.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
|
N. 23 - Novembre 2009
(LIV)
4 a 3
Due partite nella leggenda
di Simone Valtieri
Quattro
e
tre
non
sono
due
numeri
qualunque.
Se
correttamente
incastrati,
vanno
a
comporre
quel
suono
armonioso
che
per
almeno
due
generazioni
di
americani
ed
italiani
riproduce
la
massima
sinfonia
ascoltabile.
Un
suono
breve,
fatto
di
tre
note
che
sono
però
in
grado
di
dischiudere
la
porta
del
tempo
e di
far
rivivere
commoventi
ricordi.
Come
se
si
stesse
assaporando
una
“petite
madeleine”,
sentendo
pronunciare
il
melodico
“quattro
a
tre”,
si
può
iniziare
un
viaggio
con
la
memoria
indietro
di
trenta
o
quaranta
anni
a
seconda
della
propria
appartenenza
geografica.
Parimenti,
se
si è
avuta
la
sfortuna
di
trovarsi
dalla
parte
sbagliata,
lo
stesso
suono
può
riaprire
ferite
antiche,
destare
incubi
mai
del
tutto
rimossi,
spalancare
porte
sbarrate
ormai
da
anni
con
tavole
di
legno
e
tanti
chiodi
quante
sono
state
le
imprecazioni
o le
lacrime
versate.
22
febbraio
1980
o 17
giugno
1970:
la
differenza
c'è
soltanto
se
si è
americani
o
italiani,
russi
o
tedeschi,
vincitori
o
sconfitti.
17
giugno
1970.
Un
giorno
che
molti
fortunati
hanno
segnato
nel
libro
dei
ricordi
sotto
la
voce
“io
c’ero”.
A
Città
del
Messico,
nello
Stadio
Azteca,
è di
scena
una
semifinale
della
Coppa
del
Mondo
di
calcio.
Sul
palcoscenico
salgono
le
due
nazionali
europee
più
blasonate:
da
una
parte
la
Germania
Ovest
di
“Kaiser”
Franz
Beckenbauer,
dall’altra
l’Italia
di
capitan
Giacinto
Facchetti.
Lo
storico
telecronista
dell’evento,
Nando
Martellini,
ammette
che
i
tedeschi
sono
favoriti:
Meier,
Vogts,
Patzke;
Schnellinger,
Schulz,
Beckenbauer;
Grabowski,
Overath,
Müller;
Seeler
e
Lohr.
L’Italia
risponde
con
Albertosi,
Burgnich,
Facchetti;
Bertini,
Rosato,
Cera;
Domenghini,
Mazzola,
Boninsegna;
De
Sisti
e
Riva.
Non
gioca
Rivera,
il
“Golden
Boy”
del
calcio
italiano
da
poco
insignito
del
prestigioso
Pallone
d’oro,
relegato
in
panchina
per
la
presunta
incompatibilità
con
Mazzola.
Il
mondiale
1970,
d’altra
parte,
passa
alla
storia
anche
per
essere
quello
della
"staffetta",
neanche
tanto
celata,
come
sarà
poi
in
futuro
tra
Baggio
e
Del
Piero,
ma
evidente,
stabilita
a
tavolino
e
dichiarata
prima
del
match
dal
commissario
tecnico
Ferruccio
Valcareggi:
all'interista
Mazzola
i
primi
quarantacinque
minuti,
al
milanista
Rivera
i
secondi.
La
cornice
è da
brividi:
centomila
spettatori
assiepati
sugli
spalti
in
trepidante
attesa
del
fischio
iniziale.
A
Roma
e
Berlino
è
già
calato
il
sole
quando
l’arbitro,
il
peruviano
Arturo
Yamasaki
Maldonado,
decreta
l’inizio
dell’incontro.
Passano
poco
più
di
sette
minuti
e
Roberto
Boninsegna,
per
tutti
“Bonimba”,
approfitta
di
un
triangolo
con
Riva
e
scarica
un
velenoso
sinistro
alle
spalle
di
Meier.
1-0
per
l’Italia.
Da
qui
in
poi
un
rutilante
susseguirsi
di
occasioni
da
una
parte
e
dall’altra.
Tiro
di
Domenghini
da
fuori:
parato.
