N. 7 - Dicembre 2005
DIECI
ANNI DAGLI ACCORDI DI DAYTON
Il
dopoguerra nelle repubbliche della ex Jugoslavia
di Leila
Tavi
Il
21.11.1995 venne firmato a Dayton (Ohio), nella
base
militare di Paterson, l’accordo che mise fine alla
guerra del 1992-1995 in Bosnia Erzegovina, una guerra
senza vinti, né vincitori. A dieci anni da Dayton la
Facoltà di Scienze politiche dell’Università Roma Tre
ha voluto ricordare con un convegno intitolato “Dayton,
dieci anni dopo. Guerra e pace nella ex Jugoslavia”
gli eventi che durante gli ultimi dieci anni del XX
secolo hanno sconvolto i Balcani. Negli stessi giorni
a Washington ha avuto luogo una conferenza
internazionale, a cui hanno partecipato esponenti
politici delle repubbliche della ex Jugoslavia e
dell’Europa occidentale, il cui intento è stato quello
di ridefinire gli assetti politici dei Balcani, in
particolar modo riguardo alla situazione del Kosovo.
Al
convegno, organizzato dalla Cattedra di Storia
dell’Europa orientale, sono intervenuti studiosi e
rappresentanti di istituzioni come Pier Virgilio
Dastoli, Direttore della Rappresentanza in Italia
della Commissione europea; Fabrizio Barbaso, Direttore
generale all’Allargamento della Commissione europea;
il Consigliere De Cardona del Ministero Affari Esteri
e l’ex Presidente del Consiglio Giuliano Amato, in
carica quando vennero firmati gli accordi e
attualmente Direttore della Commissione internazionale
sui Balcani, che il 9 novembre scorso ha presentato un
rapporto sullo stato delle riforme in atto nelle
repubbliche balcaniche. Sono intervenuti inoltre
Midhat Haračić, Ambasciatore di Bosnia Erzegovina;
Andrei Capudar, Ambasciatore in nomina per la
Slovenia; Vesna Terzić, Incaricato d’affari di
Croazia; Milisav Savić, Consigliere d’Ambasciata di
Serbia e Montenegro; nonché i giornalisti Franco Di
Mare, inviato della RAI; Gigi Riva, inviato
dell’Espresso; Mehmed Halilović, Direttore del
giornale Oslobodjenje; il giornalista inglese
Chris Stephen, inviato dell’Irish Times e
autore del libro Judgment day.
The trial of Slobodan Milošević.
Nei tre giorni di convegno sono stati trattati gli
aspetti storici, economici e giuridici del conflitto
del 1992-1995, così come la crisi del Kosovo del 1999
con le sue conseguenze a livello regionale e
internazionale.
Con la morte nel 1980 di Josip Broz, meglio conosciuto
come Tito, l’uomo che era riuscito a tenere unite fin
dalla sua elezione e presidente nel 1946 le diverse
etnie dell’eterogenea Jugoslavia durante il suo lungo
mandato, il timore maggiore fu inizialmente di una
minaccia russa. Ma l’Unione Sovietica dei primi anni
Ottanta si dovette scontrare già sotto la guida di Jurij Vladimirovic Andropov con l’irreversibile crisi
economica scaturita dall’inefficienza e la corruzione
del sistema sovietico e quindi, fu troppo presa dagli
affari interni per aspirare a mire egemoniche nei
confronti di uno stato sul quale l’Unione Sovietica
aveva perso da subito la sua influenza.
Con gli anni di Michail Gorbacëv e la fine del
bipolarismo la crisi jugoslava ha rappresentato una
delle conseguenze della destabilizzazione e
dell’incertezza del nuovo assetto internazionale e,
come ha spiegato nel primo giorno del convegno Lucio
Caracciolo, si è trattato di una crisi che era stata
prevista, ma che non si è voluto fermare perché
fermarla non era nell’interesse delle grandi potenze,
soprattutto degli Stati Uniti. Nella mattanza di una
guerra fratricida, nell’orrore dei massacri,
concordiamo con la tesi di Jože Pirjevec per cui: “L’ex
Jugoslavia divenne pertanto per Washington uno spazio
in cui sperimentare la nuova dottrina politica dell’unilateralismo
che l’amministrazione Clinton stava scoprendo per
affermare il proprio status in un mondo non più diviso
fra i due blocchi contrapposti”.
