contemporanea
SULL'ARMISTIZIO DELL'8 SETTEMBRE 1943
UNA STORIA ITALIANA / Parte II
di Stelvio Garasi
L’Italia in guerra (1940-1943)
Nel 1940 anche l’Italia entra in guerra.
Una guerra iniziata circa un anno prima
dalla Germania nazista con l’invasione
della Polonia e che vede coinvolte le
potenze occidentali di Francia e
Inghilterra. Pur se la maggioranza degli
italiani non condivide tale avventura e
vi partecipa mal volentieri, perché la
decisione non ha un motivo né di
carattere interno o internazionale tale
da persuadere la nazione. Mussolini,
convinto che il conflitto con la Francia
e la Gran Bretagna sarà breve non
ritiene di dar troppo credito al
sentimento popolare. Il Duce però
intende dimostrare in campo
internazionale la sua rilevanza politica
nei confronti di Hitler, ricorrendo alla
guerra parallela condotta dall’Italia
autonomamente. Il Duce confida al
ministro Bottai l’intenzione di «una
guerra con obiettivi propri,
specificamente italiani estranea agli
attuali contendenti non per la Germania
né con la Germania, ma a fianco della
Germania».
La “guerra parallela” di Mussolini si
tramuta sempre più in una sconfitta
sotto l’avanzare degli Alleati; in
questo modo la libertà d’azione
propugnata dal regime nei riguardi
dell’alleato germanico tende a
ridimensionarsi sino a svanire. Le
truppe italiane in Grecia e in Africa
settentrionale, hanno bisogno
dell’appoggio delle truppe tedesche. Il
1942 è l’anno dei grandi capovolgimenti,
le forze dell’Asse raggiungono l’apice
della loro spinta espansiva. In autunno
con il rovesciamento delle sorti
dell’Africa settentrionale, le armate
italo-tedesche che si sono spinte fino a
150 km da Alessandria d’Egitto sono in
rotta dopo la battaglia di El Alamein,
svoltasi tra il 23 ottobre e il 4
novembre 1942, contro le forze
britanniche bene equipaggiate.
Nel novembre 1942, le truppe americane
sotto il comando del generale Patton
sbarcano in Marocco e Algeria, cogliendo
le alte gerarchie dell’Asse. Le armate
italo-tedesche, abbandonata la Libia, si
concentrano sulla linea la linea del
Mareth la “piccola Maginot africana”,
costruita a suo tempo dai francesi per
difendere la loro colonia da un
eventuale attacco italiano, dove ormai
combattono adottando una strategia di
difesa. Nell’estate del 1943 il paese è
costretto a confrontarsi con una
faticosa presa di coscienza per anni
ingannata dalla retorica e falsa
propaganda del regime che opprimeva la
nazione fino a trascinarlo nella
tragedia del secondo conflitto mondiale.
Il 13 maggio le residue forze del
generale Messe si arrendono in Tunisia,
il giorno prima le armate tedesche del
generale von Armin capitolano, il
controllo della regione è perduto
definitivamente. Al tracollo militare si
aggiunge la drammatica situazione del
Paese. I bombardamenti s’intensificano,
il malcontento aumenta di giorno in
giorno, a marzo il dissenso si è già
messo in mostra con manifestazioni di
piazza, scioperi nelle principali
fabbriche del Nord e i manifestanti
chiedono “pane e pace”.
Il 7 aprile s’incontrano a Klesshein,
nei pressi di Salisburgo, Hitler e
Mussolini. Un Mussolini debole e incerto
che propone a Hitler di cercare un
accordo per una pace separata con Stalin
per poter quindi concentrare ogni sforzo
sul fronte meridionale; il Führer
rigetta questa ipotesi. Le autorità
tedesche, temono il colpo di Stato in
Italia per rovesciare Mussolini e un
conseguente affrancamento dell’alleanza,
predispongono piani per l’occupazione
della penisola.
