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N. 64 - Aprile 2013 (XCV)

8 SETTEMBRE 1943
L’INIZIO DELLA FINE

di Generoso Mele

 

La caduta di Mussolini, il 25 luglio del 1943, fu il risultato di due successive iniziative, maturate all’interno del regime: il voto di sfiducia del Gran Consiglio, il massimo organo del fascismo, e la decisione del Re Vittorio Emanuele III di chiedere le dimissioni del Duce.

 

Mussolini aveva accettato di convocare il Gran Consiglio del fascismo, che non si riuniva dal 1939, probabilmente per fare fronte agli oppositori interni e metterli in minoranza; invece dopo una rovente discussione che si prolungò per diverse ore, la mozione presentata da Grandi – in cui si chiedeva al Re di riassumere i poteri costituzionali – fu messa ai voti e fu approvata con diciannove voti contro sette. Il giorno seguente il Re deliberò non soltanto di avvicendare Mussolini con il Generale Badoglio, ma anche di farlo arrestare, cogliendo di sorpresa il Duce, convinto di poter contare sul suo sostegno.

 

In poche ore veniva posto fine in maniera indolore a un regime durato venti anni. Il 25 luglio era stato inteso quindi, dalla grandissima maggioranza dell’opinione pubblica italiana, come l’acquisizione della pregiudiziale ineludibile per porre fine all’alleanza con la Germania e per far allontanare l’Italia dalla minaccia della guerra.

 

Tali i fini ultimi della destituzione di Mussolini e dell’inizio della defascistizzazione dello Stato e fu possibile in primo luogo perché i suoi protagonisti poterono sentirsi sicuri e fiduciosi circa la tenuta e il sostegno delle Forze Armate che, infatti, furono lo strumento-chiave della manovra politica, garantendo al Re e al nuovo governo la sicurezza dell’ordine pubblico e un certo controllo della situazione militare in generale.

 

Appena insediato, Badoglio si affrettò ad annunciare in un proclama al Paese la sua decisione di continuare la guerra a fianco della Germania. La frase “la guerra continua” sembrò un espediente per prendere tempo e organizzare un armistizio con i governi angloamericani.

 

Ma Hitler e il III Reich facevano ancora più sul serio del Maresciallo Badoglio. Nella riunione dell’Alto Comando Tedesco, a Rastenburg, del 26 luglio, si dava via all’operazione “Alarich” che prevedeva: il controllo dei passi alpini per il libero transito con la Germania attraverso il Brennero e con il dispositivo militare tedesco nella Francia occupata attraverso i valichi delle Alpi Occidentali e la litoranea ligure, l’inserimento tra le unità italiane nell’Italia settentrionale e il raggruppamento di unità divisionali scelte in direzione da Nord a Sud dalle immediate vicinanze di Roma sino al litorale campano così da integrarsi con lo schieramento già in atto nel fronte Sud dalla Sicilia, non ancora occupata, alla Calabria e alle Puglie.

 

Alle prime notizie circa l’ammassamento di forze tedesche alla frontiera e il forzamento dei posti di confine in formazioni di combattimento, il Comando Supremo italiano reagì energicamente verso il Comando Supremo germanico anche se fu costretto ad accettare il fatto compiuto perché, in sostanza, il proclama di Badoglio vigeva in tutta la sua drammaticità con la nota affermazione: “la guerra continua”.

 

Lo Stato Maggiore dell’Esercito diramava subito, in data 30 luglio, disposizioni verbali che non potevano prestarsi a interpretazioni vaghe nella loro precisione: reagire e opporsi con la forza a ogni tentativo dei tedeschi di impossessarsi dei punti vitali, garantire il totale controllo di essi con forze italiane, intensificare la vigilanza degli obiettivi più importanti.

 

Ogni iniziativa del governo fu totalmente condizionata dalla paura della reazione delle forze armate tedesche. Si creò una situazione paradossale: Badoglio tardò a prendere contatto con i governi angloamericani per timore di insospettire i tedeschi, mentre i tedeschi erano convinti che le trattative per un armistizio fossero già in corso, e cercavano di trovare le prove del tradimento italiano per avere il pretesto di uscire allo scoperto.