La
crisi jugoslava è senza dubbio una conseguenza della dissoluzione dell’impero
sovietico e ha segnato un nuovo corso
per la NATO nelle aree di crisi che, da Dayton in poi, si presenta come alleanza difensiva.
La NATO si dichiara non soltanto in grado di mantenere la pace a livello
internazionale, ma di “imporla”, come è avvenuto con
l’intervento in Bosnia Erzegovina. Dopo il massacro di Srebrenica del luglio 1995 sono emerse le carenti
strutture operative delle Nazioni Unite, le lungaggini
procedurali e la burocrazia, il mandato poco chiaro.
La
NATO ha sfruttato questa occasione per creare un
precedente che ha aperto la strada a una prassi che
ormai possiamo considerare consolidata: usare la forza
a scopo detentivo e coercitivo, in una nuova veste
rispetto ai canoni del peacekeeping tradizionale. Come
ha ricordato Anastasia Gruša della Facoltà di
Giornalismo dell’Università “Lomonossov” di Mosca si è
trattato di un accordo basato “sul diritto della
forza e non sulla forza del diritto”.
Con gli accordi di Dayton del 21.11.1995 e con quelli
di Parigi del 14.12.1995 la Bosnia Erzegovina è stata
riconosciuta come stato indipendente a livello
internazionale, con capitale Sarajevo e composta dalla
Repubblica Serpska e la Federazione mussulmano-croata.
Nel quadro degli interventi internazionali per il
superamento della crisi quello militare si è rivelato
senza dubbio più proficuo di quello civile (OSCE,
Croce Rossa, ICTY), privo di coordinamento. Forte del
precedente in Bosnia Erzegovina la NATO nel successivo
intervento nella guerra del Kosovo ha agito senza il
mandato ONU, in quella che è stato soprannominata
dietro la copertura delle strutture CIMIC (programma
di cooperazione tra militari e civili) la “guerra
umanitaria”.
Per Tomislav Išek dell’Università di Sarajevo: “gli
accordi di Dayton/Parigi sono una medaglia con due
facce. Una è chiara – quella che ha concluso la guerra
è ha portato la pace ai popoli della Bosnia-Erzegovina.
L’altra rappresenta una camicia di forza, uno stato
“mostro” con due entità e vari assolutamente
inefficaci livelli di potere, i quali “mangiano” più
del 60% dei finanziamenti, ed hanno divorato, insieme
ai rappresentanti della comunità internazionale, ben 7
miliardi e 200 milioni di dollari entrati in Bosnia
Erzegovina negli ultimi dieci anni”.
Una pace che è stata il risultato della gratitudine
dell’Occidente a Milošević per aver barattato con le
grandi potenze mettendo sul tavolo delle trattative il
nazionalismo serbo. Un patriottismo che vorrebbe i
Serbi garanti e difensori dei valori occidentali in
contrapposizione a quelli dell’Islam. Sottile l’ironia
nelle parole di Roberto Valle: “Dopo l’11 settembre
gli Stati Uniti dovrebbero ammettere che in Bosnia
hanno scelto la parte sbagliata”.
Lo
storico, riprendendo una tesi di Ekmečić, analizza
l’influenza del Vaticano tra il XIX e il XX secolo nei
Balcani, che attraverso la neutralità dei cattolici ha
permesso nel 1878 l’occupazione austro-ungarica e che,
nella storia più recente, vede il pontificato di
Giovanni Paolo II come determinante non solo per la
dissoluzione dell’Unione Sovietica, ma anche per la
formazione dei nuovi stati in Europa centrale e
orientale. Roberto Valle paragona il ruolo degli Stati
Uniti durante i conflitti in Bosnia Erzegovina e in
Kosovo a quello dell’impero austro-ungarico nel XIX
secolo: il garante e, secondo Ekmečić, lo strumento
che ha permesso all’ideologia conservatrice della
Chiesa cattolica di estendersi ad Est. Valle individua
come due delle cause dei conflitti la solidarietà
della Chiesa di Roma al secessionismo cattolico
contrapposta all’espansione demografica dei musulmani
in Bosnia Erzegovina e in Kosovo.
