N. 64 - Aprile 2013
(XCV)
8 SETTEMBRE 1943
L’INIZIO DELLA FINE
di Generoso Mele
La
caduta
di
Mussolini,
il
25
luglio
del
1943,
fu
il
risultato
di
due
successive
iniziative,
maturate
all’interno
del
regime:
il
voto
di
sfiducia
del
Gran
Consiglio,
il
massimo
organo
del
fascismo,
e la
decisione
del
Re
Vittorio
Emanuele
III
di
chiedere
le
dimissioni
del
Duce.
Mussolini
aveva
accettato
di
convocare
il
Gran
Consiglio
del
fascismo,
che
non
si
riuniva
dal
1939,
probabilmente
per
fare
fronte
agli
oppositori
interni
e
metterli
in
minoranza;
invece
dopo
una
rovente
discussione
che
si
prolungò
per
diverse
ore,
la
mozione
presentata
da
Grandi
– in
cui
si
chiedeva
al
Re
di
riassumere
i
poteri
costituzionali
– fu
messa
ai
voti
e fu
approvata
con
diciannove
voti
contro
sette.
Il
giorno
seguente
il
Re
deliberò
non
soltanto
di
avvicendare
Mussolini
con
il
Generale
Badoglio,
ma
anche
di
farlo
arrestare,
cogliendo
di
sorpresa
il
Duce,
convinto
di
poter
contare
sul
suo
sostegno.
In
poche
ore
veniva
posto
fine
in
maniera
indolore
a un
regime
durato
venti
anni.
Il
25
luglio
era
stato
inteso
quindi,
dalla
grandissima
maggioranza
dell’opinione
pubblica
italiana,
come
l’acquisizione
della
pregiudiziale
ineludibile
per
porre
fine
all’alleanza
con
la
Germania
e
per
far
allontanare
l’Italia
dalla
minaccia
della
guerra.
Tali
i
fini
ultimi
della
destituzione
di
Mussolini
e
dell’inizio
della
defascistizzazione
dello
Stato
e fu
possibile
in
primo
luogo
perché
i
suoi
protagonisti
poterono
sentirsi
sicuri
e
fiduciosi
circa
la
tenuta
e il
sostegno
delle
Forze
Armate
che,
infatti,
furono
lo
strumento-chiave
della
manovra
politica,
garantendo
al
Re e
al
nuovo
governo
la
sicurezza
dell’ordine
pubblico
e un
certo
controllo
della
situazione
militare
in
generale.
Appena
insediato,
Badoglio
si
affrettò
ad
annunciare
in
un
proclama
al
Paese
la
sua
decisione
di
continuare
la
guerra
a
fianco
della
Germania.
La
frase
“la
guerra
continua”
sembrò
un
espediente
per
prendere
tempo
e
organizzare
un
armistizio
con
i
governi
angloamericani.
Ma
Hitler
e il
III
Reich
facevano
ancora
più
sul
serio
del
Maresciallo
Badoglio.
Nella
riunione
dell’Alto
Comando
Tedesco,
a
Rastenburg,
del
26
luglio,
si
dava
via
all’operazione
“Alarich”
che
prevedeva:
il
controllo
dei
passi
alpini
per
il
libero
transito
con
la
Germania
attraverso
il
Brennero
e
con
il
dispositivo
militare
tedesco
nella
Francia
occupata
attraverso
i
valichi
delle
Alpi
Occidentali
e la
litoranea
ligure,
l’inserimento
tra
le
unità
italiane
nell’Italia
settentrionale
e il
raggruppamento
di
unità
divisionali
scelte
in
direzione
da
Nord
a
Sud
dalle
immediate
vicinanze
di
Roma
sino
al
litorale
campano
così
da
integrarsi
con
lo
schieramento
già
in
atto
nel
fronte
Sud
dalla
Sicilia,
non
ancora
occupata,
alla
Calabria
e
alle
Puglie.
Alle
prime
notizie
circa
l’ammassamento
di
forze
tedesche
alla
frontiera
e il
forzamento
dei
posti
di
confine
in
formazioni
di
combattimento,
il
Comando
Supremo
italiano
reagì
energicamente
verso
il
Comando
Supremo
germanico
anche
se
fu
costretto
ad
accettare
il
fatto
compiuto
perché,
in
sostanza,
il
proclama
di
Badoglio
vigeva
in
tutta
la
sua
drammaticità
con
la
nota
affermazione:
“la
guerra
continua”.
Lo
Stato
Maggiore
dell’Esercito
diramava
subito,
in
data
30
luglio,
disposizioni
verbali
che
non
potevano
prestarsi
a
interpretazioni
vaghe
nella
loro
precisione:
reagire
e
opporsi
con
la
forza
a
ogni
tentativo
dei
tedeschi
di
impossessarsi
dei
punti
vitali,
garantire
il
totale
controllo
di
essi
con
forze
italiane,
intensificare
la
vigilanza
degli
obiettivi
più
importanti.
Ogni
iniziativa
del
governo
fu
totalmente
condizionata
dalla
paura
della
reazione
delle
forze
armate
tedesche.
Si
creò
una
situazione
paradossale:
Badoglio
tardò
a
prendere
contatto
con
i
governi
angloamericani
per
timore
di
insospettire
i
tedeschi,
mentre
i
tedeschi
erano
convinti
che
le
trattative
per
un
armistizio
fossero
già
in
corso,
e
cercavano
di
trovare
le
prove
del
tradimento
italiano
per
avere
il
pretesto
di
uscire
allo
scoperto.
Nonostante
i
pesanti
bombardamenti
angloamericani
sulle
città
italiane
e la
pressione
dell’opinione
pubblica
perché
l’Italia
uscisse
dalla
guerra,
il
governo
Badoglio
non
seppe
prendere
una
decisione.
Il
Re e
Badoglio
si
dimostrarono
del
tutto
incapaci
di
affrontare
la
situazione,
trascinando
l’Italia
nel
più
grave
disastro
militare
della
sua
storia.
