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STORIA & SPORT


N. 23 - Novembre 2009 (LIV)

4 a 3
Due partite nella leggenda

di Simone Valtieri

 

Quattro e tre non sono due numeri qualunque. Se correttamente incastrati, vanno a comporre quel suono armonioso che per almeno due generazioni di americani ed italiani riproduce la massima sinfonia ascoltabile.

 

Un suono breve, fatto di tre note che sono però in grado di dischiudere la porta del tempo e di far rivivere commoventi ricordi. Come se si stesse assaporando una “petite madeleine”, sentendo pronunciare il melodico “quattro a tre”, si può iniziare un viaggio con la memoria indietro di trenta o quaranta anni a seconda della propria appartenenza geografica. Parimenti, se si è avuta la sfortuna di trovarsi dalla parte sbagliata, lo stesso suono può riaprire ferite antiche, destare incubi mai del tutto rimossi, spalancare porte sbarrate ormai da anni con tavole di legno e tanti chiodi quante sono state le imprecazioni o le lacrime versate. 22 febbraio 1980 o 17 giugno 1970: la differenza c'è soltanto se si è americani o italiani, russi o tedeschi, vincitori o sconfitti.

17 giugno 1970. Un giorno che molti fortunati hanno segnato nel libro dei ricordi sotto la voce “io c’ero”. A Città del Messico, nello Stadio Azteca, è di scena una semifinale della Coppa del Mondo di calcio. Sul palcoscenico salgono le due nazionali europee più blasonate: da una parte la Germania Ovest di “Kaiser” Franz Beckenbauer, dall’altra l’Italia di capitan Giacinto Facchetti. Lo storico telecronista dell’evento, Nando Martellini, ammette che i tedeschi sono favoriti: Meier, Vogts, Patzke; Schnellinger, Schulz, Beckenbauer; Grabowski, Overath, Müller; Seeler e Lohr. L’Italia risponde con Albertosi, Burgnich, Facchetti; Bertini, Rosato, Cera; Domenghini, Mazzola, Boninsegna; De Sisti e Riva. Non gioca Rivera, il “Golden Boy” del calcio italiano da poco insignito del prestigioso Pallone d’oro, relegato in panchina per la presunta incompatibilità con Mazzola. Il mondiale 1970, d’altra parte, passa alla storia anche per essere quello della "staffetta", neanche tanto celata, come sarà poi in futuro tra Baggio e Del Piero, ma evidente, stabilita a tavolino e dichiarata prima del match dal commissario tecnico Ferruccio Valcareggi: all'interista Mazzola i primi quarantacinque minuti, al milanista Rivera i secondi.

La cornice è da brividi: centomila spettatori assiepati sugli spalti in trepidante attesa del fischio iniziale. A Roma e Berlino è già calato il sole quando l’arbitro, il peruviano Arturo Yamasaki Maldonado, decreta l’inizio dell’incontro. Passano poco più di sette minuti e Roberto Boninsegna, per tutti “Bonimba”, approfitta di un triangolo con Riva e scarica un velenoso sinistro alle spalle di Meier. 1-0 per l’Italia. Da qui in poi un rutilante susseguirsi di occasioni da una parte e dall’altra. Tiro di Domenghini da fuori: parato. Riva dal limite sinistro: a lato di poco. Overath in dribbling: tiro bloccato da Albertosi. Cross insidioso di Lohr: Bertini devia in calcio d’angolo. Müller in girata acrobatica: il portiere non ci arriva ma la palla è a lato. Grabowski da trenta metri: spettacolare volo di Albertosi e palla in angolo. Ed è soltanto il primo tempo. Inizia il secondo parziale ed entra Rivera sul terreno di gioco. Si ricomincia con un cross di Domenghini per Riva che in tuffo devia di testa verso la porta: parata a terra di Maier. I tedeschi sostituiscono Lohr con Libuda e Patzke con Held. Uwe Seeler calcia in rovesciata: palla alla destra del palo. Grandissima azione personale di Rivera che ruba palla, dribbla due avversari, triangola con Riva e poi tira: parato. Cross pericoloso di Domenghini: Boninsegna non ci arriva. Pallonetto di Libuda: Albertosi devia in angolo. Gran tiro a botta sicura di Overath: traversa. Azione concitata con tiro di Seeler: ancora parata del portiere. Grabowski scarica in porta dal vertice dell’area piccola, Rosato respinge ad Albertosi battuto, Seeler non riesce a calciare sulla respinta perché atterrato da un difensore ma sul pallone si avventa Müller: clamorosamente alto. Il vantaggio di misura italiano sembra resistere fino in fondo.