Riva
dal
limite
sinistro:
a
lato
di
poco.
Overath
in
dribbling:
tiro
bloccato
da
Albertosi.
Cross
insidioso
di
Lohr:
Bertini
devia
in
calcio
d’angolo.
Müller
in
girata
acrobatica:
il
portiere
non
ci
arriva
ma
la
palla
è a
lato.
Grabowski
da
trenta
metri:
spettacolare
volo
di
Albertosi
e
palla
in
angolo.
Ed è
soltanto
il
primo
tempo.
Inizia
il
secondo
parziale
ed
entra
Rivera
sul
terreno
di
gioco.
Si
ricomincia
con
un
cross
di
Domenghini
per
Riva
che
in
tuffo
devia
di
testa
verso
la
porta:
parata
a
terra
di
Maier.
I
tedeschi
sostituiscono
Lohr
con
Libuda
e
Patzke
con
Held.
Uwe
Seeler
calcia
in
rovesciata:
palla
alla
destra
del
palo.
Grandissima
azione
personale
di
Rivera
che
ruba
palla,
dribbla
due
avversari,
triangola
con
Riva
e
poi
tira:
parato.
Cross
pericoloso
di
Domenghini:
Boninsegna
non
ci
arriva.
Pallonetto
di
Libuda:
Albertosi
devia
in
angolo.
Gran
tiro
a
botta
sicura
di
Overath:
traversa.
Azione
concitata
con
tiro
di
Seeler:
ancora
parata
del
portiere.
Grabowski
scarica
in
porta
dal
vertice
dell’area
piccola,
Rosato
respinge
ad
Albertosi
battuto,
Seeler
non
riesce
a
calciare
sulla
respinta
perché
atterrato
da
un
difensore
ma
sul
pallone
si
avventa
Müller:
clamorosamente
alto.
Il
vantaggio
di
misura
italiano
sembra
resistere
fino
in
fondo.
Dopo
quasi
un’ora
e
mezzo
di
emozioni,
all’89’
arriva
la
svolta,
firmata
dal
più
italiano
dei
tedeschi,
uno
dei
pochissimi
calciatori
presenti
in
Messico
che
non
giocava
per
un
club
della
propria
nazione
ma
che
era
emigrato
in
cerca
di
fortuna
verso
altri
lidi,
romani
prima
e
milanesi
poi.
Karl-Heinz
Schnellinger
si
ritrova
completamente
smarcato
a
centro
area
ed
in
spaccata
devia
in
rete
un
cross
a
campanile
di
Grabowski.
E’
il
pareggio,
siglato
da
un
giocatore
che
di
gol
in
carriera
ne
aveva
fatti
ben
pochi.
Al
Milan
in
222
incontri
ufficiali
non
vedrà
la
porta
neppure
in
un’occasione,
forse
perché,
ogni
volta
che
superava
la
linea
di
metà
campo,
il
“Paron”
Nereo
Rocco
gli
gridava:
“Torna
indietro,
Volkswagen!”.
Fatto
sta
che
“Carletto”,
come
lo
chiamava
Gianni
Brera,
sigla
all’Azteca
il
suo
primo
ed
unico
gol
con
la
maglia
della
sua
nazionale,
riaprendo
una
partita
che
si
avviava
ormai
alla
conclusione.
“Per
fortuna!”,
diciamo
noi
col
senno
di
poi,
soprassedendo
sulle
coronarie
che
quel
giorno
hanno
rischiato
di
saltare
a
milioni
di
tifosi.
Perché,
se i
primi
novanta
minuti
erano
già
stati
memorabili,
gli
ultimi
trenta
saranno
da
leggenda.
“A
ogni
rimettere
la
palla
al
centro,
il
foglio
esce
dalla
macchina
da
scrivere
per
essere
stracciato.
Noi
abbiamo
rischiato
l’infarto,
non
per
scherzo”.
Scrive
sempre
Brera
su
"Il
Giorno".
L’Italia
sostituisce
Rosato
con
Poletti
e si
ricomincia.
Albertosi
deve
subito
impegnarsi
su
un
colpo
di
testa
ravvicinato
di
Müller
deviando
in
angolo,
ma
nulla
può
pochi
secondi
più
tardi,
quando
su
un
avventato
retropassaggio
di
petto
da
parte
di
Cera,
vede
inserirsi
tra
se
ed
il
pallone
il
rapace
Gerd
Müller.