Preoccupati
soltanto
di
mantenere
il
segreto
per
non
dare
ai
tedeschi
l’occasione
di
un
colpo
di
stato
non
impartirono
alcuna
direttiva
al
Comando
Supremo
e
allo
Stato
Maggiore
dell’Esercito
per
orientare
i
vari
Comandi
sull’eventualità
di
un
armistizio
con
gli
angloamericani
nel
timore
che
i
tedeschi
ne
potessero
venire
a
conoscenza.
Per
tutta
la
prima
metà
di
agosto,
del
resto,
i
comandi
militari
erano
orientati,
in
attesa
di
un
armistizio,
a
continuare
la
guerra
a
fianco
dei
tedeschi.
Nello
stesso
tempo
il
comando
italiano
prese
una
serie
di
misure
per
far
fronte
e
annullare
la
probabile
aggressione
tedesca.
Infatti
lo
Stato
Maggiore
dell’Esercito,
che
seguiva
accuratamente
la
situazione,
riscontrando
nell’atteggiamento
germanico
una
gravità
sempre
maggiore,
diramò
il
10
agosto
1943
l’Ordine
111
C.T.
(Allegato
“A”)
confermando
e
ampliando
nei
riguardi
dei
comandi
periferici
le
direttive
verbali
impartite
il
30
luglio.
Verso
la
fine
di
agosto,
dietro
richiesta
del
Capo
di
Stato
Maggiore
Generale
Ambrosio,
lo
Stato
Maggiore
dell’Esercito
preparò
la “
Memoria
O.P.
44”
che
era
un
ampliamento
del
foglio
“111
C.
T.”,
e
che
fu
recapitata
tra
il 2
e il
5
settembre
soltanto
ai
comandi
militari
dipendenti
dallo
Stato
Maggiore
dell’Esercito,
cioè
alle
forze
stanziate
in
Italia.
Entrambi
i
documenti
avevano
carattere
prettamente
difensivo
nei
confronti
di
una
possibile
aggressione
tedesca
e
non
facevano
nessuna
allusione
alla
possibile
firma
di
un
armistizio.
In
relazione
al
contenuto
della
Memoria
O.P.
44 e
alle
notizie
derivanti
dall’avvenuta
firma
dell’armistizio
(3
settembre)
il 6
settembre
il
Comando
Supremo
emanò
il
“Promemoria
n.
1”
diretto
ai
Capi
di
S.M.
delle
tre
Forze
Armate
riguardante
le
forze
dislocate
in
Italia,
Francia
e
Croazia,
vero
e
proprio
complemento
della
Memoria
O.P.
44 e
il “
Promemoria
n.
2”
contenenti
ordini
diretti
ai
Comandi
Gruppo
Armate
Est
(concentrare
le
forze
e
garantirsi
i
porti
di
Cattaro
e
Durazzo),
all’Egeo
e al
Comando
Superiore
Grecia
(libertà
per
i
Comandanti
di
assumere
l’atteggiamento
più
conforme
alla
situazione,
precisando
di
dichiarare
ai
tedeschi
che
le
truppe
italiane
non
avrebbero
preso
le
armi
contro
di
loro
né
avrebbero
fatto
causa
comune
con
i
ribelli
se
non
fossero
state
soggette
ad
atti
di
violenza
armata).
L’armistizio
venne
annunciato
per
radio
dal
Generale
Eisenhower
verso
le
ore
18.00
dell’8
settembre.
Seguì
un
Consiglio
della
Corona
al
Quirinale
per
decidere
in
merito
all’accettazione
o
meno
dell’armistizio
e
dopo
varie
discussioni
fu
decisa
l’accettazione.
Alle
ore
19.45
il
Maresciallo
Badoglio
annunciò
via
radio
all’Italia
l’avvenuta
conclusione.
Il
radiomessaggio
fu
ripetuto
più
volte:
non
fu
sentita
la
necessità
in
quel
momento
di
incitare
il
popolo
italiano
alla
resistenza
ai
tedeschi,
galvanizzando
gli
animi.
L’atteggiamento
delle
forze
tedesche
all’annuncio
fu
inizialmente
guardingo
e di
attesa
ma
non
subì
tentennamenti.
Poco
dopo
il
Comando
Supremo
germanico
diramò
la
parola
convenzionale
“Achse”
e da
quel
momento
tutti
i
comandanti
tedeschi
iniziarono
l’esecuzione
delle
previste
misure.
Alle
ore
00.20
del
9
settembre
il
Comando
Supremo,
con
il
messaggio
n.
24202/O.P.,
confermava
“che
non
deve
però
essere
presa
iniziativa
di
atti
ostili
contro
i
germanici”.
Memorie
e
promemoria
rimasero
di
fatto,
quasi
per
intero,
lettera
morta
a
causa
sia
delle
contraddizioni
che
taluno
di
essi
presentava
nei
loro
contenuti
sia
dei
ritardi
con
i
quali
giunsero
–
qualcuno
non
arrivò
a
destinazione
–
agli
alti
comandi
periferici
che
comunque
non
fecero
in
tempo
a
travasarli
ai
comandi
delle
grandi
unità
dipendenti
(se
l’armistizio
fosse
stato
promulgato
il
12
settembre,
l’esecuzione
degli
ordini
avrebbe
potuto
risultare
favorevolmente
diversa)
e
altresì
della
scarsissima
possibilità
di
raccogliere
le
forze
molto
frazionate
in
vaste
aree
e
della
impreparazione
psicologica
a
cambiare
d’improvviso
la
direzione
del
fuoco.
Circa
tre
ore
dopo
l’annuncio
dell’armistizio
il
Capo
di
Stato
Maggiore
dell’Esercito,
i
Sottocapi,
il
Capo
Reparto
Operazioni
e i
componenti
della
“Sezione
speciale”
si
trasferirono
da
Monterotondo
a
Roma,
facendo
ritenere
che
vi
fosse,
almeno
nelle
intenzioni,
la
decisione
di
condurre
la
resistenza
con
una
visione
unitaria.