Dopo quasi un’ora e mezzo di emozioni, all’89’ arriva la svolta, firmata dal più italiano dei tedeschi, uno dei pochissimi calciatori presenti in Messico che non giocava per un club della propria nazione ma che era emigrato in cerca di fortuna verso altri lidi, romani prima e milanesi poi. Karl-Heinz Schnellinger si ritrova completamente smarcato a centro area ed in spaccata devia in rete un cross a campanile di Grabowski. E’ il pareggio, siglato da un giocatore che di gol in carriera ne aveva fatti ben pochi. Al Milan in 222 incontri ufficiali non vedrà la porta neppure in un’occasione, forse perché, ogni volta che superava la linea di metà campo, il “Paron” Nereo Rocco gli gridava: “Torna indietro, Volkswagen!”. Fatto sta che “Carletto”, come lo chiamava Gianni Brera, sigla all’Azteca il suo primo ed unico gol con la maglia della sua nazionale, riaprendo una partita che si avviava ormai alla conclusione. “Per fortuna!”, diciamo noi col senno di poi, soprassedendo sulle coronarie che quel giorno hanno rischiato di saltare a milioni di tifosi. Perché, se i primi novanta minuti erano già stati memorabili, gli ultimi trenta saranno da leggenda.

“A ogni rimettere la palla al centro, il foglio esce dalla macchina da scrivere per essere stracciato. Noi abbiamo rischiato l’infarto, non per scherzo”. Scrive sempre Brera su "Il Giorno". L’Italia sostituisce Rosato con Poletti e si ricomincia. Albertosi deve subito impegnarsi su un colpo di testa ravvicinato di Müller deviando in angolo, ma nulla può pochi secondi più tardi, quando su un avventato retropassaggio di petto da parte di Cera, vede inserirsi tra se ed il pallone il rapace Gerd Müller. La palla, appena sfiorata dal bomber tedesco, rotola beffarda in porta. Non sono passati neanche tre minuti dall’inizio dei tempi supplementari e la Germania Ovest mette la testa avanti per la prima volta. Cinque minuti dopo, al 97’, Rivera calcia un pallone morbido in area che carambola su un difensore tedesco prima di finire tra i piedi di Burgnich: è il pareggio, un fulmine a ciel sereno per i tedeschi, che da qualche minuto dominavano ormai il gioco. E non è finita qui. Passano altri sei minuti quando Riva, imbeccato al limite dell’area da Domenghini, fa fuori un difensore e tira un rasoterra angolato che si infila alle spalle di Meier. E’ il 3-2 che chiude il primo tempo supplementare.

Alla ripresa delle ostilità il protagonista è Uwe Seeler che prima fa le prove generali facendosi deviare oltre la traversa un colpo di testa su cross di Overath, poi, sugli sviluppi del calcio d’angolo, ispira il gol del pareggio con una testata ben calibrata che Müller devia in porta. Albertosi non può nulla e Rivera, sulla linea di porta, si fa prendere in controtempo dalla traiettoria "telefonata" del pallone, non riuscendo ad evitare la rete. Il "Golden Boy" deve farsi perdonare ed un minuto dopo recita la scena madre di tutto l’incontro, quella che resterà scolpita per sempre nella memoria di milioni di appassionati: alla ripresa del gioco capitan Facchetti lancia Boninsegna sulla sinistra. "Bonimba" si libera di Schulz, arriva sul fondo e crossa rasoterra al centro dell’area. Rivera si fa trovare pronto all’appuntamento con la storia e firma il tutto con il tocco del 4-3. “Che meravigliosa partita ascoltatori italiani, non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori per queste emozioni che ci offrono” sono le storiche parole di Martellini che descrivono lo stato d’animo di una nazione intera, mentre sul terreno di gioco Rivera si abbandona nell’esultanza tra le braccia del suo compagno Gigi Riva. “Se non avesse segnato l’avremmo rinchiuso in un armadio dell’Azteca”, dirà poi Riva.