L’ipotesi ottimistica pronunciata durante il convegno
da Giuliano Amato che, se la 1. guerra mondiale è
iniziata nel 1914 a Sarajevo con l’assassinio
dell’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo per mano
dello studente nazionalista serbo Gavrilo Princip,
possiamo indicare come possibile data per la
risoluzione definitiva dei conflitti nei Balcani il
2014 ci lascia perplessi, soprattutto alla luce delle
considerazioni fatte dagli storici intervenuti al
convegno. I diplomatici intervenuti hanno espresso il
vivo desiderio di poter nel più breve tempo possibile
vedere i rispettivi paesi integrati nell’Unione
europea; auspicano che nella cosiddetta fase di
“Bruxelles” i processi di democratizzazione vengano
affiancati da un’efficace strategia economica che
permetta un mercato libero e aperto ai capitali
stranieri.
Luigi Moccia, Preside della Facoltà di Scienze
politiche e titolare della Cattedra di Diritto
dell’Unione europea si è mostrato, a nostro avviso a
ragione, scettico riguardo a un’integrazione in
un’Europa, indebolita da evidenti problemi interni,
vista come la panacea dei conflitti palesi o latenti
nei Balcani.
Se
osserviamo la vita politica delle singole repubbliche
balcaniche in tempi recenti ci accorgeremo che alle
politiche del 2004 in Slovenia l’affluenza alle urne è
stata solo del 30%, risultato di una generale sfiducia
dell’elettorato riguardo alle tematiche europee
portate avanti dal Partito liberaldemocratico della
coalizione al governo; sfiducia abilmente sfruttata
dal partito di opposizione SDS di Janez Jansa, attorno
a cui si sono riunite le forze di ispirazione
cattolica e che, con il nuovo esecutivo, ha operato un
riallineamento della politica estera slovena sulle
posizioni statunitensi, dopo l’ostilità dimostrata dal
precedente governo di centro-sinistra di Rop. La
recente istituzione della zona di pesca in Adriatico
potrebbe far di nuovo peggiorare i rapporti bilaterali
tra Lubiana e Zagabria ormai avviati verso la
normalizzazione. Nonostante l’euroscetticismo
dell’opinione pubblica nazionale la Slovenia sarà il
primo paese tra quelli dell’allargamento del maggio
2004 ad assumere la presidenza dell’UE nel 2007.
La
Croazia, dopo i successi ottenuti in politica estera
nel 2004, ha ottenuto lo status di paese candidato
all’adesione all’UE, come Vesna Terzić ha tenuto a
sottolineare nel suo intervento. Una serie di misure
impopolari del governo (rivelatesi sorprendentemente
efficaci) hanno convinto l’establishment di Bruxelles
dell’affidabilità della Croazia come futuro paese
membro; l’Unione democratica croata (HDZ) del premier
Sanader ne ha subito però le conseguenze in casa con
la pesante sconfitta alle elezioni anticipate ai
consigli comunali di Pozega e Metkovic e alle
presidenziali, che hanno visto riconfermato Mesic del
Partito popolare HNS. Le contraddizioni interne all'HDZ
e la debolezza dell’esecutivo vengono fuori,
nonostante la politica conciliante nei confronti delle
minoranze etniche e il rientro dei profughi serbi,
proprio in quella ambigua collaborazione con il
Tribubale dell’Aja (v. il caso del generale Gotovina).
Anche l’opinione pubblica croata esprime un forte
scetticismo nei confronti dell’adesione all’UE.
Per quanto riguarda la repubblica di Serbia e
Montenegro nel 2004 l’esecutivo di minoranza del
premier Kustunica serbo ha perso terreno nei confronti
dei partiti di opposizione, da un lato il Partito
democratico DS di Boris Tadić e dall’altro il Partito
radicale del nazionalista Tomislav Nikolic; mentre in
Montenegro l’ostruzionismo in Parlamento dei partiti
d’opposizione ha de facto lasciato ampio
margine all’esecutivo di Djukanovic.