 

Nonostante i pesanti bombardamenti angloamericani sulle città italiane e la pressione dell’opinione pubblica perché l’Italia uscisse dalla guerra, il governo Badoglio non seppe prendere una decisione. Il Re e Badoglio si dimostrarono del tutto incapaci di affrontare la situazione, trascinando l’Italia nel più grave disastro militare della sua storia. Preoccupati soltanto di mantenere il segreto per non dare ai tedeschi l’occasione di un colpo di stato non impartirono alcuna direttiva al Comando Supremo e allo Stato Maggiore dell’Esercito per orientare i vari Comandi sull’eventualità di un armistizio con gli angloamericani nel timore che i tedeschi ne potessero venire a conoscenza. Per tutta la prima metà di agosto, del resto, i comandi militari erano orientati, in attesa di un armistizio, a continuare la guerra a fianco dei tedeschi. Nello stesso tempo il comando italiano prese una serie di misure per far fronte e annullare la probabile aggressione tedesca.

 

Infatti lo Stato Maggiore dell’Esercito, che seguiva accuratamente la situazione, riscontrando nell’atteggiamento germanico una gravità sempre maggiore, diramò il 10 agosto 1943 l’Ordine 111 C.T. (Allegato “A”) confermando e ampliando nei riguardi dei comandi periferici le direttive verbali impartite il 30 luglio.

 

Verso la fine di agosto, dietro richiesta del Capo di Stato Maggiore Generale Ambrosio, lo Stato Maggiore dell’Esercito preparò la “ Memoria O.P. 44” che era un ampliamento del foglio “111 C. T.”, e che fu recapitata tra il 2 e il 5 settembre soltanto ai comandi militari dipendenti dallo Stato Maggiore dell’Esercito, cioè alle forze stanziate in Italia. Entrambi i documenti avevano carattere prettamente difensivo nei confronti di una possibile aggressione tedesca e non facevano nessuna allusione alla possibile firma di un armistizio.

 

In relazione al contenuto della Memoria O.P. 44 e alle notizie derivanti dall’avvenuta firma dell’armistizio (3 settembre) il 6 settembre il Comando Supremo emanò il “Promemoria n. 1” diretto ai Capi di S.M. delle tre Forze Armate riguardante le forze dislocate in Italia, Francia e Croazia, vero e proprio complemento della Memoria O.P. 44 e il “ Promemoria n. 2” contenenti ordini diretti ai Comandi Gruppo Armate Est (concentrare le forze e garantirsi i porti di Cattaro e Durazzo), all’Egeo e al Comando Superiore Grecia (libertà per i Comandanti di assumere l’atteggiamento più conforme alla situazione, precisando di dichiarare ai tedeschi che le truppe italiane non avrebbero preso le armi contro di loro né avrebbero fatto causa comune con i ribelli se non fossero state soggette ad atti di violenza armata).

 

L’armistizio venne annunciato per radio dal Generale Eisenhower verso le ore 18.00 dell’8 settembre. Seguì un Consiglio della Corona al Quirinale per decidere in merito all’accettazione o meno dell’armistizio e dopo varie discussioni fu decisa l’accettazione.

 

Alle ore 19.45 il Maresciallo Badoglio annunciò via radio all’Italia l’avvenuta conclusione. Il radiomessaggio fu ripetuto più volte: non fu sentita la necessità in quel momento di incitare il popolo italiano alla resistenza ai tedeschi, galvanizzando gli animi.

 

L’atteggiamento delle forze tedesche all’annuncio fu inizialmente guardingo e di attesa ma non subì tentennamenti. Poco dopo il Comando Supremo germanico diramò la parola convenzionale “Achse” e da quel momento tutti i comandanti tedeschi iniziarono l’esecuzione delle previste misure. Alle ore 00.20 del 9 settembre il Comando Supremo, con il messaggio n. 24202/O.P., confermava “che non deve però essere presa iniziativa di atti ostili contro i germanici”.

 

Memorie e promemoria rimasero di fatto, quasi per intero, lettera morta a causa sia delle contraddizioni che taluno di essi presentava nei loro contenuti sia dei ritardi con i quali giunsero – qualcuno non arrivò a destinazione – agli alti comandi periferici che comunque non fecero in tempo a travasarli ai comandi delle grandi unità dipendenti (se l’armistizio fosse stato promulgato il 12 settembre, l’esecuzione degli ordini avrebbe potuto risultare favorevolmente diversa) e altresì della scarsissima possibilità di raccogliere le forze molto frazionate in vaste aree e della impreparazione psicologica a cambiare d’improvviso la direzione del fuoco.

 

Circa tre ore dopo l’annuncio dell’armistizio il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, i Sottocapi, il Capo Reparto Operazioni e i componenti della “Sezione speciale” si trasferirono da Monterotondo a Roma, facendo ritenere che vi fosse, almeno nelle intenzioni, la decisione di condurre la resistenza con una visione unitaria.

