N. 53 - Maggio 2012
(LXXXIV)
9 maggio 1978: non solo Moro
la verosimile cospirazione dello Stato
di Giuseppe Formisano
Il 9
maggio
sarà
il
trentaquattresimo
anniversario
della
morte
e
del
ritrovamento
del
corpo
del
Presidente
della
Democrazia
Cristiana
Aldo
Moro
e
per
ricordare
tale
avvenimento
si
terranno
varie
iniziative.
Anche
se
sono
trascorsi
più
di
trent’anni,
c’è
ancora
un
muro
di
gomma
che
impedisce
di
vedere
la
verità
sulla
vicenda
Moro.
Ancora
oggi
dominano
due
tesi
contrapposte
su
quello
che
è
diventato
un
vero
e
proprio
genere
saggistico-cinematografico:
la
prima,
sostiene
che
tutto
quello
che
si
doveva
sapere
ormai
è
noto
e
che
le
poche
zone
d’ombra,
anche
se
“illuminate”,
cambierebbero
poco
o
nulla
dal
punto
di
vista
storico
e
politico.
La
seconda,
invece,
è
quella
di
chi
crede
nel
complotto,
accusata
di
“dietrologia”,
che
Moro
sia
stato
ucciso,
o
lasciato
che
le
Br
lo
facessero,
dagli
apparati
di
sicurezza
italiani
ed
esteri.
Lo
storico
(e
qualcuno
potrebbe
storcere
il
naso)
ha
molto
in
comune
con
uno
scienziato.
Cos’è
scienza?
Ciò
che
ha
alla
base
la
matematica,
quindi
ciò
che
è
dimostrabile.
Sebbene
il
lavoro
dello
storico
non
sia
caratterizzato
da
cervellotici
calcoli,
anche
il
lavoro
di
questi
è
scientifico,
almeno
dello
storico
bravo.
Lo
studioso
del
passato
deve
poter
dimostrare
che,
per
fare
un
esempio,
la
prima
guerra
mondiale
per
l’Italia
iniziò
nel
1915.
Pur
se
chi
-
ancora
non
nato
-
vuole
conoscere
quando
per
gli
italiani
il
conflitto
ebbe
iniziò,
potrebbe
(ovviamente
oltre
alla
consultazione
di
un
libro
scolastico)
cercare
la
fonte:
la
dichiarazione
di
guerra
o un
giornale,
osservando
la
data.
Questa
sarebbe
la
“prova”
in
base
alla
quale
può
dire
con
certezza
quando
la
guerra
ebbe
inizio.
Allora,
per
una
vicenda
complessa
come
quella
di
Moro,
senza
un
documento
ufficiale,
come
possiamo
dire
se
fu
un
complotto
o
meno?
Ora
non
possiamo
sostenere
nessuna
delle
due
tesi,
proprio
perché
ancora
non
è
tutto
chiaro.
Chi
sostiene
la
seconda
tesi
non
dispone
di
un
documento,
una
fonte,
appunto
la
prova,
che
certifichi
totalmente
quanto
da
loro
creduto,
quindi
scientificamente
non
è
sostenibile.
Ma
ciò
non
significa
che
nella
diatriba
abbiano
vinto
gli
altri.
Proprio
perché
molte
cose
–
che
personalmente
ritengo
molto
importanti
–
non
sono
state
chiarite,
non
possono
difendere
a
spada
tratta
le
loro
convinzioni.
Subito
dopo
il
rapimento
furono
istituiti
tre
Comitati
con
l’incarico
di
coordinare
le
ricerche
dei
brigatisti
e
dell’ostaggio.
Solo
nel
1981,
quando
fu
scoperta
la
loggia
massonica
P2,
emerse
che
la
stragrande
maggioranza
dei
membri
di
tali
comitati
erano
iscritti
all’organizzazione
segreta
di
Licio
Gelli.
Nel
2008,
Steve
Pieczeniek,
uno
dei
membri
di
un
comitato,
psichiatra
americano
esperto
di
antiterrorismo,
inviato
in
Italia
dal
Dipartimento
di
Stato
USA
per
collaborare
con
il
governo
italiano,
ha
rilasciato
una
lunga
intervista
al
giornalista
francese
Emmanuel
Amara
da
cui
è
nato
un
libro,
pubblicato
in
quell’anno,
Abbiamo
ucciso
Aldo
Moro.
Pieczeniek,
ha
dichiarato
che
per
questioni
legate
alla
guerra
fredda,
lavorò
affinché
le
Br
non
liberassero
Moro,
altrimenti
il
paese
sarebbe
caduto
«nelle
mani
di
Berlinguer».
Nelle
prime
ore
immediatamente
successive
al
rapimento,
dunque
nel
pomeriggio
del
16
marzo
1978,
i
dirigenti
del
Partito
Socialista
Italiano
si
misero
in
contatto
con
Renzo
Rossellini,
responsabile
dell’emittente
radiofonica
Roma
Città
Futura,
una
delle
tante
radio
della
sinistra
extraparlamentare
dell’epoca.