Cominciarono
a
pervenire
subito
numerosissime
richieste
telefoniche
da
parte
di
molti
comandi
ed
enti
periferici,
taluni
non
direttamente
dipendenti
dallo
Stato
Maggiore
ma
dal
Comando
Supremo,
per
ricevere
ordini
e
precisazioni
su
incidenti
in
corso
con
i
tedeschi:
fu
subito
evidente
la
conferma
che
non
tutti
i
comandi
avevano
ricevuto
notizia
degli
ordini
e
degli
orientamenti
diramati
in
precedenza.
Alle
6.39
del
9
settembre
il
Comando
Supremo
diramò
ai
tre
Stati
Maggiori
il
fonogramma
n.16733
con
il
quale
avvertì
che
il
Governo
e il
Comando
Supremo
avrebbero
lasciato
Roma
dirigendosi
a
Pescara,
aggiungendo
che
i
Capi
di
Stato
Maggiori
avrebbero
dovuto
seguire,
lasciando
sul
posto
loro
rappresentanti.
L’11ª
Armata
fu
l’unica
grande
unità
italiana
nei
Balcani
che
ricevette,
sia
pure
con
un
solo
giorno
di
anticipo,
la
generica
notizia
sulla
possibilità
di
un
armistizio
(Allegato
“B”)
tra
le
forze
armate
italiane
e
quelle
angloamericane,
anche
se
questo
preavviso
non
servì
a
molto.
Si
tratta
del
cosiddetto
“Promemoria
n.
2”
che
venne
portato
ad
Atene
dal
Generale
Cesare
Gandini,
Capo
di
Stato
Maggiore
dell’11ª
Armata,
che
si
trovava
casualmente
a
Roma.
Questi,
nella
notte
sul
7
settembre
si
vide
recapitare
in
albergo
da
un
Ufficiale
del
Comando
Supremo
l’importante
documento.
Egli
fece
appena
in
tempo
a
prendere
l’ultimo
aereo
militare
Roma-Atene
e a
raggiungere
in
tarda
serata
il
proprio
comando.
Rientrato
in
sede
riferiva
al
Comandante
dell’Armata,
consegnandogli
il
“Promemoria
n.
2”,
che
a
Roma
si
considerava
inevitabile
il
sacrificio
dell’Armata
e
quindi
si
faceva
affidamento
sul
suo
prestigio
e
sulla
sua
abilità
per
evitare
lo
sterminio
delle
truppe
e il
loro
internamento.
L’esame
del
documento
indicava
chiaramente
di
evitare
lo
scontro
con
i
tedeschi,
consentendo
loro
di
subentrare
pacificamente
nei
dispositivi
di
difesa;
inoltre
raccomandava
di
non
fare
“causa
comune”
non
solo
con
i
ribelli
ma
neppure
con
gli
angloamericani
“che
eventualmente
sbarcassero”
e di
mantenere
una
rigorosa
neutralità
in
attesa
di
poter
rientrare
in
patria.
Infatti,
più
avanti
il
Promemoria
diceva:
“riunire
al
più
presto
le
forze,
preferibilmente
sulle
coste
in
prossimità
dei
porti”
con
il
sottinteso
che
sarebbero
arrivati
mezzi
per
il
trasporto
in
Italia.
Il
testo
non
spiegava
che,
proclamato
l’armistizio,
sarebbe
risultato
valido
il
“Memorandum
di
Quebec”,
che
invitava
il
governo
di
Roma
a
“predisporre
i
piani,
da
attuarsi
al
momento
opportuno,
perché
le
unità
italiane
nei
Balcani
possano
marciare
verso
la
costa
dove
potranno
essere
trasportate
in
Italia
dalle
Nazioni
Unite”
e
“di
non
permettere
ai
tedeschi
di
prendere
in
mano
le
difese
costiere
italiane”.
Perentoria
invece
era
l’affermazione
descritta
al
punto
IV
del
Promemoria.
L’annuncio
dell’armistizio
avvenuto
alle
ore
19.45
dell’8
settembre
1943
per
quanto
giunto
in
anticipo
sui
tempi
ipotizzati,
non
dovette
avere
totalmente
sorpreso
il
Generale
Vecchiarelli,
uno
dei
pochi
comandanti
che
la
sera
del
giorno
precedente
aveva
ricevuto
il
“Promemoria
n.
2”
inviato
alle
grandi
unità
direttamente
dipendenti
dal
Comando
Supremo
Italiano
(Gruppo
Armate
Est,
Egeo,
Grecia
e
Creta).
Proprio
sulla
base
di
queste
disposizioni
(e
forse
sarebbe
stato
meglio
non
averle
ricevute)
il
Generale
Carlo
Vecchiarelli,
Comandante
dell’11ª
Armata,
impartì
tassative
disposizioni
per
impedire
che
le
forze
italiane
si
opponessero
a
quelle
tedesche
e
per
garantire
a
queste
ultime
la
consegna
delle
artiglierie
e
delle
difese
costiere,
in
vista
di
uno
sperato,
ma
improbabile
ritorno
a
casa.
Infatti
nella
stessa
sera
dell’8
settembre
alle
ore
20.00
diramò
l’ordine
n.
02/25006:
“Seguito
conclusione
armistizio
truppe
italiane
11ª
armata
seguiranno
questa
linea
di
condotta.
Se i
tedeschi
non
faranno
atti
di
violenza,
truppe
italiane
non
rivolgeranno
armi
contro
di
loro.
Truppe
italiane
non
faranno
causa
comune
con
ribelli
né
con
truppe
angloamericane
che
sbarcassero.
Reagiranno
con
la
forza
a
ogni
violenza
armata.
Ognuno
rimanga
al
suo
posto
con
compiti
attuali.
Sia
mantenuta
con
ogni
mezzo
disciplina
esemplare.
Comando
tedesco
informato
quanto
precede.
Siano
immediatamente
impartiti
ordini
di
cui
sopra
a
reparti
dipendenti.
Assicurare.
Firmato
Generale
Vecchiarelli”.