In quella magica serata fuori dallo stadio accade di tutto. Succede che alle tre di notte una nazione intera si ritrovi spontaneamente in piazza a festeggiare e sfogare le tensioni di 120 minuti di passione; che vicini di casa affacciati alle finestre si domandino tra loro se fossero ancora tutti vivi; che 23 detenuti del carcere messicano di Tuxtla riescano ad evadere approfittando del fatto che le guardie erano distratte dall’incredibile spettacolo dell’Azteca. Tanto fu l’eco e la risonanza suscitata in tutto il mondo dalla semifinale di Città del Messico che verrà affissa una targa commemorativa all’ingresso dello stadio, su cui in spagnolo si legge: “Lo stadio Azteca rende omaggio alle selezioni di Italia e Germania, protagonisti nel Mondiale del 1970 della partita del secolo”. Poco importa se pochi giorni dopo il Brasile ci risveglierà dal sogno con un sonoro 4-1, da qui in poi il tutto sarà comunque solo un dolce ricordo, corroborato dall’enorme produzione di materiale ispirato all’incontro di semifinale: Libri, riviste, documentari, film ed anche una commedia teatrale per consegnare alla storia una serata che Gianni Brera descrive come esemplare nel raffigurare l’arte del calcio, nella sua “imperfezione, genialità e vulnerabilità”.

Se Italia-Germania, la "madre di tutte le partite", era un match aperto a ogni risultato, quello che si verifica dieci anni dopo all’Olympic Fieldhouse di Lake Placid ha dell’incredibile in quanto il pronostico era a senso unico. Parliamo di hockey su ghiaccio, di Olimpiadi e di guerra fredda: Stati Uniti-Unione Sovietica del 22 febbraio 1980 a Lake Placid. E’ bene specificare la data per due motivi: il primo, politico, serve ad inquadrare la partita in un contesto storico colmo di incertezze e preoccupazioni, causate dall’invasione dell’Afghanistan da parte dell’armata rossa che porterà, tra l’altro, al boicottaggio dei giochi olimpici estivi di Mosca 1980 da parte degli americani: l'altro, sportivo, visto che il match in questione non è da confondere con quello disputato pochi giorni prima dell’inizio dei giochi olimpici, al Madison Square Garden di New York il 9 febbraio, quando l’amichevole tra le due formazioni si era conclusa con l'eloquente punteggio di 10-3 in favore dei maestri sovietici.

Tale squilibrio nei pronostici e nei precedenti tra le due squadre è spiegabile in maniera molto semplice. La formazione schierata dagli statunitensi è composta da ragazzi, provenienti per la maggior parte dai college o dalle leghe minori, vista l’impossibilità di inviare alle Olimpiadi i giocatori professionisti della Lega Nazionale. Lo squadrone sovietico, invece, non avendo in patria un campionato professionistico, può disporre di una formazione impressionante che schiera tra le sue linee alcuni dei giocatori più forti di sempre, tra cui il portiere Vladislav Tretiak e il capitano Boris Mikhailov, e che da tre Olimpiadi non scende dal gradino più alto del podio. Ad allenare questo gruppo di ventenni viene chiamato Herb Brooks, ex giocatore che in carriera aveva il grande rimpianto di essere stato tagliato dalla rappresentativa olimpica pochi giorni prima dei giochi di Squaw Valley 1960, in cui il team statunitense vinse l’oro. Una ferita non rimarginata neanche con le due successive partecipazioni olimpiche a Innsbruck nel ’64 e a Grenoble nel ’68.

Brooks trovò comunque una sua dimensione quando iniziò ad allenare l’università di Minnesota, alla guida della quale vinse tre campionati NCAA (il torneo universitario). Nel 1979, dopo aver conquistato il suo terzo titolo, viene chiamato ad allenare la nazionale americana. In soli sette mesi, grazie a poche e chiare convinzioni, Brooks forgia una squadra veloce, resistente e con un numero ridotto di schemi, ma ben congeniati. Il resto ce lo mette la capacità di motivare i suoi ragazzi e di renderli un gruppo. A questo contribuisce il suo modo di comunicare originale e ricco di metafore, con frasi semplici che restano impresse nella memoria dei suoi giocatori: “Non avete abbastanza talento per pensare di vincere basandovi solo sul talento”; “ognuno è importante, ma non così importante”; “giocate ogni giorno peggio e oggi state giocando come la prossima settimana”; “qui importa quello che c’è scritto sul davanti della maglia (USA, ndr) e non sulla schiena (il proprio nome, ndr)”. In pratica Brooks tiene sulla graticola i suoi giocatori, pretendendo sempre il massimo. Il modo per rivaleggiare alla pari con i più blasonati team europei (Svezia, Finlandia, Cecoslovacchia, Urss) è semplice: avere più fiato degli avversari, essere più forti mentalmente e ripetere a memoria gli schemi provati in allenamento. Per questo i selezionati per le olimpiadi passeranno sette mesi allenandosi come marines sotto la sua guida e ne usciranno trasformati come uomini e come giocatori.