L’11 giugno gli angloamericani occupano,
il primo lembo d’Italia, l’isola di
Pantelleria il cui comando è affidato
all’ammiraglio Pavesi che si arrende
senza sparare un colpo contro le forze
di occupazione alleate, provocando l’ira
dei tedeschi impegnati nella difesa
dell’isola. Dopo anni di silenzio e di
complicità il re Vittorio Emanuele III,
il 15 maggio 1943, invia una missiva a
Mussolini in cui prospetta l’opportunità
di sganciare le sorti dell’Italia da
quelle della Germania, con una pace
separata. Il 2 giugno, al direttorio
fascista, Mussolini prospettando
l’ipotesi di un imminente sbarco alleato
in Sicilia dichiara: «Bisogna che non
appena il nemico tenterà di sbarcare sia
congelato su quella linea che i marinai
chiamano del bagnasciuga».
All’alba del 10 luglio gli
angloamericani sbarcano sulle coste
siciliane (Operazione Huschy), senza
incontrare un’adeguata resistenza da
parte delle forze italiane che le
presidiano sotto il comando del generale
Alfredo Guzzoni: le città principali
cadono immediatamente in mano alleata.
Accanita è la reazione delle nostre
truppe e di quelle tedesche nella piana
di Catania, ma alla fine sono costrette
ad arrendersi o a ripiegare verso
Milazzo e Messina.
In questo frangente le truppe tedesche
in ritirata si macchiano delle prime
stragi di civili inermi nei paesi di
Mascalucia e Castiglione. Altra pagina
oscura è scritta dall’esercito degli
Stati Uniti in località di Piano Stella,
nei pressi di Biscari, oggi Accade,
località siciliana a sud di Caltagirone
in provincia di Ragusa, dove il 14
luglio 1943, un reparto del 180 Rgt
fanteria statunitense cattura 45 soldati
italiani e 3 tedeschi, e un
sottufficiale americano riceve l’ordine
di scortarne 37 nelle retrovie per
essere interrogati, i rimanenti sono
feriti ma lungo la strada li fa disporre
lungo un fosso dove 36 vengono abbattuti
e uno fortuitamente si salva. Per questo
crimine il sergente americano viene
condannato all’ergastolo, ma non farà un
solo giorno di prigione.
Il 19 luglio 1943 a Feltre (Belluno)
nuovo incontro Hitler e Mussolini, il
quale parte da Roma accompagnato dal
generale Ambrosio C.S.M.G.
dall’ambasciatore Dino Alfieri e dal
sottosegretario agli affari esteri
Giuseppe Bastianini, e partendo per
l’incontro è animato da grandi
aspettative. I vertici militari sperano
che renda noto, a Hitler la reale
situazione dell’Italia e delle sue
effettive possibilità di proseguire la
guerra.
In una nota elaborata dal Comando
Supremo il 14 luglio 1943 priva di firma
si legge: «possiamo batterci con i
nostri mezzi ma con risultati così
scarsi, che non sarebbero neppure
sufficienti a salvare l’onore delle armi
nei confronti del mondo intero».
Mettendo così in evidenza che per l’Asse
si sono esaurite le possibilità di una
vittoria, a meno che non si riesca a
impedire l’apertura di un altro fronte
in Europa, finché permane la guerra con
la Russia. Ma Mussolini a quell’incontro
non è determinato e gioca il ruolo
dell’interlocutore paziente e
tollerante, ascoltando le chiacchiere
offensive del Führer. Alla richiesta
italiana di invio di rinforzi nella
penisola, i tedeschi oppongono un netto
rifiuto (come si vedrà in seguito, dopo
la destituzione di Mussolini la
situazione muterà radicalmente). Nello
stesso giorno dell’incontro di Feltre e
nelle stesse ore del colloquio dei due
dittatori, anche Roma è in prima linea.
Alle ore 11 del 19 luglio i romani odono
il suono sinistro delle sirene dall’arme
che ancora non ha la capacità di
terrorizzare la popolazione che continua
a girare per le strade. Quel giorno
bombe dolorose da 250 kilogrammi sono
sganciate su Roma dalle fortezze volanti
B17 americane partite dalle basi del
Nord Africa.