A
luglio dello scorso anno Tadić ha vinto le
presidenziali, un outsider che raccoglie i consensi
dell’elettorato moderato e che è servito come freno
alle spinte nazionalistiche dell’estrema destra dei
radicali di Nikolic. A luglio di questo anno Tadić si
è recato a Potocari per la commemorazione delle
vittime del massacro di Srebrenica e per portare le
sue scuse da parte del popolo serbo (in realtà durante
la stessa commemorazione in Serbia si è osservato un
minuto di silenzio per tutte le vittime della guerra
del 1992-1995 e non per le vittime di Srebrenica, v.
art. del numero di settembre di Instoria). Nel 2004 i
rapporti diplomatici tra Mosca e Belgrado sono stati
intensi; a settembre di questo anno il Ministro degli
esteri russo Sergej Lavrov durante un incontro con il
suo collega serbo Vuk Drašković ha dichiarato per la
prima volta che il Cremlino non vede un’alternativa
all’entrata nell’UE delle repubbliche balcaniche.
Ma
15 novembre scorso Vladimir Putin ha dichiarato
durante un incontro con Tadić di essere contrario alla
disintegrazione dei Balcani, a conferma del fatto che
la Russia teme che, una volta avviata a livello
internazionale la politica dello scorporo appoggiata
dagli Stati Uniti, dopo i Balcani la prima a farne le
spese sarà proprio la Russia. Il Cremlino, che non è
disposto a cedere trofei di guerra come Kaliningrad o
le isole Curili, potrebbe correre il rischio di subire
passivamente la politica dello scorporo nel Caucaso
settentrionale.
In
Serbia e Montenegro vige ancora la costituzione detta
“di Milošević”, “the main bulwark of the ancient
regime”, come l’ha definita Stevan Lilić
dell’Università di Belgrado, costruita su misura per
Milošević, adottata da un Parlamento allora formato da
un solo partito e con un grave deficit di legittimità
e legalità. La possibilità di referendum per
l’indipendenza del Montenegro, ripresentata in
occasione della scadenza della prima legislatura del
parlamento e con le nuove elezioni dei primi mesi del
2005, viene preclusa dalla vecchia costituzione, che
stabilisce una moratoria triennale sugli atti
unilaterali modificativi dello status delle due
repubbliche.
All’inizio del 2005 i governi serbo e montenegrino
sono addivenuti ad un accordo su ciò che concerne il
sistema di elezione diretta che, se non si verificano
crisi politiche con conseguenti elezioni anticipate,
coinciderebbe con le elezioni politiche nel 2006 per
il Montenegro e nel 2007 per la Serbia. Una possibile
integrazione di Serbia e Montenegro all’UE sembra
essere ancora lontana a causa delle tensioni politiche
all’interno dell’Unione serbo-montenegrina e del grave
ritardo delle riforme costituzionali. Un altro tema
scottante che pregiudica l’eventuale negoziato per
l’adesione all’UE è naturalmente la questione del
Kosovo, che tratteremo ampiamente nel prossimo numero.
Per concludere vorremmo soffermarci sulla recente
situazione politica in Bosnia Erzegovina, dove per
tutto il 2004 la coalizione al governo dei tre partiti
nazionalisti (Partito democratico serbo SDS, Partito
d’azione democratica SDA e Unione democratica croata
di Bosnia e Erzegovina HDZ BiH), perennemente in
conflitto, è stata incapace di mettere in atto le
riforme di cui il paese avrebbe avuto bisogno dalla
fine della guerra. Il dibattito politico è stato
focalizzato per lungo tempo sull’opportunità o meno di
introdurre un’aliquota unica del 17% sui beni.