Il
Generale
von
Gyldenfeld,
Capo
di
Stato
Maggiore
operativo
tedesco
che
era
stato
affiancato
al
Comando
dell’11ª
Armata
a
seguito
della
trasformazione
dell’Armata
italiana
in
Armata
mista
italo-tedesca,
nella
stessa
notte
dell’8
settembre
si
presentò
al
Generale
Vecchiarelli
proponendogli
l’alternativa:
“o
continuare
a
combattere
accanto
ai
tedeschi
– il
che
voleva
dire
non
riconoscere
l’armistizio
e
disobbedire
al
legittimo
Governo
– o
cedere
le
armi,
disattendendo
ugualmente
l’ordine
di
armistizio
che
imponeva
di
reagire
“a
eventuali
attacchi
da
qualsiasi
provenienza”;
avvertì
inoltre
che
se
gli
italiani
avessero
rifiutato
la
cessione
delle
armi,
i
tedeschi
l’avrebbero
ottenuta
con
la
forza.
Il
Generale
Vecchiarelli
rifiutò
entrambe
le
proposte,
non
potendo
accettare
di
continuare
a
combattere
a
fianco
dei
tedeschi
né
di
cedere
le
armi,
se
non
ponendosi
contro
gli
ordini
del
proprio
Governo;
illudendosi
di
poter
giungere
a
una
onorevole
soluzione
della
nuova
situazione,
iniziò
una
trattativa
con
il
Generale
von
Gyldenfeld,
sostituito,
poi,
dal
Generale
Lanz,
Comandante
del
XXII
Corpo
d’Armata
tedesco.
Nel
mentre
i
tedeschi
davano
pronta
attuazione
al
piano
offensivo
elaborato
da
tempo
e
scattato
dietro
la
parola
d’ordine
“Achse”;
essi
infatti
interruppero
i
collegamenti
telefonici
isolando
i
nostri
comandi,
occuparono
uffici,
magazzini,
punti
strategici,
si
impadronirono
in
Atene
dei
due
campi
di
aviazione
(Kalamaki
e
Tatoi),
degli
stabilimenti
dell’Intendenza
di
armata,
mettendovi
propri
uomini
di
guardia.
Tutta
la
potente
ed
efficiente
macchina
da
guerra
tedesca,
favorita
dalla
propria
posizione
strategica
che
le
aveva
permesso
di
incapsulare
le
unità
italiane,
approfittando
della
loro
pressoché
generale
acquiescenza
si
mosse
sollecitamente
per
stroncare
subito
ogni
forma
di
resistenza.
Ad
Atene
lo
stesso
Generale
Lanz
riteneva
molto
difficile
il
compito
di
imporre
il
disarmo
all’
11ª
Armata
considerandola,
per
la
sua
inaffidabilità
e la
sua
volontà
di
difendersi,
un
pericolo
serio.
Nel
corso
di
una
riunione
con
i
suoi
colleghi
annunciava
che
intendeva
trattare
con
gli
italiani
in
modo
amichevole,
volendo
evitare
uno
spargimento
di
sangue
in
considerazione
delle
forze
insufficienti.
Nella
sola
Atene
e
dintorni,
infatti,
i
tedeschi
disponevano
di
due
battaglioni
contro
due
divisioni
italiane.
Lanz
sapeva
che
la
sua
linea
morbida
era
in
contrasto
con
le
indicazioni
dei
comandi
superiori.
Alle
ore
00.30
del
9
settembre
1943
(Allegato
“C”),
mentre
rifletteva
ancora
sulla
migliore
tattica
da
usare,
il
Generale
Lanz
riceveva
una
telefonata
dal
suo
diretto
superiore,
il
Generale
Lohr,
che
lo
informava
che
in
Italia
l’operazione
“Achse”
stava
funzionando
in
modo
egregio.
All’insistenza
del
Generale
Lanz
di
voler
procedere
con
modi
morbidi,
il
suo
diretto
superiore
rispondeva
di
comportarsi
come
meglio
credeva
purché
l’armata
disarmasse.
Alle
ore
00.45
il
Generale
Lanz
si
incontrava,
al
quartier
generale
dell’Armata,
con
il
Generale
Vecchiarelli
il
quale
gli
intimava,
secondo
gli
ordini
ricevuti,
il
completo
disarmo
delle
truppe
italiane.
Nel
corso
della
discussione
venne
redatta
una
bozza
di
accordo:
le
truppe
italiane
sarebbero
rimaste
in
difesa
costiera
per
quattordici
giorni,
dopodiché
sarebbero
state
rimpatriate
con
armamento
da
definirsi,
evitandosi
così
quel
disarmo
totale
già
richiesto
dal
Generale
Gyldenfeldt.
Il
Generale
Lanz
si
riservò
di
riferire
ai
suoi
superiori
per
poter
dare
una
risposta
e
promise
di
far
riallacciare
i
collegamenti
a
filo
che
erano
stati
tagliati
all’inizio
dell’annuncio
dell’armistizio.
Verso
le
ore
04.00
del
9
settembre
fece
ritorno
e
comunicò
al
Generale
Vecchiarelli
che
il
Generale
Lohr
non
aveva
ratificato
l’accordo;
che
restava
fermo
il
rimpatrio
dell’Armata,
ma
in
condizioni
di
pieno
disarmo
(salvo
la
pistola
per
gli
Ufficiali)
e
che
egli
era
costretto,
con
suo
dolore,
a
invitarlo
a
impartire
gli
ordini
relativi.
Le
proteste
e le
tesi
contrarie
del
Generale
Vecchiarelli,
che
considerava
il
disarmo
in
contrasto
con
l’onore
militare,
non
valsero.
Ancorché
il
Comandante
dell’11ª
Armata
non
aveva
più
alcuna
possibilità
di
autonome
decisioni
essendo
già
praticamente
prigioniero
dei
tedeschi.
Sconfessando
le
istruzioni
avute
e le
stesse
sue
disposizioni
emanate
la
sera
dell’8
settembre
egli,
allo
scopo
di
evitare
un
inutile
spargimento
di
sangue,
trasmise,
alle
ore
9.50
del
9
settembre,
l’ordine
di
resa
con
messaggio
n.