La
palla,
appena
sfiorata
dal
bomber
tedesco,
rotola
beffarda
in
porta.
Non
sono
passati
neanche
tre
minuti
dall’inizio
dei
tempi
supplementari
e la
Germania
Ovest
mette
la
testa
avanti
per
la
prima
volta.
Cinque
minuti
dopo,
al
97’,
Rivera
calcia
un
pallone
morbido
in
area
che
carambola
su
un
difensore
tedesco
prima
di
finire
tra
i
piedi
di
Burgnich:
è il
pareggio,
un
fulmine
a
ciel
sereno
per
i
tedeschi,
che
da
qualche
minuto
dominavano
ormai
il
gioco.
E
non
è
finita
qui.
Passano
altri
sei
minuti
quando
Riva,
imbeccato
al
limite
dell’area
da
Domenghini,
fa
fuori
un
difensore
e
tira
un
rasoterra
angolato
che
si
infila
alle
spalle
di
Meier.
E’
il
3-2
che
chiude
il
primo
tempo
supplementare.
Alla
ripresa
delle
ostilità
il
protagonista
è
Uwe
Seeler
che
prima
fa
le
prove
generali
facendosi
deviare
oltre
la
traversa
un
colpo
di
testa
su
cross
di
Overath,
poi,
sugli
sviluppi
del
calcio
d’angolo,
ispira
il
gol
del
pareggio
con
una
testata
ben
calibrata
che
Müller
devia
in
porta.
Albertosi
non
può
nulla
e
Rivera,
sulla
linea
di
porta,
si
fa
prendere
in
controtempo
dalla
traiettoria
"telefonata"
del
pallone,
non
riuscendo
ad
evitare
la
rete.
Il
"Golden
Boy"
deve
farsi
perdonare
ed
un
minuto
dopo
recita
la
scena
madre
di
tutto
l’incontro,
quella
che
resterà
scolpita
per
sempre
nella
memoria
di
milioni
di
appassionati:
alla
ripresa
del
gioco
capitan
Facchetti
lancia
Boninsegna
sulla
sinistra.
"Bonimba"
si
libera
di
Schulz,
arriva
sul
fondo
e
crossa
rasoterra
al
centro
dell’area.
Rivera
si
fa
trovare
pronto
all’appuntamento
con
la
storia
e
firma
il
tutto
con
il
tocco
del
4-3.
“Che
meravigliosa
partita
ascoltatori
italiani,
non
ringrazieremo
mai
abbastanza
i
nostri
giocatori
per
queste
emozioni
che
ci
offrono”
sono
le
storiche
parole
di
Martellini
che
descrivono
lo
stato
d’animo
di
una
nazione
intera,
mentre
sul
terreno
di
gioco
Rivera
si
abbandona
nell’esultanza
tra
le
braccia
del
suo
compagno
Gigi
Riva.
“Se
non
avesse
segnato
l’avremmo
rinchiuso
in
un
armadio
dell’Azteca”,
dirà
poi
Riva.
In
quella
magica
serata
fuori
dallo
stadio
accade
di
tutto.
Succede
che
alle
tre
di
notte
una
nazione
intera
si
ritrovi
spontaneamente
in
piazza
a
festeggiare
e
sfogare
le
tensioni
di
120
minuti
di
passione;
che
vicini
di
casa
affacciati
alle
finestre
si
domandino
tra
loro
se
fossero
ancora
tutti
vivi;
che
23
detenuti
del
carcere
messicano
di
Tuxtla
riescano
ad
evadere
approfittando
del
fatto
che
le
guardie
erano
distratte
dall’incredibile
spettacolo
dell’Azteca.
Tanto
fu
l’eco
e la
risonanza
suscitata
in
tutto
il
mondo
dalla
semifinale
di
Città
del
Messico
che
verrà
affissa
una
targa
commemorativa
all’ingresso
dello
stadio,
su
cui
in
spagnolo
si
legge:
“Lo
stadio
Azteca
rende
omaggio
alle
selezioni
di
Italia
e
Germania,
protagonisti
nel
Mondiale
del
1970
della
partita
del
secolo”.