Il capitano della squadra è anche il più “anziano”: il venticinquenne Mike Eruzione, dalle chiare origini italiane. Nato a Winthrop, Massachusetts, al liceo praticava ad alto livello un vario numero di discipline tra cui basket e baseball. Gioca nella Boston University, come anche il portiere titolare Jim Craig e un altro paio di giocatori (Dave Silk e Jack O’Callahan). Mark Johnson è il centro più talentuoso e proviene dai Wisconsin Badgers, Dave Christian dai Fighting Sioux del North Dakota mentre Mark Wells e il difensore Ken Morrow sono dei Green Falcons di Bowling Green. Tutti gli altri giocatori provengono dal Minnesota: due da Duluth (Hohn Harrington e Mark Pavelich) e ben nove dai Golden Gophers della University of Minnesota, la squadra di coach Brooks. Mike Ramsey, Bill Baker, Neal Broten, Steve Christoff, Steve Janaszak, Rob McClanahan, Buzz Schneider, Eric Strobel e Phil Verchota i loro nomi. Questi sono I diciotto giocatori che scendono sul ghiaccio olimpico di Lake Placid il 22 febbraio 1980 contro l'Urss.

Prima di quella partita, nel girone eliminatorio, gli americani sorprendono e a tratti impressionano per la loro solidità mentale che li porta a rimontare o vincere in ben quattro incontri su cinque. L’unico pareggio arriva nel match d’esordio con la Svezia, grazie al gol del 2-2 realizzato dal difensore Bill Baker a 27 secondi dal termine, ma la classifica li vedrà comunque dietro gli scandinavi a causa di una peggiore differenza reti. Per il resto i ragazzini terribili ottengono solo vittorie, anche molto nette, come quella sorprendente e prestigiosa contro la fortissima Cecoslovacchia per 7-3 o contro l’ostica Germania Ovest per 4-2. Il 7-2 contro la Romania e il 5-1 contro la Norvegia sono gli altri punteggi che assicurano il passaggio del turno alla formazione di casa. Già qui si potrebbe parlare di miracolo: una formazione costruita in sette mesi con studenti e dilettanti che sbaraglia la concorrenza della vecchia scuola europea e va a sfidare l’Unione Sovietica nel girone finale. I media si erano interessati alla squadra soltanto dopo la vittoria contro i cecoslovacchi. Prima, complice anche la sonora sconfitta in amichevole a cinque giorni dalla cerimonia d’apertura rimediata dai sovietici, l’interesse era scemato e i pronostici davano la formazione a stelle e strisce come eliminata al primo turno.

Poi arriva il 22 febbraio. Herb Brooks e i suoi ragazzi sembrano essere i soli a credere nell’impresa contro l’Urss, anche quando, dopo nove minuti di gioco, i sovietici passano in vantaggio con gol di Krutov. Poco male: gli americani sono avvezzi alle rimonte e sono ben motivati. Coach Brooks era un grande estimatore della scuola sovietica, verso la quale nutriva rispetto e da cui traeva ispirazione per i suoi schemi. Era convinto che l’unico modo per batterli fosse quello di attaccarli per tutti e sessanta i minuti dell’incontro, senza mai sentirsi inferiori. Per spronare i suoi ragazzi aveva dunque sdrammatizzato la situazione con una delle sue trovate ad effetto. Si era presentato durante gli allenamenti con una foto del fuoriclasse Boris Mikhailov, caratterizzata da un'evidente somiglianza con l'attore comico Stanlio, e si era rivolto alla sua squadra chiedendo: “Voi siete capaci di battere Stan Laurel, vero?”. Così, grazie alle parate a volte incredibili di Jim Craig, gli Stati Uniti tengono botta e raggiungono il pareggio appena cinque minuti più tardi con Schneider. Tre minuti dopo è ancora lo squadrone rosso ad andare in vantaggio con Makarov, ma ad un secondo dallo scadere del primo tempo Mark Johnson trova il guizzo che riporta in parità i suoi. Irritato dalle due marcature subite, il tecnico sovietico Viktor Tikhonov scelse sorprendentemente di sostituire Tretiak, il miglior portiere del mondo, facendo entrare al suo posto il sostituto Vladimir Myshkin. La scelta sembra dargli ragione, visto che dopo due minuti Maltsev riporta in vantaggio i sovietici e che per tutto il secondo tempo nessuno violerà la porta russa. Neanche la squadra di Tikhonov riuscirà però a segnare ancora nella porta americana, difesa da un Jim Craig in giornata di grazia.