Gli Alleati sin dal primo giorno di
guerra avevano rispettato la Città
Eterna, mentre ora sono colpiti i
quartieri popolari di San Lorenzo,
Tiburtino e Prenestino. Migliaia di
vittime rimarranno sotto le macerie,
anche a causa della lentezza dei
soccorsi e della penuria di mezzi. I
sopravvissuti scavano con affanno
lottando contro il tempo nella speranza
di trovare qualcuno ancora in vita. Il
re verso le 15 si reca a visitare le
località colpite, ma viene fortemente
contestato ed è costretto dalla scorta a
tornare nella sua dimora, Mussolini
rientrato a Roma preferisce starne
lontano. Verso le 17 Pio XII si reca a
San Lorenzo, e la popolazione si
raccoglie intorno a lui, forse perché lo
riconosce interlocutore non
responsabile.
Il 24 luglio, non è passata nemmeno una
settimana dal terribile bombardamento e
poche settimane dallo sbarco degli
Alleati i Sicilia, è convocato il Gran
Consiglio del Fascismo sotto la spinta
delle sconfitte militari e del
malcontento dei gerarchi vicino a casa
Savoia ( tra cui quattro gerarchi
insigniti del Collare dell’Annunziata
“cugini del re”). La seduta si protrae
per tutta la notte, e dopo un dibattito
convulso Mussolini è messo in minoranza
con 19 voti a favore, 1 astenuto e 8
contrari. L’O.D.G. presentato da Dino
Grandi restituisce le prerogative
costituzionali al re.
Il giorno successivo Mussolini si reca a
Villa Savoia per riferire al re che alla
fine colloquio lo fa arrestare dai
carabinieri e viene portato via su una
autoambulanza. In realtà la monarchia,
l’esercito e la borghesia si disfano del
fascismo, sia pure a causa della collera
popolare, nella speranza però di
conservare lo stato autoritario.
Vittorio Emanuele III nomina il
Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio
nuovo capo del Governo. Le
manifestazioni di giubilo alla notizia
della caduta del regime si trasformano
in conflitti sanguinosi, contro ogni
aspettativa popolare.
Nei primi cinque giorni successivi alla
caduta di Mussolini, si contano 83 morti
308 feriti e 1500 arresti in tutta
Italia. Nel primo proclama alla Nazione
il maresciallo Badoglio annuncia
esplicitamente che «la guerra continua a
fianco dell’alleato germanico», ma nei
quarantacinque giorni del Governo non
sono neppure abolite le leggi razziali
emanate nel 1938. Gli italiani
interpretano la esautorazione del
dittatore come la fine della guerra, ma
il comune obiettivo del colpo di stato
del Gran Consiglio nonché la decisione
del re di far rassegnare le dimissioni a
Mussolini è quello di mantenere uno
stato autoritario e di far uscire
l’Italia dalla guerra. Il governo
militare guidato da Badoglio ora deve
optare fra tre soluzioni.
La prima opzione è quella di denunciare
la fine dell’alleanza con la Germania e
attuare immediatamente un capovolgimento
di fronte ponendosi a fianco degli
angloamericani: soluzione presentata da
Dino Grandi, ma scartata, non solo
perché avrebbe provocato una reazione
dei tedeschi senza l’aiuto delle forze
alleate, ma anche perché avrebbe
significato una rottura con il passato,
di cui il re Badoglio si erano resi
corresponsabili. La seconda opzione è
quella di non rompere l’alleanza con la
Germania e tentare di convincere i
tedeschi a non essere contrari a una
pace separata tra l’Italia e gli
Alleati. La terza soluzione è fingere di
continuare la guerra a fianco della
Germania e nel frattempo iniziare le
trattative con gli angloamericani.