Un
altro punto a sfavore dell’Unione è la collaborazione
con il Tribunale dell’Aja; a detta di Lord Ashdown
criminali di guerra serbi ricevono ancora copertura e
finanziamenti all’interno dell’Unione, soprattutto
nella Republika Srpska. Ciò ha comportato per
la Bosnia Erzegovina il secondo rifiuto al programma
Partnership della NATO; gli Stati Uniti hanno
negato il visto d’ingresso ai dirigenti dell’SDS,
congelandone anche il denaro depositato nelle banche
americane, e del Partito serbo del Progresso
democratico PDP. La reazione da parte del premier
della Republika Srpska , il moderato Dragan
Milerević PDP, e del Ministro degli Esteri del governo
collegiale nazionale Mladen Ivanić PDP non ha tardato:
si sono immediatamente dimessi, seguiti a ruota da
altri esponenti politici serbi e dal rappresentante
serbo della presidenza tripartitica Dragan Paravac.
Dal 10 gennaio di quest’anno il governo è guidato da
una minoranza nazionalista dell’SDS con a capo Pero
Bukejlovic; gli osservatori internazionali, in primis
l’UE, oltre ad essere perplessi per le responsabilità
di Bukejlovic durante il conflitto del 1992-1995
(connivenza tra milizie paramilitari e criminalità
organizzata), temono che una leadership di stampo
nazionalistico potrebbe inficiare il buon esito del
programma di riforme intrapreso, che ad oggi ha però
messo in atto solamente la riforma della polizia. A
fine marzo 2005 Paddy Ashdown ha rimosso dall’incarico
Dragan Covic dell’HDZ BiH, presidente tripartito,
rinviato a giudizio l’11 marzo. Naturalmente le
recenti vicende che vedono implicati i vertici di
partito non giovano all’immagine della Bosnia
Erzegovina a livello internazionale. I rapporti
diplomatici con l’UE e con gli Stati Uniti sono freddi
e, nonostante l’approvazione dello studio di
fattibilità per l’apertura dei negoziati da parte di
Bruxelles il 18 dicembre 2003, sembra improbabile allo
stato dei fatti che i negoziati verranno
effettivamente avviati nei prossimi mesi.
Per concludere vorremmo citare un contributo che il
giornalista Veran Matić della Radio B92 ha inviato in
occasione del convegno:
“After the Dayton Peace Accords, however, for the
first time we could freely go to Sarajevo and see our
friends there. Our first visit to Sarajevo, at the
Radio Zid (Wall), where we were hosted by Zdravko
Grebo, was permeated with strong emotions and… beer.
Everything was so unusually reminiscent of the
adventurous visit to West Berlin in the time of the
cold war at its peak. Our clandestine transfer to
Sarajevo cars in the Serb part of the city looked like
some epic adventures of young Yugoslav Communists in
World War 2. On the other hand, every visit to
Sarajevo after Dayton, for the people from Serbia, was
so poignant and moving that it meant more to us than
any books or reports on the sufferings of the Sarajevo
citizens during the many years of the Bosnian Serb
siege of the city. The image of the city completely
surrounded by trenches and artillery pieces, which is
within the range of all sorts of weapons, was so
striking that we could come back home, after visiting
Sarajevo, feeling nauseated and shaken to the core.
Riferimenti bibliografici:
Anastasia Gruša, Il conflitto del Kosovo
nell’ottica russa, relazione per il convegno “Dayton
dieci anni dopo”
Benoît Hamende, Bosnia Erzegovina, in
“Est-Ovest”, 2005, n. 1, p. 55-59
Tomislav Išek, La guerra in Bosnia Erzegovina,
relazione per il convegno “Dayton dieci anni dopo”
Stevan Lilić, Serbia under Milošević, relazione
per il convegno “Dayton dieci anni dopo”
Veran Matić, Dayton, contributo in occasione
del convegno “Dayton dieci anni dopo”
Paolo Panjek, Croazia, in “Est-Ovest”, 2005, n.
1, p. 39-44
Paolo Panjek, Serbia e Montenegro, in
“Est-Ovest”, 2005, n. 1, p. 44-49
Paolo Panjek, Slovenia, in “Est-Ovest”, 2005,
n. 1, p. 17-21
Jože Pirjevec, La dissoluzione della Jugoslavia e i
conflitti successivi, relazione per il convegno “Dayton
dieci anni dopo”
Roberto Valle, Il mito della rivolta serba in
Bosnia, relazione per il convegno “Dayton dieci
anni dopo” |