02/25026:
“
A
seguito
mio
ordine
02/25006
dell’8
corrente
alt
Presidi
costieri
dovranno
rimanere
in
attuali
posizioni
sino
at
cambio
con
reparti
tedeschi
non,
dico
non,
oltre
però
le
ore
10.00
del
giorno
10
alt
In
aderenza
clausole
armistizio
truppe
italiane
non
oppongano
da
detta
ora
resistenza
alcuna
a
eventuali
azioni
truppe
angloamericane;
reagiscano
invece
a
eventuali
azioni
forze
ribelli
alt
Truppe
rientreranno
al
più
presto
in
Italia
alt
pertanto
una
volta
sostituite
Grandi
Unità
si
concentreranno
in
zona
che
mi
riservo
di
fissare
unitamente
at
modalità
trasferimento
alt
Siano
lasciate
at
reparti
tedeschi
subentranti
armi
collettive
et
tutte
artiglierie
con
relativo
munizionamento;
siano
portate
at
seguito
armi
individuali
ufficiali
et
truppa
con
relativo
munizionamento
in
misura
adeguata
a
eventuali
esigenze
belliche
contro
ribelli
alt
Consegneranno
parimenti
armi
collettive
tutti
altri
reparti
delle
Forze
Armate
italiane
conservando
solo
armamento
individuale
alt
Consegna
armi
collettive
per
tutte
le
Forze
Armate
italiane
in
Grecia
avrà
inizio
at
richiesta
comandi
tedeschi
at
partire
ore
12.00
di
oggi
alt
Firmato
Generale
Vecchiarelli”.
In
realtà
con
il
passare
delle
ore,
lo
stesso
Vecchiarelli
vedeva
sfumare
in
termini
pericolosamente
vaghi
l’impegno
tedesco
del
rimpatrio
della
truppa,
che,
tra
l’altro,
sarebbe
potuto
avvenire
soltanto
attraverso
un
lungo
itinerario
ferroviario
nelle
retrovie
dei
Balcani.
La
grande
maggioranza
dei
Comandanti
nel
continente
eseguì
la
direttiva
Vecchiarelli,
accettando
quindi
di
essere
disarmati,
a
eccezione
della
Divisione
“Pinerolo”,
in
Tessaglia.
I
Comandanti
delle
isole
invece
rifiutarono,
per
lo
più,
di
obbedire
all’ordine,
considerandolo
estorto
con
la
forza.
La
possibilità
di
resistenza
delle
truppe
italiane
di
fronte
ai
tedeschi
era
di
fatto
diversa
nella
Grecia
continentale
e
sulle
isole.
Sul
continente
l’azione
dell’11ª
Armata
era
limitata
dal
fatto
che
nel
luglio
essa
era
stata
posta
sotto
il
comando
operativo
del
Gruppo
Armate
Est
del
Generale
Lohr,
e il
successo
o
insuccesso
di
qualunque
azione
di
resistenza
dipendeva
dal
rapporto
con
i
partigiani
greci.
Sulle
isole
le
possibilità
di
azione
al
momento
dell’armistizio
erano
maggiori
per
due
motivi:
la
superiorità
numerica
italiana
e
l’importanza
strategica
delle
isole,
o
almeno
di
molte
di
esse,
per
gli
alleati,
che
rendeva
possibile
un
loro
intervento.
Non
va
dimenticata
l’angoscia
alla
quale
fu
sottoposto
lo
stesso
comandante
dell’11ª
Armata
che
vedeva
crollare
giorno
per
giorno
tutte
le
illusioni
che
si
era
fatte
sulla
sincerità
dell’avversario:
anche
nei
suoi
confronti
i
tedeschi,
man
mano
che
progredivano
le
operazioni
di
disfacimento
dell’Armata,
si
rivelavano
fermi
e
decisi.
Il
18
settembre,
insieme
al
suo
Capo
di
Stato
Maggiore,
venne
posto
sotto
sorveglianza
(sotto
la
protezione
delle
forze
armate
tedesche)
e
tenuto
pronto
a
partire;
l’indomani
lasciò
Atene
in
aereo
per
Belgrado
e fu
poi
fatto
proseguire
per
il
campo
di
internamento
di
Schokken,
insieme
con
altri
generali
e
colonnelli
provenienti
da
varie
località.
Così
il
Comando
d’Armata
cessò
di
fatto
di
esistere,
mentre
centinaia
di
militari
sfuggiti
ai
rastrellamenti
riuscivano
a
occultarsi
con
il
generoso
aiuto
della
popolazione
greca.
Presidiava
l’isola
di
Cefalonia
la
Divisione
di
fanteria
da
montagna
“ACQUI”,
eccettuati
gli
elementi
dipendenti
dal
Comando
XXVI
Corpo
d’Armata,
rinforzata
da
unità
varie,
agli
ordini
del
Generale
di
Divisione
Antonio
Gandin,
Capo
di
Stato
Maggiore
il
Tenente
Colonnello
di
S.M.
Giovanni
Battista
Fioretti.
Sede
del
Comando:
Argostoli,
comprendeva:
- -
Comando
fanteria
divisionale
(Generale
di
Brigata
Edoardo
Luigi
Gherzi);
- Comando
artiglieria
divisionale
(Colonnello
Mario
Romagnoli);
- Comando
genio
divisionale;
-
17°
Reggimento
di
fanteria
nella
sua
integrità
organica
(Tenente
Colonnello
Ernesto
Cessari);
-
317°
Reggimento
di
fanteria
nella
sua
integrità
organica
(Colonnello
Ezio
Ricci);
-
2ª e
4ª
compagnia
del
CX
battaglione
mitraglieri
di
Corpo
d’Armata;
-
I
Gruppo
(100/17)
del
33°
Reggimento
artiglieria;
-
5ª
batteria
(75/13)
del
II
Gruppo
del
33°
Reggimento
artiglieria;
-
VII
Gruppo
da
105/28,
XCVI
Gruppo
da
155/36
e
CLXXXVII
Gruppo
da
155/14
dell’artiglieria
di
Corpo
d’Armata;
-
III
Gruppo
contraereo
da
75/27
C.K.;
-
2
sezioni
cannoni
da
70/15;
-
2
sezioni
mitragliere
contraeree
da
20
mm.;
-
215ª
compagnia
lavoratori
del
genio;
-
1
sezione
fotoelettriche;
-
Battaglione
genio
divisionale;
-
31ª
compagnia
genio
artieri;
-
33ª
compagnia
mista
genio
trasmissioni
radiotelegrafiche;
-
2ª
compagnia
carabinieri
del
VII
battaglione;
-
44ª
sezione
di
sanità
con
gli
ospedali
da
campo
37°,
527°e
581°;
-
8°
nucleo
chirurgico;
-
reparti
della
Marina
a
presidio
del
porto
di
Argostoli
e
per
il
controllo
del
movimento
marittimo.