 

Cominciarono a pervenire subito numerosissime richieste telefoniche da parte di molti comandi ed enti periferici, taluni non direttamente dipendenti dallo Stato Maggiore ma dal Comando Supremo, per ricevere ordini e precisazioni su incidenti in corso con i tedeschi: fu subito evidente la conferma che non tutti i comandi avevano ricevuto notizia degli ordini e degli orientamenti diramati in precedenza. Alle 6.39 del 9 settembre il Comando Supremo diramò ai tre Stati Maggiori il fonogramma n.16733 con il quale avvertì che il Governo e il Comando Supremo avrebbero lasciato Roma dirigendosi a Pescara, aggiungendo che i Capi di Stato Maggiori avrebbero dovuto seguire, lasciando sul posto loro rappresentanti.

 

L’11ª Armata fu l’unica grande unità italiana nei Balcani che ricevette, sia pure con un solo giorno di anticipo, la generica notizia sulla possibilità di un armistizio (Allegato “B”) tra le forze armate italiane e quelle angloamericane, anche se questo preavviso non servì a molto.

 

Si tratta del cosiddetto “Promemoria n. 2” che venne portato ad Atene dal Generale Cesare Gandini, Capo di Stato Maggiore dell’11ª Armata, che si trovava casualmente a Roma. Questi, nella notte sul 7 settembre si vide recapitare in albergo da un Ufficiale del Comando Supremo l’importante documento. Egli fece appena in tempo a prendere l’ultimo aereo militare Roma-Atene e a raggiungere in tarda serata il proprio comando. Rientrato in sede riferiva al Comandante dell’Armata, consegnandogli il “Promemoria n. 2”, che a Roma si considerava inevitabile il sacrificio dell’Armata e quindi si faceva affidamento sul suo prestigio e sulla sua abilità per evitare lo sterminio delle truppe e il loro internamento.

 

L’esame del documento indicava chiaramente di evitare lo scontro con i tedeschi, consentendo loro di subentrare pacificamente nei dispositivi di difesa; inoltre raccomandava di non fare “causa comune” non solo con i ribelli ma neppure con gli angloamericani “che eventualmente sbarcassero” e di mantenere una rigorosa neutralità in attesa di poter rientrare in patria.

 

Infatti, più avanti il Promemoria diceva: “riunire al più presto le forze, preferibilmente sulle coste in prossimità dei porti” con il sottinteso che sarebbero arrivati mezzi per il trasporto in Italia. Il testo non spiegava che, proclamato l’armistizio, sarebbe risultato valido il “Memorandum di Quebec”, che invitava il governo di Roma a “predisporre i piani, da attuarsi al momento opportuno, perché le unità italiane nei Balcani possano marciare verso la costa dove potranno essere trasportate in Italia dalle Nazioni Unite” e “di non permettere ai tedeschi di prendere in mano le difese costiere italiane”. Perentoria invece era l’affermazione descritta al punto IV del Promemoria.

 

L’annuncio dell’armistizio avvenuto alle ore 19.45 dell’8 settembre 1943 per quanto giunto in anticipo sui tempi ipotizzati, non dovette avere totalmente sorpreso il Generale Vecchiarelli, uno dei pochi comandanti che la sera del giorno precedente aveva ricevuto il “Promemoria n. 2” inviato alle grandi unità direttamente dipendenti dal Comando Supremo Italiano (Gruppo Armate Est, Egeo, Grecia e Creta).

 

Proprio sulla base di queste disposizioni (e forse sarebbe stato meglio non averle ricevute) il Generale Carlo Vecchiarelli, Comandante dell’11ª Armata, impartì tassative disposizioni per impedire che le forze italiane si opponessero a quelle tedesche e per garantire a queste ultime la consegna delle artiglierie e delle difese costiere, in vista di uno sperato, ma improbabile ritorno a casa. Infatti nella stessa sera dell’8 settembre alle ore 20.00 diramò l’ordine n. 02/25006: “Seguito conclusione armistizio truppe italiane 11ª armata seguiranno questa linea di condotta. Se i tedeschi non faranno atti di violenza, truppe italiane non rivolgeranno armi contro di loro. Truppe italiane non faranno causa comune con ribelli né con truppe angloamericane che sbarcassero. Reagiranno con la forza a ogni violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare. Comando tedesco informato quanto precede. Siano immediatamente impartiti ordini di cui sopra a reparti dipendenti. Assicurare. Firmato Generale Vecchiarelli”.

