonomamente,
senza bisogno di una programmazione umana che la
guidi. Una rete neurale è un sistema nel quale
inseriamo una serie di numeri o di segnali elettrici
che possono rappresentare, per esempio, un’immagine o
un suono, e che risponde fornendo altri numeri o
segnali elettrici.
Ciò che il programmatore
decide della rete è il numero di neuroni, la maniera
in cui sono collegati tra loro e il ‘peso’ delle loro
connessioni, ovvero quanto valgono i numeri che un
neurone riceve dai propri vicini (cioè, nell’analogia
col cervello, se le sinapsi sono inibitorie o
eccitatorie). Poi la rete impara il resto da sé. C’è
anche chi negli ultimi anni ha provato a coniugare le
due correnti, convinto che la soluzione sia nel mezzo.
Insomma a più di 50 anni
dalla sfida lanciata da Turing - può una macchina
pensare? – la querelle è tutto tranne che superata.
Anzi, se si pensa che nel febbraio scorso, a Fukuoka,
è stata annunciata la “Fukuoka World Robot Declaration”,
documento sugli intenti benefici dei robot prodotti
dall’industria giapponese, si può tranquillamente
pensare che una risposta a quella domanda sia
finalmente vicina.
Ma per Turing tutto finì
com’era iniziato. Il 7 giugno 1954 Alan Turing immerse
una mela nel cianuro e la morse. Il genio che lanciò
al mondo il pomo della discordia (Può una macchina
pensare?), moriva per una mela avvelenata. L’uomo che
per anni fu leader di uno dei progetti più segreti del
pianeta, l’eroe in incognito, che fu prima corteggiato
dai militari e poi trattato alla stregua di un
criminale, costretto per un anno a causa della sua
omosessualità a una tortura chimica, si spengeva in
silenzio. Personaggio dai cento misteri, Alan Turing
moriva nell’atmosfera da favola di una mela
avvelenata.
Uno stupido incidente, a
detta della madre. Suicidio, secondo il medico legale.
Forse Turing ha scelto un suicidio dubbio per non
creare altri scandali in famiglia. E forse, con
l’ironia e il gusto del teatro che gli erano propri,
ebbe la forza di canticchiare in quegli ultimi momenti
la canzone che amava ai tempi di Cambridge, quella
della strega di Biancaneve:
Deep the apple in the brew
Let the Sleeping Death sep trough*
*
Immergi la mela nell’infuso
Lascia che vi si
insinui il sonno di morte |