Il
contingente
tedesco,
al
comando
del
Tenente
Colonnello
Hans
Barge,
dislocato
nella
zona
di
Lixuri,
era
costituito
da:
-
966°
Reggimento
di
fanteria
da
fortezza
su
due
battaglioni
(909°
e
910°);
-
202ª
batteria
semovente
su
nove
pezzi
(8
da
75 e
1 da
105);
-
1
plotone
genio
pontieri;
-
due
batterie
antinave
(in
via
di
allestimento
a
Capo
Munta
a
sud
e a
Capo
Vlioti
a
nord
dell’isola);
-
un
gruppo
pionieri
fortezza.
Vi
erano
pochi
elementi
dell’Aeronautica,
ma
nessun
reparto
aereo;
stazionavano
nelle
acque
della
baia
due
idrovolanti
da
ricognizione,
presso
il
lungo
ponte
di
Argostoli,
ma
partirono
improvvisamente
la
sera
dell’
8
settembre.
Complessivamente
gli
italiani
ammontavano
a
circa
11.500
uomini
di
truppa
e
525
Ufficiali;
i
tedeschi
avevano
circa
1.800
uomini
di
truppa
e 25
Ufficiali,
con
un
rapporto
di
forze
di 6
a 1.
L’isola
era
collegata
col
continente
greco
mediante
cavo
telefonico
sottomarino
e
due
stazioni
radio,
delle
quali
una
della
Marina.
Le
truppe
disponevano
di
10
unità
di
fuoco
(munizionamento
per
tre
o
quattro
giorni)
e 90
giorni
di
viveri.
Le
condizioni
materiali
del
soldato
a
Cefalonia
erano
quelle
comuni
a
tutte
le
truppe
italiane
in
patria
e
nei
diversi
teatri
di
operazioni,
ossia,
nella
maggior
parte
dei
casi,
al
di
sotto
della
mediocrità.
Fra
l’altro,
per
quanto
riguarda
Cefalonia
il
vestiario
era
scarso
in
special
modo
le
calzature;
era
ridotto
al
minimo
indispensabile
il
vitto
e
tuttavia
quasi
sempre
insufficiente
alle
condizioni
di
vita
del
soldato
in
guerra.
Sicché,
per
queste
e
altre
deficienze,
il
regime
disciplinare,
costretto
a
reggersi,
pur
nelle
contingenze
ordinarie,
su
uno
sproporzionato
spirito
di
sacrificio
dei
gregari,
non
presentava
sintomi
rassicuranti
di
stabilità.
Questo
insieme
di
forze
era
schierato
in
distinti
settori
nei
punti
più
idonei
per
la
difesa
dell’isola,
ma
con
inevitabili
contatti
e
frammischiamenti
favoriti
dalle
modeste
dimensioni
dell’isola
stessa
(781
kmq).
Le
dislocazioni
prevedevano:
a. Settore
nord
–
orientale:
317°
Reggimento
fanteria.
Sede
del
Comando:
Makrjotica.
b. Settore
sud
–
occidentale:
17°
Reggimento
fanteria.
Sede
del
Comando:
Keramies.
c. Settore
nord
–
occidentale:
forze
italiane
e
tedesche.
Sede
del
Comando:
Liguri.
Le
forze
militari
e
navali
italiane,
in
apposite
postazioni
dell’isola
erano
rinforzate
da
importanti
opere
di
difesa
e da
installazioni
che
erano
state
costruite
fin
dalla
metà
del
1942
con
l’obiettivo
di
contenere
un
probabile
sbarco
da
parte
degli
Alleati.
Esse
erano
costituite:
- -
dall’interruzione
della
strada
del
porto
dal
vecchio
mercato
del
pesce
fino
alla
vecchia
dogana
di
Lixuri;
- -
da
posti
di
guardia
militari
all’inizio
del
ponte
di
Argostoli
e
nella
Scuola
Agraria
della
città;
- dalla
fissazione
in
zona
militare
proibita
del
territorio
Agh-Teodoros-Faro
e da
posti
di
guardia
nelle
Vinarie
e
nella
postazione
Faraò;
- da
postazioni
di
mitragliatrici
e
cannoni
in
località
Molini
di
Argostoli;
- da
fortificazioni
nella
catena
delle
colline
Chelmata-Chiaravonta-Spilià;
- da
importanti
opere
di
difesa
nella
serie
di
colline
Faraò-Aj
Thanassi-Telegraphos.
Nell’isola
stazionavano
inoltre
press’a
poco
un
centinaio
di
funzionari
civili
impiegati
presso
il
Consorzio
agrario,
la
Banca
del
Lavoro,
il
Banco
di
Napoli
sotto
la
direzione
politica
del
console
Vittorio
Seganti
dei
Conti
di
Sarsina.
Il
movimento
di
liberazione
ellenico
era
rappresentato
a
Cefalonia
dalla
K.O.K.I.
(Kommunistikon
Organon
Kephallinia
Itaki
=
Organizzazione
comunista
Cefalonia
Itaca)
che,
al
momento
della
occupazione
italiana,
era
entrata
in
profonda
crisi
ma
si
era
ripresa
alla
notizia
dell’armistizio.