 

Il Generale von Gyldenfeld, Capo di Stato Maggiore operativo tedesco che era stato affiancato al Comando dell’11ª Armata a seguito della trasformazione dell’Armata italiana in Armata mista italo-tedesca, nella stessa notte dell’8 settembre si presentò al Generale Vecchiarelli proponendogli l’alternativa: “o continuare a combattere accanto ai tedeschi – il che voleva dire non riconoscere l’armistizio e disobbedire al legittimo Governo – o cedere le armi, disattendendo ugualmente l’ordine di armistizio che imponeva di reagire “a eventuali attacchi da qualsiasi provenienza”; avvertì inoltre che se gli italiani avessero rifiutato la cessione delle armi, i tedeschi l’avrebbero ottenuta con la forza.

 

Il Generale Vecchiarelli rifiutò entrambe le proposte, non potendo accettare di continuare a combattere a fianco dei tedeschi né di cedere le armi, se non ponendosi contro gli ordini del proprio Governo; illudendosi di poter giungere a una onorevole soluzione della nuova situazione, iniziò una trattativa con il Generale von Gyldenfeld, sostituito, poi, dal Generale Lanz, Comandante del XXII Corpo d’Armata tedesco.

 

Nel mentre i tedeschi davano pronta attuazione al piano offensivo elaborato da tempo e scattato dietro la parola d’ordine “Achse”; essi infatti interruppero i collegamenti telefonici isolando i nostri comandi, occuparono uffici, magazzini, punti strategici, si impadronirono in Atene dei due campi di aviazione (Kalamaki e Tatoi), degli stabilimenti dell’Intendenza di armata, mettendovi propri uomini di guardia.

 

Tutta la potente ed efficiente macchina da guerra tedesca, favorita dalla propria posizione strategica che le aveva permesso di incapsulare le unità italiane, approfittando della loro pressoché generale acquiescenza si mosse sollecitamente per stroncare subito ogni forma di resistenza.

 

Ad Atene lo stesso Generale Lanz riteneva molto difficile il compito di imporre il disarmo all’ 11ª Armata considerandola, per la sua inaffidabilità e la sua volontà di difendersi, un pericolo serio.

 

Nel corso di una riunione con i suoi colleghi annunciava che intendeva trattare con gli italiani in modo amichevole, volendo evitare uno spargimento di sangue in considerazione delle forze insufficienti. Nella sola Atene e dintorni, infatti, i tedeschi disponevano di due battaglioni contro due divisioni italiane. Lanz sapeva che la sua linea morbida era in contrasto con le indicazioni dei comandi superiori. Alle ore 00.30 del 9 settembre 1943 (Allegato “C”), mentre rifletteva ancora sulla migliore tattica da usare, il Generale Lanz riceveva una telefonata dal suo diretto superiore, il Generale Lohr, che lo informava che in Italia l’operazione “Achse” stava funzionando in modo egregio.

 

All’insistenza del Generale Lanz di voler procedere con modi morbidi, il suo diretto superiore rispondeva di comportarsi come meglio credeva purché l’armata disarmasse. Alle ore 00.45 il Generale Lanz si incontrava, al quartier generale dell’Armata, con il Generale Vecchiarelli il quale gli intimava, secondo gli ordini ricevuti, il completo disarmo delle truppe italiane.

 

Nel corso della discussione venne redatta una bozza di accordo: le truppe italiane sarebbero rimaste in difesa costiera per quattordici giorni, dopodiché sarebbero state rimpatriate con armamento da definirsi, evitandosi così quel disarmo totale già richiesto dal Generale Gyldenfeldt. Il Generale Lanz si riservò di riferire ai suoi superiori per poter dare una risposta e promise di far riallacciare i collegamenti a filo che erano stati tagliati all’inizio dell’annuncio dell’armistizio.

 

Verso le ore 04.00 del 9 settembre fece ritorno e comunicò al Generale Vecchiarelli che il Generale Lohr non aveva ratificato l’accordo; che restava fermo il rimpatrio dell’Armata, ma in condizioni di pieno disarmo (salvo la pistola per gli Ufficiali) e che egli era costretto, con suo dolore, a invitarlo a impartire gli ordini relativi. Le proteste e le tesi contrarie del Generale Vecchiarelli, che considerava il disarmo in contrasto con l’onore militare, non valsero. Ancorché il Comandante dell’11ª Armata non aveva più alcuna possibilità di autonome decisioni essendo già praticamente prigioniero dei tedeschi.