Al
centro
del
colloquio
una
trasmissione
andata
in
onda
qualche
minuto
prima
del
rapimento
nella
quale
Rossellini
avrebbe
parlato
della
possibilità,
ventilata
nell’ambiente
romano
dell’autonomia,
di
una
imminente
azione
delle
Br.
Era
una
semplice
deduzione
ricavata
da
un’attenta
analisi
politica,
o
una
clamorosa
anticipazione?
Nacque
un’inchiesta
sulla
trasmissione
della
radio.
Dal
processo
Moro
emerse
che
Roma
Città
Futura,
come
tantissime
altre
radio
di
sinistra,
era
sottoposta
a
registrazione
ventiquattrore
al
giorno
da
parte
delle
forze
dell’ordine,
e
che
proprio
dieci
minuti
prima
dell’agguato
in
via
Fani,
ci
fu
un
blak-out,
un
vuoto
nella
registrazione.
Ci
sono
ancora
tantissime
domande
sulla
vicenda:
perché
Mario
Moretti,
capo
delle
Br,
allestì
un
covo
a
via
Gradoli,
(a
pochi
chilometri
da
via
Montalcini,
l’altro
covo
romano
dov’era
tenuto
nascosto
Moro)
proprio
nella
palazzina
numero
96,
composta
complessivamente
da
sessantasei
appartamenti,
di
cui
ben
ventiquattro
erano
sotto
il
controllo
dei
servizi
segreti?
Perché
allestire
un
covo
nella
tana
del
lupo?
Forse
i
Servizi
Segreti
erano
a
conoscenza
di
tutto
o
Moretti
era
semplicemente
poco
prudente,
uno
sprovveduto?
Quello
stesso
appartamento,
già
due
giorni
dopo
il
rapimento
poteva
essere
scoperto:
la
polizia
andò
a
bussare
tutte
le
porte
della
palazzina
ma
arrivati
a
quella
in
questione,
non
avendo
ricevuto
nessuna
risposta,
andò
via
tranquillamente,
come
se
non
stessero
cercando
uno
dei
massimi
esponenti
politici.
Se
qualcosa
o
qualcuno
portò
la
polizia
fin
là,
significa
che
la
segnalazione
doveva
essere
appurata
e
non
fermarsi
dinanzi
ad
una
porta
chiusa
perché
non
c’era
nessuno.
Non
può
non
destare
sospetti
le
modalità
del
ritrovamento
del
covo,
soprattutto
tenendo
presente
anche
lo
stato
dell’appartamento
come
ha
descritto
Giuseppe
Leonardi,
il
primo
vigile
del
fuoco
che
entrò
nella
casa
(interno
11,
secondo
piano,
scala
A).
Bisogna
anche
parlare
dei
presunti
legami
con
le
mafie
in
base
alle
dichiarazioni,
nell’ottobre
1993,
del
pentito
di
‘ndrangheta
Saverio
Morabito,
il
quale
disse
che
Antonio
Nirta,
anch’io
mafioso
calabrese,
sarebbe
potuto
essere
in
via
Fani
il
giorno
dell’agguato.
La
storia
della
presenza
della
‘ndrangheta
è
collegata
alle
foto
scomparse
di
Gherardo
Nuccio,
il
carrozziere
che
aveva
fatto
delle
foto
da
casa
sua
al
luogo
dell’agguato,
foto
che
ritrarrebbero
proprio
Nirta
e
che
sono
stranamente
scomparse.
Secondo
Raffaele
Cutolo,
il
capo
della
NCO,
la
nuova
camorra
organizzata,
anche
lui
avrebbe
potuto
salvare
Moro,
però
qualche
politico
di
rilievo
nazionale
gli
chiese
di
non
mobilitarsi.
E
ancora:
le
giuste
analisi
del
fratello
del
prigioniero,
Alfredo
Carlo
Moro,
magistrato,
autore
de
Storia
di
un
delitto
annunciato,
sull’improbabilità
che
via
Montalcini
sia
stato
l’unico
covo
per
quasi
due
mesi,
soprattutto
in
base
agli
esami
dell’autopsia;
la
presenza
al
momento
dell’agguato
in
via
Fani
di
Camillo
Guglielmi,
agente
SISMI;
la
rivelazione
di
Vittoria
Leone,
moglie
dell’allora
capo
dello
Stato
Giovanni
Leone.
Secondo
la
donna,
durante
la
prigionia
arrivò
al
Quirinale
una
lettera
anonima
il
cui
contenuto
indicava
che
Moro
si
trovava
in
via
Montalcini.
Il
marito
consegnò
questa
lettera
a
delle
persone
a
lui
vicine,
poi
sparì
per
sempre.
Tutte
queste
anomalie
-
con
le
domande
ancora
inevase
-
legittimano
ogni
tipo
di
sospetto.
Con
il
senno
di
poi
e
con
un’attenta
analisi
logica,
si
può
avanzare
l’ipotesi
che
né
gli
USA
né
l’URSS
volevano
che
si
realizzasse
il
disegno
di
Moro
e
Berlinguer,
il
famoso
“compromesso
storico”,
che
avrebbe
portato
il
Partito
Comunista
Italiano
alla
diretta
partecipazione
nel
governo
del
paese.