Inoltre
fin
dall’agosto
del
1943
c’era
a
Cefalonia
una
missione
alleata
inviata
dal
Quartier
Generale
del
Medio
Oriente,
che
intravedendo
dopo
lo
sbarco
angloamericano
in
Sicilia
lo
sviluppo
delle
operazioni
nell’Eptaneso
e lo
sfacelo
del
regime
fascista
italiano,
ritenne
indispensabile
seguire
da
vicino
la
situazione
in
movimento
nelle
zone
della
Grecia
occupate
dagli
italiani
inviando
degli
emissari
sul
posto.
La
componevano
il
cefalleno
luogotenente
di
cavalleria
Andrea
Galiatsatos
da
Varì
di
Erisso,
che
era
fuggito
nel
Medio
Oriente,
e il
diciannovenne
radiotelegrafista
Frixos
Sinopulos
che
subito
dopo
essere
sbarcato
nel
nord
dell’isola
si
trasferì
e si
installò
nel
villaggio
di
Varì
paese
di
origine
del
luogotenente
di
cavalleria.
Questi
entrò
subito
in
contatto
con
gli
abitanti
dei
villaggi
della
zona,
molti
dei
quali
facevano
parte
dell’EAM,
e
costituì
con
loro
una
piccola
squadra
di
informatori.
La
sera
dell’8
settembre
1943,
mentre
le
prime
ombre
calavano
dalla
catena
montagnosa
dell’Enos
infilandosi
nelle
viuzze
della
bella
Argostoli
e
tra
gli
ulivi
della
pianura
circostante,
giungeva
inattesa,
come
un
fulmine
a
ciel
sereno,
la
notizia
dell’armistizio.
Il
Comando
Marina
di
Argostoli,
alle
ore
19.00
captava
da
radio
Londra
la
notizia
che
gli
angloamericani
avevano
accettato
la
domanda
di
armistizio
avanzata
dal
Governo
Italiano
e
nonostante
la
ricerca
di
conferme
e
spiegazioni,
solo
alle
19.45
la
radio
italiana
lo
confermò
con
la
comunicazione
ufficiale
del
Maresciallo
Badoglio.
Quella
sera
si
trovava
ad
Argostoli
anche
il
Generale
Marghinotti.
Trasferitosi
il
19
agosto
con
il
suo
Comando
dell’VIII
Corpo
d’Armata
dal
Peloponneso
ad
Agrinion,
in
Etolia,
per
ricostituirsi
con
le
Divisioni
“Acqui”,
“Casale”
e la
107ª
cacciatori
tedesca
in
seguito
al
nuovo
ordinamento
dell’Armata,
stava
appunto
compiendo
un
giro
d’ispezione
alle
nuove
unità.
Conosciuta
la
notizia
dell’armistizio,
dopo
alcune
generiche
istruzioni
al
Generale
Gandin
relative
alla
sicurezza
e al
controllo
dei
reparti,
e
con
l’ovvia
riserva
di
ulteriori
ordini
appena
possibile,
si
affrettò
a
tornare
ad
Agrinion.
Invano
però
si
attesero,
quella
notte
e
poi,
le
ulteriori
notizie,
gli
ordini
precisi,
e
gli
immancabili
chiarimenti
che
tutti
e in
particolar
modo
il
Generale
Gandin
ardentemente
bramavano
(Allegato
“D”).
Intanto
la
notizia
dell’armistizio
italiano
si
diffuse
come
un
lampo
in
tutta
l’isola
la
sera
tardi
e
provocò
un
incontentabile
e
irrefrenabile
entusiasmo.
Soldati
italiani
e
marinai
con
il
popolo
delle
città
e
delle
campagne
e
anche
soldati
tedeschi
si
riversarono
tutti
insieme
affratellati,
nelle
strade
e
nelle
piazze
di
Argostoli,
di
Lixuri
e
dei
villaggi,
inneggiando
e
sparando
in
aria
e
ballando,
abbracciati
in
un’
atmosfera
di
straordinaria
gioia
mentre
le
campane
delle
chiese
suonavano
incessantemente.
Il
Generale
Gandin
ne
informava
ufficialmente
tutti
comandi
dipendenti
e
ordinava
la
consegna
delle
truppe
negli
alloggiamenti,
la
intensificazione
della
vigilanza,
il
coprifuoco
per
la
popolazione,
la
perlustrazione
notturna
delle
vie
di
Argostoli.
Alle
ore
21.30
l’11ª
Armata,
che
dalla
fine
di
luglio
era
un’
armata
mista
italo-tedesca,
inviava
alle
unità
dipendenti
il
seguente
radiogramma
n.
02/25006
che
perveniva
a
Cefalonia
verso
le
ore
23.30:"Seguito
conclusione
armistizio
truppe
italiane
11ª
Armata
seguiranno
questa
linea
di
condotta.
Se i
tedeschi
non
faranno
atti
di
violenza,
truppe
italiane
non
rivolgeranno
armi
contro
di
loro.
Truppe
italiane
non
faranno
causa
comune
con
ribelli
né
con
truppe
angloamericane
che
sbarcassero.
Reagiranno
con
la
forza
a
ogni
violenza
armata.
Ognuno
rimanga
al
suo
posto
con
compiti
attuali.
Sia
mantenuta
con
ogni
mezzo
disciplina
esemplare.
Comando
tedesco
informato
quanto
precede.
Siano
immediatamente
impartiti
ordini
di
cui
sopra
a
reparti
dipendenti.
Assicurare.
Firmato
Generale
Vecchiarelli”.
Un
ordine
che
era
chiaro
solo
su
due
punti,
ma
fondamentali:
la
Divisione
“ACQUI”
doveva
restare
a
presidiare
le
isole
di
Cefalonia
e
Corfù
e
avrebbe
reagito
a
ogni
azione
di
forza
da
parte
dei
partigiani
greci,
di
eventuali
truppe
alleate
o da
parte
dei
tedeschi.
Più
tardi
ancora
giungeva
un
ordine
di
immediato
rientro
per
il
naviglio
presente
sull’isola.
Questa
misura,
presa
in
ottemperanza
ai
comandi
inglesi,
lasciava
la
Divisione
“ACQUI”
senza
mezzi
di
movimento
via
mare.