 

Sconfessando le istruzioni avute e le stesse sue disposizioni emanate la sera dell’8 settembre egli, allo scopo di evitare un inutile spargimento di sangue, trasmise, alle ore 9.50 del 9 settembre, l’ordine di resa con messaggio n. 02/25026: “ A seguito mio ordine 02/25006 dell’8 corrente alt Presidi costieri dovranno rimanere in attuali posizioni sino at cambio con reparti tedeschi non, dico non, oltre però le ore 10.00 del giorno 10 alt In aderenza clausole armistizio truppe italiane non oppongano da detta ora resistenza alcuna a eventuali azioni truppe angloamericane; reagiscano invece a eventuali azioni forze ribelli alt Truppe rientreranno al più presto in Italia alt pertanto una volta sostituite Grandi Unità si concentreranno in zona che mi riservo di fissare unitamente at modalità trasferimento alt Siano lasciate at reparti tedeschi subentranti armi collettive et tutte artiglierie con relativo munizionamento; siano portate at seguito armi individuali ufficiali et truppa con relativo munizionamento in misura adeguata a eventuali esigenze belliche contro ribelli alt Consegneranno parimenti armi collettive tutti altri reparti delle Forze Armate italiane conservando solo armamento individuale alt Consegna armi collettive per tutte le Forze Armate italiane in Grecia avrà inizio at richiesta comandi tedeschi at partire ore 12.00 di oggi alt Firmato Generale Vecchiarelli”.

 

In realtà con il passare delle ore, lo stesso Vecchiarelli vedeva sfumare in termini pericolosamente vaghi l’impegno tedesco del rimpatrio della truppa, che, tra l’altro, sarebbe potuto avvenire soltanto attraverso un lungo itinerario ferroviario nelle retrovie dei Balcani.

 

La grande maggioranza dei Comandanti nel continente eseguì la direttiva Vecchiarelli, accettando quindi di essere disarmati, a eccezione della Divisione “Pinerolo”, in Tessaglia. I Comandanti delle isole invece rifiutarono, per lo più, di obbedire all’ordine, considerandolo estorto con la forza. La possibilità di resistenza delle truppe italiane di fronte ai tedeschi era di fatto diversa nella Grecia continentale e sulle isole. Sul continente l’azione dell’11ª Armata era limitata dal fatto che nel luglio essa era stata posta sotto il comando operativo del Gruppo Armate Est del Generale Lohr, e il successo o insuccesso di qualunque azione di resistenza dipendeva dal rapporto con i partigiani greci.

 

Sulle isole le possibilità di azione al momento dell’armistizio erano maggiori per due motivi: la superiorità numerica italiana e l’importanza strategica delle isole, o almeno di molte di esse, per gli alleati, che rendeva possibile un loro intervento.

 

Non va dimenticata l’angoscia alla quale fu sottoposto lo stesso comandante dell’11ª Armata che vedeva crollare giorno per giorno tutte le illusioni che si era fatte sulla sincerità dell’avversario: anche nei suoi confronti i tedeschi, man mano che progredivano le operazioni di disfacimento dell’Armata, si rivelavano fermi e decisi. Il 18 settembre, insieme al suo Capo di Stato Maggiore, venne posto sotto sorveglianza (sotto la protezione delle forze armate tedesche) e tenuto pronto a partire; l’indomani lasciò Atene in aereo per Belgrado e fu poi fatto proseguire per il campo di internamento di Schokken, insieme con altri generali e colonnelli provenienti da varie località.

 

Così il Comando d’Armata cessò di fatto di esistere, mentre centinaia di militari sfuggiti ai rastrellamenti riuscivano a occultarsi con il generoso aiuto della popolazione greca.

 

Presidiava l’isola di Cefalonia la Divisione di fanteria da montagna “ACQUI”, eccettuati gli elementi dipendenti dal Comando XXVI Corpo d’Armata, rinforzata da unità varie, agli ordini del Generale di Divisione Antonio Gandin, Capo di Stato Maggiore il Tenente Colonnello di S.M. Giovanni Battista Fioretti. Sede del Comando: Argostoli, comprendeva:

-    - Comando fanteria divisionale (Generale di Brigata Edoardo Luigi Gherzi);

- Comando artiglieria divisionale (Colonnello Mario Romagnoli);

- Comando genio divisionale;

- 17° Reggimento di fanteria nella sua integrità organica (Tenente Colonnello Ernesto Cessari);

- 317° Reggimento di fanteria nella sua integrità organica (Colonnello Ezio Ricci);

- 2ª e 4ª compagnia del CX battaglione mitraglieri di Corpo d’Armata;

- I Gruppo (100/17) del 33° Reggimento artiglieria;

- 5ª batteria (75/13) del II Gruppo del 33° Reggimento artiglieria;

- VII Gruppo da 105/28, XCVI Gruppo da 155/36 e CLXXXVII Gruppo da 155/14 dell’artiglieria di Corpo d’Armata;

- III Gruppo contraereo da 75/27 C.K.;

- 2 sezioni cannoni da 70/15;

- 2 sezioni mitragliere contraeree da 20 mm.;

- 215ª compagnia lavoratori del genio;

- 1 sezione fotoelettriche;

- Battaglione genio divisionale;

- 31ª compagnia genio artieri;

- 33ª compagnia mista genio trasmissioni radiotelegrafiche;

- 2ª compagnia carabinieri del VII battaglione;

- 44ª sezione di sanità con gli ospedali da campo 37°, 527°e 581°;

- 8° nucleo chirurgico;

- reparti della Marina a presidio del porto di Argostoli e per il controllo del movimento marittimo.