Scartata la proposta di Grandi per
motivi già citati, non sono prese in
considerazione nemmeno le altre due
possibilità. Si decide di perseguirle
entrambi contemporaneamente. Il
tentativo di far accettare ai tedeschi
il ritiro dell’Italia dal conflitto, in
cambio della neutralità e di un graduale
passaggio alle forze del Reich del
fronte nell’area balcanica, Grecia e
isole dell’Egeo, ha un esito negativo in
quanto Hitler non aveva intenzione di
perdere l’Italia e voleva far pagare
agli italiani il prezzo del tradimento.
Questa irremovibile indisponibilità
tedesca fa decidere al nuovo governo di
prendere contatti con gli inglesi.
Nello stesso tempo si teme un colpo di
stato dei fascisti che però non si
verifica. Gli avvenimenti del 25 luglio
palesano le convinzioni di Hitler di un
imminente cedimento dell’Italia e di una
pace separata con le potenze alleate.
Già da tempo i tedeschi avevano assunto
la direzione strategica della guerra nel
Mediterraneo dando una marcata
dimostrazione di curare prevalentemente
gli interessi della Germania. Nella
primavera del ’43 Hitler aveva deciso
che, in caso di necessità, sarebbero
state le truppe tedesche a difendere le
posizioni italiane. Con la perdita della
Tunisia, l’Alto Comando tedesco inizia a
elaborare un piano di difesa dei Balcani
e dell’Italia da adottare in caso di
crollo o di un armistizio con gli
angloamericani.
Lo stato di debolezza, la demotivazione
e demoralizzazione rendevano evidente
l’incapacità di resistere a lungo. I
tedeschi non possono permettersi la
perdita dell’Italia settentrionale e
soprattutto le risorse agricole
industriali della valle del Po. Il
Führer ordina a Rommel di elaborare un
piano per l’occupazione e la difesa
dell’Italia; in caso di capitolazione il
feldmaresciallo si rende immediatamente
conto che senza l’esercito italiano non
può tenere l’intera penisola. Quindi,
modifica il piano, e ritiene più sensato
ritirare le truppe dal meridione e
approntare una difesa solo fino agli
Appennini.
Con la destituzione di Mussolini, Hitler
e i suoi gerarchi si rendono conto che è
intaccato il prestigio e l’autorevolezza
e si teme la defezione degli stati
satelliti alleati. Mentre nell’incontro
di Feltre viene negata la possibilità di
invio di truppe in Italia, alla notizia
che il dittatore italiano è stato
esautorato, le truppe tedesche iniziano
a penetrare nel territorio italiano e a
occupare le posizioni strategiche
nell’Italia settentrionale
interponendosi tra le truppe italiane.
Il 26 luglio le truppe italiane di
occupazione nei Balcani e della Grecia
passano sotto il comando tedesco che
stanzia i suoi reparti tra le truppe
italiane con l’intento di rendere
difficile lo svincolamento dal controllo
tedesco al momento della proclamazione
dell’armistizio.
I comandi germanici non perdono tempo.
Il primo agosto mettono a punto il piano
definitivo di occupazione del Paese
(nome in codice operazione (Achse),
nuova versione del piano (Alarico) essa
prevede l’occupazione del territorio
italiano e il disarmo delle sue Forze
Armate, l’altro piano è l’Operazione
Schwartz, che prevede l’intervento a
sorpresa a Roma per catturare i
governanti italiani e la cattura del re
Vittorio Emanuele III, e del maresciallo
Badoglio sostituendolo con un governo
fascista.