A
seguito
dell’ordine
del
Generale
Vecchiarelli,
in
linea
con
il
dettato
del
proclama
armistiziale,
il
Generale
Gandin
ordinava
il
trasferimento
della
riserva
divisionale,
e
della
1ª,
3ª e
5ª
batteria
del
33°
artiglieria
dalle
posizioni
di
difesa
costiera
rispettivamente
a
Svoronata,
Klismata,
Mavrata,
assegnando
alle
suddette
batterie
obiettivi
in
netta
funzione
antitedesca:
controllo
del
parco
semoventi
tedeschi,
del
deposito
munizioni
tedesco,
della
banchina
porto
di
Argostoli,
ponte
di
Argostoli,
del
km
3,5
dalla
rotabile
Kardakata-Argostoli
al
fine
di
interdire
l’accesso
in
Argostoli,
sede
del
Comando
Divisione,
dove
era
già
distaccato
il
gruppo
tattico
Fauth
(circa
700
uomini)
con
una
batteria
semoventi.
E
che
tali
misure
furono
adeguate
alla
nuova
situazione
lo
si
avvertì
subito
quando
all’alba,
piccoli
nuclei
di
tedeschi
cercarono
di
penetrare
nell’interno
dello
schieramento
italiano
con
il
pretesto
di
effettuare
spostamenti
e
trasporti
abituali
di
viveri.
Questi
movimenti
furono
interdetti
o
comunque
attentamente
controllati,
in
modo
da
assicurare
la
tenuta
delle
linee
difensive
in
due
punti
essenziali.
Si
trattava
di
incidenti
apparentemente
dovuti
a
disguidi
e a
una
certa
prepotenza
di
tratto,
spesso
affiorata
da
parte
tedesca
nell’esecuzione
di
ordini,
ma
in
realtà
erano
significativi
della
tensione
e
insieme
della
cautela
con
cui
si
fronteggiavano
gli
ex-alleati.
Intanto,
per
tutta
la
notte,
le
stazioni
radio
dell’isola
invano
cercarono
di
collegarsi
con
i
Comandi
italiani
di
Atene,
Agrinion,
Corfù,
Zante,
Santa
Maura.
Impossibile
comunicare
con
l’Italia.
Era
l’isolamento
più
completo.
Nella
tarda
serata
si
tenne
ad
Argostoli
una
riunione
straordinaria
di
dirigenti
di
tutte
le
organizzazioni
dell’EAM
del
distretto
per
studiare
la
situazione.
Vi
presero
parte
25
dirigenti,
tra
i
quali
i
membri
dell’Ufficio
provinciale
dell’Organizzazione
Comunista
di
Cefalonia-Itaka
(KOKI),
i
principali
esponenti
dell’EAM
del
distretto,
delle
altre
organizzazioni
del
Fronte
di
Liberazione
Nazionale
e
anche
patrioti
antifascisti.
In
quella
riunione
si
decise
di
aiutare
con
ogni
mezzo
gli
antifascisti
italiani,
di
sviluppare
al
massimo
e
con
qualsiasi
mezzo
un
azione
di
propaganda
tra
le
truppe
italiane
sul
dovere
basilare
di
non
consegnare
le
armi
ai
tedeschi
e,
con
la
costituzione
di
un
Comitato
Militare,
di
entrare
rapidamente
in
contatto
con
la
missione
alleata
e
tramite
suo
con
il
Quartier
Generale
del
Medio
Oriente
allo
scopo
di
fissare
i
piani
per
fronteggiare
le
situazioni
che
si
sarebbero
delineate.
Contemporaneamente,
sino
dall’alba
del
giorno
9
settembre
si
iniziava,
da
parte
greca,
un
intensa
propaganda
tendente
a
spingere
gli
italiani
contro
i
tedeschi.
Venivano
diffusi
migliaia
di
volantini:
“L’Italia
e la
Grecia,
le
due
nazioni
più
civili
al
mondo,
non
possono
essere
schiave
della
barbara
Germania.
I
fratelli
greci
staranno
accanto
ai
fratelli
italiani
nella
loro
sacra
lotta
per
la
libertà
e la
civiltà.
Viva
l’Italia
una,
libera
e
indipendente”.
Il
Generale
Gandin
ne
ordinava
la
ricerca
e
distruzione
ma
l’operazione
non
si
presentava
di
facile
soluzione;
di
fatto
una
tale
propaganda
attecchì
fra
i
soldati
molti
dei
quali
non
rivedevano
la
famiglia
da
trenta
mesi
per
l’irregolare
turno
di
licenze
e
per
la
penuria
di
mezzi
navali
di
trasporto.
A
siffatte
argomentazioni
generiche
se
ne
aggiungevano
altre,
tra
le
quali
una
assai
più
concreta
e
acuta:
“bisogna
cacciare
i
pochi
tedeschi
che
sono
nell’isola;
una
volta
cacciati
i
tedeschi,
gli
inglesi,
che
sono
ormai
padroni
dell’Italia
e
del
Mediterraneo,
verranno
a
liberare
voi
e a
riportare
voi,
con
le
loro
navi,
alle
vostre
case”;
indipendentemente
dal
fatto
che
tali
argomentazioni
fossero
esclusivo
frutto
della
propaganda
greca
o
della
valutazione
affrettata
dei
soldati,
o
l’uno
e
l’altro,
esse
divennero
in
breve
comune
convinzione.
La
situazione
era
oltremodo
confusa;
correvano
voci
che
i
tedeschi
si
fossero
violentemente
impadroniti
del
comando
dell’11ª
Armata
con
sede
in
Atene
e di
quello
dell’VIII
Corpo
d’Armata
(da
cui
dipendeva
la
Divisione
“ACQUI”)
con
sede
ad
Agrinion;
la
truppa
incominciava
a
elettrizzarsi
nell’apprendere
altre
notizie
incontrollate,
secondo
le
quali
conflitti
armati
erano
in
corso
nel
vicino
continente
greco
da
parte
delle
unità
italiane
contro
le
truppe
tedesche,
resesi
queste
ultime
colpevoli
di
violenze
contro
i
soldati
italiani.