 

Il contingente tedesco, al comando del Tenente Colonnello Hans Barge, dislocato nella zona di Lixuri, era costituito da:

- 966° Reggimento di fanteria da fortezza su due battaglioni (909° e 910°);

- 202ª batteria semovente su nove pezzi (8 da 75 e 1 da 105);

- 1 plotone genio pontieri;

- due batterie antinave (in via di allestimento a Capo Munta a sud e a Capo Vlioti a nord dell’isola);

- un gruppo pionieri fortezza.

 

Vi erano pochi elementi dell’Aeronautica, ma nessun reparto aereo; stazionavano nelle acque della baia due idrovolanti da ricognizione, presso il lungo ponte di Argostoli, ma partirono improvvisamente la sera dell’ 8 settembre.

 

Complessivamente gli italiani ammontavano a circa 11.500 uomini di truppa e 525 Ufficiali; i tedeschi avevano circa 1.800 uomini di truppa e 25 Ufficiali, con un rapporto di forze di 6 a 1.

 

L’isola era collegata col continente greco mediante cavo telefonico sottomarino e due stazioni radio, delle quali una della Marina. Le truppe disponevano di 10 unità di fuoco (munizionamento per tre o quattro giorni) e 90 giorni di viveri.

 

Le condizioni materiali del soldato a Cefalonia erano quelle comuni a tutte le truppe italiane in patria e nei diversi teatri di operazioni, ossia, nella maggior parte dei casi, al di sotto della mediocrità. Fra l’altro, per quanto riguarda Cefalonia il vestiario era scarso in special modo le calzature; era ridotto al minimo indispensabile il vitto e tuttavia quasi sempre insufficiente alle condizioni di vita del soldato in guerra. Sicché, per queste e altre deficienze, il regime disciplinare, costretto a reggersi, pur nelle contingenze ordinarie, su uno sproporzionato spirito di sacrificio dei gregari, non presentava sintomi rassicuranti di stabilità.

 

Questo insieme di forze era schierato in distinti settori nei punti più idonei per la difesa dell’isola, ma con inevitabili contatti e frammischiamenti favoriti dalle modeste dimensioni dell’isola stessa (781 kmq). Le dislocazioni prevedevano:

 

a.  Settore nord – orientale: 317° Reggimento fanteria. Sede del Comando: Makrjotica.

b.  Settore sud – occidentale: 17° Reggimento fanteria. Sede del Comando: Keramies.

c.  Settore nord – occidentale: forze italiane e tedesche. Sede del Comando: Liguri.

 

Le forze militari e navali italiane, in apposite postazioni dell’isola erano rinforzate da importanti opere di difesa e da installazioni che erano state costruite fin dalla metà del 1942 con l’obiettivo di contenere un probabile sbarco da parte degli Alleati. Esse erano costituite:

-  - dall’interruzione della strada del porto dal vecchio mercato del pesce fino alla vecchia dogana di Lixuri;

-  - da posti di guardia militari all’inizio del ponte di Argostoli e nella Scuola Agraria della città;

-  dalla fissazione in zona militare proibita del territorio Agh-Teodoros-Faro e da posti di guardia nelle Vinarie e nella postazione Faraò;

- da postazioni di mitragliatrici e cannoni in località Molini di Argostoli;

- da fortificazioni nella catena delle colline Chelmata-Chiaravonta-Spilià;

- da importanti opere di difesa nella serie di colline Faraò-Aj Thanassi-Telegraphos.

 

Nell’isola stazionavano inoltre press’a poco un centinaio di funzionari civili impiegati presso il Consorzio agrario, la Banca del Lavoro, il Banco di Napoli sotto la direzione politica del console Vittorio Seganti dei Conti di Sarsina.

