N. 127 - Luglio 2018
(CLVIII)
1948: la Legge Merlin arriva al Senato
L’inizio
del
dibattito
sulla
prostituzione
di
Alessio
Bardelli
Alla
stregua
del
modello
napoleonico,
il
Regno
d’Italia,
a
unità
conseguita,
aveva
regolamentato
la
prostituzione
con
l’estensione
del
Regolamento
Cavour
del
1860:
negli
anni
il
sistema
sarà
modificato
ma
non
alterato,
e
risulterà
ancora
più
duro
e
vessatorio
nel
periodo
fascista.
Cardini
del
sistema
regolamentista
sono,
oltre
alla
case
stesse,
la
registrazione
obbligatoria
delle
prostitute
nei
registri
di
polizia,
il
controllo
sanitario
obbligatorio
delle
stesse,
a
cui
si
affianca
la
lotta
contro
la
prostituzione
clandestina
e
l’incarceramento
di
quelle
clandestine
(o
anche
sospettate)
che
rifiutano
di
sottoporsi
a
visite
e
tentano
di
fuggire
dalle
case.
La
relazione
introduttiva
al
progetto
di
legge
è
chiara:
si
vuole
scardinare
un
sistema
schiavistico,
per
mezzo
dei
principi
e
dei
valori
di
libertà,
uguaglianza
e
dignità
della
persona
e
del
suo
lavoro,
propri
della
Costituzione:
tre
articoli
risultano
fondamentali,
il
3,
il
32,
e il
41 e
saranno
esplicitamente
citati
nella
relazione.
Obiettivo
del
progetto
è
cancellare
tre
“macchie”
di
quella
legislazione,
la
tolleranza
del
lenocinio
esercitato
contro
le
maggiorenni,
il
regime
d’eccezione
giuridica
imposto
alle
prostitute,
che
permette
innumerevoli
abusi
contro
ogni
donna
sospettata
di
prostituzione,
e
l’inefficace
sistema
di
protezione
della
salute
pubblica.
La
chiusura
delle
case
è
quindi,
si
legge
nella
relazione
introduttiva
al
progetto
di
legge,
«logica
premessa
della
lotta
contro
lo
sfruttamento
della
prostituzione
altrui
e
contro
la
tratta
delle
donne»,
così
come
il
divieto
di
registrazione
«mira
ad
impedire
la
continuazione,
sotto
qualsiasi
forma,
del
sistema
schiavistico»,
per
impedire
in
tutti
i
modi
«un
marchio
d’infamia
ad
una
categoria
di
cittadini,
di
creare
una
classe
di
paria».
I
mezzi
repressivi
che
hanno
cercato
di
frenare
il
dilagare
della
prostituzione
clandestina
rappresentano,
si
legge
sempre
nella
relazione,
una
«intollerabile
violazione
delle
leggi
di
umanità»,
e
sono
stati
sostituti
in
altri
paesi
«dal
sistema
più
razionale
ed
efficace
della
prevenzione
della
prostituzione
e
della
facilitazione
alla
riabilitazione».
Colpa
del
sistema
di
regolamentazione
è
stato
quale
di
aver
abbassato
il
«senso
morale
della
popolazione»
e di
aver
esentato
il
pubblico
«da
doveri
di
umanità
nei
loro
riguardi,
rafforzando
così
gli
istinti
di
crudeltà
e di
persecuzione».
Il
fine
ultimo
è
che,
dopo
la
chiusura,
la
mentalità
comune
possa
evolversi
a
fronte
di
un
sistema,
che
«mette
in
pericolo
la
libertà
e la
sicurezza
di
tutte
le
donne
che
automaticamente
vengono
sottoposte
alla
minaccia
delle
più
odiose
inquisizioni»,
e
che
può
autorizzare
abusi
da
parte
della
polizia,
«la
cui
impunità
è
già
assicurata
dal
silenzio
delle
vittime,
che
questi
abusi
non
denunciano
mai,
per
timore
di
scandali».
Viene
introdotta
una
nuova
forma
di
reato,
quello
di
induzione
o
adescamento
a
fine
di
prostituzione.
Prevista
inoltre
la
cancellazione
della
Polizia
del
costume
e
l’istituzione
di
un
«corpo
di
polizia
femminile
addetto
principalmente
alla
prevenzione
della
delinquenza
minorile
e
della
prostituzione».