Ciò
non
doveva
assolutamente
avvenire:
gli
USA
non
potevano
permettere
che
un
forte
partito
comunista
andasse
al
governo
in
un
paese
dalle
NATO,
e
l’URSS
voleva
impedire
che
il
partito
di
Berlinguer,
l’uomo
che
auspicò
una
via
italiana
al
socialismo
diversa
da
quella
di
Mosca,
alla
luce
dei
vari
riconoscimenti
internazionali
che
il
PCI
aveva
già
avuto
(ad
esempio
l’eurocomunismo),
potesse
mettere
in
discussione
la
leadership
mondiale
del
comunismo.
E
poi
ancora:
perché
un
anno
dopo
l’omicidio
di
Moro
fu
ucciso
Mino
Pecorelli,
direttore
del
periodico
“Osservatore
Politico”
(nel
processo
di
questo
assassinio
era
imputato
anche
Giulio
Andreotti
come
mandante),
sulle
cui
pagine
aveva
promesso
delle
rivelazione
clamorose
sul
caso
Moro?
Chi
mise
a
tacere
per
sempre
chi
ha
indagato
su
questa
faccenda?
Nell’ottimo
lavoro
di
Miguel
Gotor
Il
memoriale
delle
Repubblica,
lo
straordinario
studioso
fa
notare
come
Pecorelli
e il
generale
Dalla
Chiesa
fossero
stati
dei
«lettori
precoci»
del
Memoriale,
cioè
di
come
già
conoscessero
parte
del
contenuto
prima
che
l’opinione
pubblica
potesse
venire
a
conoscenza
dell’importante
documento.
Le
Br
sono
state
gli
esecutori
dell’omicidio,
ma
anche
gli
ideatori?
Perché
avrebbero
dovuto
bloccare
il
processo
avviato
dalla
coppia
Moro-Berlinguer
che
avrebbe
potuto
portare
i
comunisti
al
governo?
Non
volevano
un
compromesso
con
la
borghesia
ma
arrivare
al
potere
con
la
lotta
armata
e la
rivolta
degli
operai,
o
come
hanno
sempre
dichiarato,
hanno
ucciso
Moro
perché
rappresentava
il
potere
opprimente
democristiano?
La
tesi
che
lo
Stato
italiano
fosse
a
favore
dell’uccisione
di
Moro,
è
sostenuta
anche
da
Massimiliano
Ciancimino,
figlio
dell’ex
sindaco
mafioso
di
Palermo
Vito
(vedi
“Il
Mattino”
del
13
febbraio
2010,
articolo
di
Filippo
D’Arpa,
pag.
16).
Se
Moro
doveva
essere
eliminato,
perché
sterminare
la
sua
scorta
e
prelevarlo
dall’auto,
portare
avanti
un
sequestro
difficile
per
cinquantacinque
giorni?
Si
voleva
estorcere
a
Moro
qualche
segreto
della
Repubblica
e
poi
trattare
per
la
sua
liberazione,
avendo
in
ostaggio
anche
la
preziosissima
documentazione
da
lui
prodotta?
Il
presente
articolo
è
stato
scritto
in
occasione
del
9
maggio,
come
già
detto,
trentaquattresimo
anniversario
della
morte,
ma
non
solo
di
Moro.
La
speranza
di
chi
scrive
è di
vedere
che
quel
giorno
sarà
ricordato,
istituzionalmente,
anche
Peppino
Impastato,
giovane
comunista
(figlio
di
mafioso)
ucciso
dalla
mafia
qualche
ora
prima
di
Moro.
Dagli
atti
processuali
emerse
che
Gaetano
Badalamenti
(Don
Tano,
come
veniva
chiamato
a
Cinisi),
capo
di
Cosa
nostra,
durante
i
cinquantacinque
giorni
di
prigionia
di
Moro,
mandò
in
missione
i
cugini
Salvo
nel
carcere
di
Cuneo
dov’era
detenuto
Tommaso
Buscetta
(il
futuro
“superpentito”)
insieme
ad
alcuni
brigatisti,
con
il
compito
di
riuscire
a
sapere,
tramite
Buscetta,
se e
quando
i
brigatisti
avrebbero
ucciso
Moro,
in
modo
da
far
coincidere
il
giorno
del
ritrovamento
dei
cadaveri.
Così
facendo,
i
mass-media
si
sarebbero
dedicati
più
al
ritrovamento
del
corpo
di
Moro
che
a
quello
di
Impastato,
eroe
scomodo
ai
loro
occhi.
Solo
il
quotidiano
“il
Manifesto”
il
giorno
successivo
aprì
con
la
notizia
in
prima
pagina
dell’uccisione
del
“compagno
Impastato”.
Non
sarà
certamente
questo
articolo
a
cambiar
qualcosa,
ma è
giusto
parlarne
fin
quando
non
emergerà
tutta
la
verità.