 

Il movimento di liberazione ellenico era rappresentato a Cefalonia dalla K.O.K.I. (Kommunistikon Organon Kephallinia Itaki = Organizzazione comunista Cefalonia Itaca) che, al momento della occupazione italiana, era entrata in profonda crisi ma si era ripresa alla notizia dell’armistizio. Inoltre fin dall’agosto del 1943 c’era a Cefalonia una missione alleata inviata dal Quartier Generale del Medio Oriente, che intravedendo dopo lo sbarco angloamericano in Sicilia lo sviluppo delle operazioni nell’Eptaneso e lo sfacelo del regime fascista italiano, ritenne indispensabile seguire da vicino la situazione in movimento nelle zone della Grecia occupate dagli italiani inviando degli emissari sul posto.

 

La componevano il cefalleno luogotenente di cavalleria Andrea Galiatsatos da Varì di Erisso, che era fuggito nel Medio Oriente, e il diciannovenne radiotelegrafista Frixos Sinopulos che subito dopo essere sbarcato nel nord dell’isola si trasferì e si installò nel villaggio di Varì paese di origine del luogotenente di cavalleria. Questi entrò subito in contatto con gli abitanti dei villaggi della zona, molti dei quali facevano parte dell’EAM, e costituì con loro una piccola squadra di informatori.

 

La sera dell’8 settembre 1943, mentre le prime ombre calavano dalla catena montagnosa dell’Enos infilandosi nelle viuzze della bella Argostoli e tra gli ulivi della pianura circostante, giungeva inattesa, come un fulmine a ciel sereno, la notizia dell’armistizio. Il Comando Marina di Argostoli, alle ore 19.00 captava da radio Londra la notizia che gli angloamericani avevano accettato la domanda di armistizio avanzata dal Governo Italiano e nonostante la ricerca di conferme e spiegazioni, solo alle 19.45 la radio italiana lo confermò con la comunicazione ufficiale del Maresciallo Badoglio.

 

Quella sera si trovava ad Argostoli anche il Generale Marghinotti. Trasferitosi il 19 agosto con il suo Comando dell’VIII Corpo d’Armata dal Peloponneso ad Agrinion, in Etolia, per ricostituirsi con le Divisioni “Acqui”, “Casale” e la 107ª cacciatori tedesca in seguito al nuovo ordinamento dell’Armata, stava appunto compiendo un giro d’ispezione alle nuove unità. Conosciuta la notizia dell’armistizio, dopo alcune generiche istruzioni al Generale Gandin relative alla sicurezza e al controllo dei reparti, e con l’ovvia riserva di ulteriori ordini appena possibile, si affrettò a tornare ad Agrinion.

 

Invano però si attesero, quella notte e poi, le ulteriori notizie, gli ordini precisi, e gli immancabili chiarimenti che tutti e in particolar modo il Generale Gandin ardentemente bramavano (Allegato “D”). Intanto la notizia dell’armistizio italiano si diffuse come un lampo in tutta l’isola la sera tardi e provocò un incontentabile e irrefrenabile entusiasmo. Soldati italiani e marinai con il popolo delle città e delle campagne e anche soldati tedeschi si riversarono tutti insieme affratellati, nelle strade e nelle piazze di Argostoli, di Lixuri e dei villaggi, inneggiando e sparando in aria e ballando, abbracciati in un’ atmosfera di straordinaria gioia mentre le campane delle chiese suonavano incessantemente.

 

Il Generale Gandin ne informava ufficialmente tutti comandi dipendenti e ordinava la consegna delle truppe negli alloggiamenti, la intensificazione della vigilanza, il coprifuoco per la popolazione, la perlustrazione notturna delle vie di Argostoli.

 

Alle ore 21.30 l’11ª Armata, che dalla fine di luglio era un’ armata mista italo-tedesca, inviava alle unità dipendenti il seguente radiogramma n. 02/25006 che perveniva a Cefalonia verso le ore 23.30:"Seguito conclusione armistizio truppe italiane 11ª Armata seguiranno questa linea di condotta. Se i tedeschi non faranno atti di violenza, truppe italiane non rivolgeranno armi contro di loro. Truppe italiane non faranno causa comune con ribelli né con truppe angloamericane che sbarcassero. Reagiranno con la forza a ogni violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare. Comando tedesco informato quanto precede. Siano immediatamente impartiti ordini di cui sopra a reparti dipendenti. Assicurare. Firmato Generale Vecchiarelli”.

 

Un ordine che era chiaro solo su due punti, ma fondamentali: la Divisione “ACQUI” doveva restare a presidiare le isole di Cefalonia e Corfù e avrebbe reagito a ogni azione di forza da parte dei partigiani greci, di eventuali truppe alleate o da parte dei tedeschi. Più tardi ancora giungeva un ordine di immediato rientro per il naviglio presente sull’isola. Questa misura, presa in ottemperanza ai comandi inglesi, lasciava la Divisione “ACQUI” senza mezzi di movimento via mare.