Ciò
che
preme
maggiormente
è la
denuncia
dello
status
giuridico
della
donna
prostituta:
secondo
la
mentalità
comune,
rappresenta
un
terribile
pericolo
sociale,
in
quanto
è
potenziale
portatrice
di
malattie
ed è
costretta
a
visite
costanti;
l’uomo
invece,
cliente
e
beneficiario,
non
ha
alcun
dovere
igienico
e di
responsabilità.
La
salute
della
donna
è
ritenuta
importante
quindi
solo
in
quanto
funzionale
alla
sicurezza
maschile:
se
l’uomo
gode
di
massima
libertà,
la
donna
è
segregata
e
non
può
rifiutare
la
visita
medica,
pena
l’arresto.
È
questa
la
grande
contraddizione
che
emerge
dal
sistema
che
tiene
in
piedi
le
case
chiuse.
Se
queste
case
sono
un
luogo
“sicuro”
e
“protetto”
per
la
salute
degli
uomini,
o
almeno
questa
è
l’illusione
che
viene
offerta
loro,
non
viene
allo
stesso
tempo
tutelata
la
salute
delle
donne,
messa
in
pericolo
dall’elevatissimo
contatto
sessuale
con
i
clienti,
e
con
la
possibilità
che
il
contagio
può
essere
opera
degli
stessi
uomini
“impuniti”.
Dal
primo
progetto
di
legge
emerge
la
grande
passione
civile
e la
“sete”
di
giustizia
sociale:
nel
corso
dei
dieci
anni
di
dibattito,
la
portata
iniziale
del
progetto
si
attenuerà
e
sarà
riportata
nei
confini
di
una
più
vaga
e
generica
condanna
moralistica
alle
case
chiuse.
Nelle
successive
tappe
legislative
infatti
muteranno
due
aspetti:
il
primo
è la
critica
all’arbitrio
e
allo
strapotere
degli
organi
di
polizia,
e la
minaccia
costante
alla
privacy
e
alla
libertà
personale
che
quel
sistema
consentiva,
che
sarà
notevolmente
mitigato
nelle
fasi
successive,
anche
per
l’intervento
diretto
del
Ministro
degli
Interni
Mario
Scelba
nelle
fasi
finali
del
dibattito
parlamentare;
il
secondo
è il
tema
del
reinserimento
delle
prostitute
nella
vita
sociale
che
a
causa
anche
del
forte
ruolo
moralizzatore
esercitato
dal
partito
di
maggioranza
della
Democrazia
Cristiana,
troverà
forti
ostacoli
e
pregiudizi,
e
porterà
la
prostituta
a
essere
considerata
come
una
peccatrice
da
redimere
e
purificare,
piuttosto
che
una
donna
che
può
e
deve
essere
“recuperata”
e
reinserita
nella
società
con
un
lavoro
dignitoso.
Dei
23
articoli
del
progetto
iniziale
è
contenuta
anche
una
parte
sanitaria,
che
sarà
però
rielaborata
e
affidata
dalla
I
Commissione
alla
XI
Commissione
Sanità
del
Senato:
diventerà
la
Legge
26
luglio
1956
n.
837
Riforma
della
legislazione
vigente
per
la
profilassi
delle
malattie
veneree.
Il
primo
progetto
Merlin
dunque,
di
marcata
ispirazione
socialista,
la
cui
stesura
è
figlia
del
contributo
determinante
dell’associazionismo
femminile
“rinato”
dopo
la
guerra,
contiene
un’idea
alta
di
uguaglianza
e di
giustizia.
Non
serve
solamente
la
punizione
dei
trafficanti
e
degli
sfruttatori:
bisogna
allo
stesso
tempo
integrare
questo
aspetto
con
l’istruzione
e il
lavoro,
antidoti
necessari
alla
miseria,
alla
disperazione
e
all’ignoranza,
cause
prime,
e
spesso
sottovalutate,
della
prostituzione.
Il
nuovo
strumento
che
poteva
garantire
tutto
ciò
era
la
Costituzione.
Ma
da
sola
non
bastava:
occorreva
la
determinazione
e la
forza
di
una
classe
politica
che
sapesse
rinnovare
il
costume
in
un’Italia
che,
dopo
l’esperienza
del
fascismo,
era
ancora
fortemente
arretrata.
Riferimenti
bibliografici:
Gibson
M.,
Stato
e
prostituzione
in
Italia
1860-1915,
il
Saggiatore,
Milano
1995.