A metà del terzo tempo, sorpresi dalla preparazione fisica degli americani, i russi, stremati, allargano le maglie difensive e Mark Johnson riesce a riportare per la terza volta in parità la partita. E’ il momento di affondare il colpo del ko. Due minuti dopo, il capitano Mike Eruzione esce dalla panchina, si inserisce nell’azione in corso e coglie l’assist di Pavelich spedendo il dischetto alle spalle di Myshkin: è il gol del 4-3. Vengono in mente a questo punto le parole dell’editorialista del New York Times, Dave Anderson, che aveva scritto il giorno prima della gara: “A meno che il ghiaccio non si sciolga, o a meno che la squadra americana non compia un miracolo (…) ci si attende che i russi vincano la medaglia d’oro per la sesta volta negli ultimi sette tornei”. E’ forse per questo motivo che durante gli ultimi emozionanti secondi della partita, lo storico telecronista della ABC, Al Michaels, si scatena in un concitato conto alla rovescia concluso con la celebre frase: “Do you believe in miracles? Yes!”.

Da quel momento in poi quella partita diventa “La” partita, diventa il miracolo americano, diventa per tutti “Miracle on Ice”. Pochi ricordano che la vera sfida decisiva fu giocata due giorni dopo contro la Finlandia e che se gli americani l’avessero persa non sarebbero finiti neanche sul podio. In ogni caso, nonostante la percezione comune degli statunitensi che già festeggiavano come se quella con l'Urss fosse stata la partita determinante, i ragazzi di Herb Brooks batteranno anche i finnici per 4-2, dopo essere stati in svantaggio due volte, regalando la medaglia d’oro e la vittoria della "guerra ghiacciata” agli Stati Uniti. Alcuni di quei ragazzi passeranno al professionismo o continueranno a giocare nelle loro squadre. Il capitano Mike Eruzione deciderà di smettere, convinto che nessun altro titolo o torneo potesse dargli una gioia lontanamente paragonabile a quella provata quella sera a Lake Placid.

Durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Salt Lake City 2002 tutti i ragazzi di quella formazione si ritroveranno per accendere, in un emozionante momento rievocativo, il tripode olimpico. Un anno dopo Herb Brooks morirà in un incidente stradale e verrà inserito postumo nella Hall of Fame dell’Hockey. I due eventi, sebbene partoriscano emozioni opposte, sono serviti a molti per ricordare e far conoscere alle nuove generazioni cosa accadde quel giorno di febbraio. La morte dello storico allenatore della nazionale statunitense avvenne durante il periodo in cui il regista Gavin O'Connor stava girando il film "Miracle", incentrato proprio sull'impresa del 1980, in cui un magistrale Kurt Russell interpreta il ruolo dell'allenatore. Quindi il vero Herbert Paul Brooks non vide mai quell'intensa pellicola, che a lui è stata immediatamente dedicata. E al termine dei titoli di coda del film, compare la suggestiva frase "He never saw it, he lived it" (non lo ha mai visto, lo ha vissuto).

Un altro film sull'argomento, intitolato "Miracle on ice" ma di minore successo, era uscito nel 1981. Ben due realizzazioni cinematografiche su una partita olimpica di hockey su ghiaccio stanno a significare l'importanza, per una nazione intera e per lo sport, di ciò che accadde quel 22 febbraio di quasi trenta anni fa, ben riassunto dalla frase di Dave Ogrean, ex presidente della lega hockeistica americana: “Tutti noi sappiamo benissimo dove ci trovavamo quando fu ucciso John Kennedy, quando l’uomo mise piede sulla Luna e quando gli USA batterono l’Unione Sovietica a Lake Placid”.

 

Ma l'impresa dei ragazzi di Herb Brooks è portatrice di un insegnamento ancor più importante: non esistono imprese e risultati impossibili da raggiungere, nello sport come nella vita. Basta impegnarsi, lavorare, comportarsi bene. Basta crederci.



 

 

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