 

A seguito dell’ordine del Generale Vecchiarelli, in linea con il dettato del proclama armistiziale, il Generale Gandin ordinava il trasferimento della riserva divisionale, e della 1ª, 3ª e 5ª batteria del 33° artiglieria dalle posizioni di difesa costiera rispettivamente a Svoronata, Klismata, Mavrata, assegnando alle suddette batterie obiettivi in netta funzione antitedesca: controllo del parco semoventi tedeschi, del deposito munizioni tedesco, della banchina porto di Argostoli, ponte di Argostoli, del km 3,5 dalla rotabile Kardakata-Argostoli al fine di interdire l’accesso in Argostoli, sede del Comando

 

Divisione, dove era già distaccato il gruppo tattico Fauth (circa 700 uomini) con una batteria semoventi. E che tali misure furono adeguate alla nuova situazione lo si avvertì subito quando all’alba, piccoli nuclei di tedeschi cercarono di penetrare nell’interno dello schieramento italiano con il pretesto di effettuare spostamenti e trasporti abituali di viveri.

 

Questi movimenti furono interdetti o comunque attentamente controllati, in modo da assicurare la tenuta delle linee difensive in due punti essenziali. Si trattava di incidenti apparentemente dovuti a disguidi e a una certa prepotenza di tratto, spesso affiorata da parte tedesca nell’esecuzione di ordini, ma in realtà erano significativi della tensione e insieme della cautela con cui si fronteggiavano gli ex-alleati. Intanto, per tutta la notte, le stazioni radio dell’isola invano cercarono di collegarsi con i Comandi italiani di Atene, Agrinion, Corfù, Zante, Santa Maura. Impossibile comunicare con l’Italia.

 

Era l’isolamento più completo. Nella tarda serata si tenne ad Argostoli una riunione straordinaria di dirigenti di tutte le organizzazioni dell’EAM del distretto per studiare la situazione. Vi presero parte 25 dirigenti, tra i quali i membri dell’Ufficio provinciale dell’Organizzazione Comunista di Cefalonia-Itaka (KOKI), i principali esponenti dell’EAM del distretto, delle altre organizzazioni del Fronte di Liberazione Nazionale e anche patrioti antifascisti. In quella riunione si decise di aiutare con ogni mezzo gli antifascisti italiani, di sviluppare al massimo e con qualsiasi mezzo un azione di propaganda tra le truppe italiane sul dovere basilare di non consegnare le armi ai tedeschi e, con la costituzione di un Comitato Militare, di entrare rapidamente in contatto con la missione alleata e tramite suo con il Quartier Generale del Medio Oriente allo scopo di fissare i piani per fronteggiare le situazioni che si sarebbero delineate.

 

Contemporaneamente, sino dall’alba del giorno 9 settembre si iniziava, da parte greca, un intensa propaganda tendente a spingere gli italiani contro i tedeschi. Venivano diffusi migliaia di volantini: “L’Italia e la Grecia, le due nazioni più civili al mondo, non possono essere schiave della barbara Germania. I fratelli greci staranno accanto ai fratelli italiani nella loro sacra lotta per la libertà e la civiltà. Viva l’Italia una, libera e indipendente”.

 

Il Generale Gandin ne ordinava la ricerca e distruzione ma l’operazione non si presentava di facile soluzione; di fatto una tale propaganda attecchì fra i soldati molti dei quali non rivedevano la famiglia da trenta mesi per l’irregolare turno di licenze e per la penuria di mezzi navali di trasporto.

 

A siffatte argomentazioni generiche se ne aggiungevano altre, tra le quali una assai più concreta e acuta: “bisogna cacciare i pochi tedeschi che sono nell’isola; una volta cacciati i tedeschi, gli inglesi, che sono ormai padroni dell’Italia e del Mediterraneo, verranno a liberare voi e a riportare voi, con le loro navi, alle vostre case”; indipendentemente dal fatto che tali argomentazioni fossero esclusivo frutto della propaganda greca o della valutazione affrettata dei soldati, o l’uno e l’altro, esse divennero in breve comune convinzione.

 

La situazione era oltremodo confusa; correvano voci che i tedeschi si fossero violentemente impadroniti del comando dell’11ª Armata con sede in Atene e di quello dell’VIII Corpo d’Armata (da cui dipendeva la Divisione “ACQUI”) con sede ad Agrinion; la truppa incominciava a elettrizzarsi nell’apprendere altre notizie incontrollate, secondo le quali conflitti armati erano in corso nel vicino continente greco da parte delle unità italiane contro le truppe tedesche, resesi queste ultime colpevoli di violenze contro i soldati italiani.



 

 

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