La tensione e la diffidenza dei tedeschi
è manifesta nei due incontri, che si
svolgono a Tarvisio il 6 agosto e a
Bologna il 15 successivo, per definire i
piani strategici in vista di una nuova
offensiva alleata. Nell’incontro di
Tarvisio il Ministro degli Esteri
Ribbentrop con fare aggressivo chiede al
suo collega italiano Guariglia se non vi
fossero state “trattative dirette con
elementi inglesi o americani”. A
quell’incontro partecipa anche il
C.S.M.G. Ambrosio che protesta per
l’afflusso di truppe tedesche nella
penisola senza consultare il Comando
supremo italiano visto che l’iniziativa
ha violato la sovranità italiana. Ma
l’alleato germanico non intende dare
spiegazioni sui movimenti di truppe e
per quanto riguarda la richiesta delle
autorità italiane di richiamare in
patria le armate dalla Francia
meridionale e di ridurre i contingenti
nei Balcani, non può essere ascoltata e
la questione deve essere sottoposta a
Hitler.
Dopo la conferenza di Tarvisio, il
generale Ambrosio non ha più dubbi e
prende la decisione di inviare il
generale Castellano suo collaboratore di
fiducia, in missione presso gli Alleati.
L’evidente ostilità dei tedeschi nel
successivo incontro di Bologna
convincono il C.S.M.E. generale Roatta
delle intenzioni offensive dei tedeschi,
prese precedentemente, alle decisioni
italiane di arrendersi. Come ha scritto
Roatta «vi fu una priorità
dell’aggressione germanica». Il re e
Badoglio non si rendono conto della
gravità della situazione in quanto sono
più preoccupati del loro destino
personale che di quelli del Paese,
mettendo in secondo piano le misure
necessarie da prendere al momento
dell’annuncio dell’armistizio per non
dare ai tedeschi il pretesto di un colpo
di stato.
Per tutto il mese di agosto, i comandi
militari, in attesa di un armistizio si
orientano a continuare la guerra a
fianco dell’alleato germanico, nel
frattempo il comando italiano mette in
atto una serie di misure per
fronteggiare una eventuale aggressione
tedesca. La prima di queste direttive è
l’ordine 111CT (contro i tedeschi)
trasmesso dallo S.M.G.E. a tutti i
comandi tra il 10 e 15 agosto. Alla fine
di agosto Ambrosio impartisce la
disposizione allo Stato Maggiore
dell’esercito di preparare la “memoria
O.P.44” che è un ampliamento del foglio
111C.T. che viene recapitata soltanto
tra il 2 e il 5 settembre ai comandi che
dipendono dallo Stato maggiore
dell’esercito, cioè alle truppe
stanziate su il territorio nazionale, ma
non a quelle dipendenti dallo Stato
Maggiore generale che comprendono il
gruppo armate est, l’undicesima armata
in Grecia e il comando forze armate
Egeo.
Viene presa la decisione di non
informarle fino all’annuncio
dell’armistizio in quanto sono a stretto
contatto con le truppe tedesche e,
legate a loro per ragioni logistiche,
difficilmente possono mantenere segrete
le disposizioni. Sono tenuti all’oscuro
anche i capi di Stato Maggiore di Marina
e Aviazione. L’ordine è segretissimo,
tanto che la sigla O.P. con cui viene
denominato, sta a significare “Ordine
Pubblico” per non generare sospetti nei
tedeschi. Il documento è redatto in sole
dodici copie per il timore che cada in
mano ai tedeschi. L’originale è firmato,
gli altri esemplari sono muniti di bollo
ufficiale e diramati ai comandanti della
difesa territoriale. I due documenti
hanno un carattere prettamente difensivo
nei confronti di una possibile
aggressione tedesca senza fare allusioni
a una prossima resa delle forze “non
nazionali o di comunisti”.
Dopo la lettura del documento l’ordine è
di distruggerlo, l’originale viene
bruciato. Tali direttive devono essere
eseguite per ordine dello Stato
Maggiore, due divisioni alpine sono
inviate in Alto Adige a protezione della
regione, il presidio di La Spezia viene
rafforzato dove si trova gran parte
della flotta italiana. Soltanto dopo il
convegno di Bologna (Casalecchio) il
Comando supremo ha l’autorizzazione di
ritirare parte delle truppe nei Balcani,
ma per le difficoltà delle
comunicazioni, il rientro in madrepatria
è appena avviato quando viene annunciato
l’armistizio. |