Poco
importa
se
pochi
giorni
dopo
il
Brasile
ci
risveglierà
dal
sogno
con
un
sonoro
4-1,
da
qui
in
poi
il
tutto
sarà
comunque
solo
un
dolce
ricordo,
corroborato
dall’enorme
produzione
di
materiale
ispirato
all’incontro
di
semifinale:
Libri,
riviste,
documentari,
film
ed
anche
una
commedia
teatrale
per
consegnare
alla
storia
una
serata
che
Gianni
Brera
descrive
come
esemplare
nel
raffigurare
l’arte
del
calcio,
nella
sua
“imperfezione,
genialità
e
vulnerabilità”.
Se
Italia-Germania,
la
"madre
di
tutte
le
partite",
era
un
match
aperto
a
ogni
risultato,
quello
che
si
verifica
dieci
anni
dopo
all’Olympic
Fieldhouse
di
Lake
Placid
ha
dell’incredibile
in
quanto
il
pronostico
era
a
senso
unico.
Parliamo
di
hockey
su
ghiaccio,
di
Olimpiadi
e di
guerra
fredda:
Stati
Uniti-Unione
Sovietica
del
22
febbraio
1980
a
Lake
Placid.
E’
bene
specificare
la
data
per
due
motivi:
il
primo,
politico,
serve
ad
inquadrare
la
partita
in
un
contesto
storico
colmo
di
incertezze
e
preoccupazioni,
causate
dall’invasione
dell’Afghanistan
da
parte
dell’armata
rossa
che
porterà,
tra
l’altro,
al
boicottaggio
dei
giochi
olimpici
estivi
di
Mosca
1980
da
parte
degli
americani:
l'altro,
sportivo,
visto
che
il
match
in
questione
non
è da
confondere
con
quello
disputato
pochi
giorni
prima
dell’inizio
dei
giochi
olimpici,
al
Madison
Square
Garden
di
New
York
il 9
febbraio,
quando
l’amichevole
tra
le
due
formazioni
si
era
conclusa
con
l'eloquente
punteggio
di
10-3
in
favore
dei
maestri
sovietici.
Tale
squilibrio
nei
pronostici
e
nei
precedenti
tra
le
due
squadre
è
spiegabile
in
maniera
molto
semplice.
La
formazione
schierata
dagli
statunitensi
è
composta
da
ragazzi,
provenienti
per
la
maggior
parte
dai
college
o
dalle
leghe
minori,
vista
l’impossibilità
di
inviare
alle
Olimpiadi
i
giocatori
professionisti
della
Lega
Nazionale.
Lo
squadrone
sovietico,
invece,
non
avendo
in
patria
un
campionato
professionistico,
può
disporre
di
una
formazione
impressionante
che
schiera
tra
le
sue
linee
alcuni
dei
giocatori
più
forti
di
sempre,
tra
cui
il
portiere
Vladislav
Tretiak
e il
capitano
Boris
Mikhailov,
e
che
da
tre
Olimpiadi
non
scende
dal
gradino
più
alto
del
podio.
Ad
allenare
questo
gruppo
di
ventenni
viene
chiamato
Herb
Brooks,
ex
giocatore
che
in
carriera
aveva
il
grande
rimpianto
di
essere
stato
tagliato
dalla
rappresentativa
olimpica
pochi
giorni
prima
dei
giochi
di
Squaw
Valley
1960,
in
cui
il
team
statunitense
vinse
l’oro.
Una
ferita
non
rimarginata
neanche
con
le
due
successive
partecipazioni
olimpiche
a
Innsbruck
nel
’64
e a
Grenoble
nel
’68.
Brooks
trovò
comunque
una
sua
dimensione
quando
iniziò
ad
allenare
l’università
di
Minnesota,
alla
guida
della
quale
vinse
tre
campionati
NCAA
(il
torneo
universitario).
Nel
1979,
dopo
aver
conquistato
il
suo
terzo
titolo,
viene
chiamato
ad
allenare
la
nazionale
americana.
In
soli
sette
mesi,
grazie
a
poche
e
chiare
convinzioni,
Brooks
forgia
una
squadra
veloce,
resistente
e
con
un
numero
ridotto
di
schemi,
ma
ben
congeniati.
Il
resto
ce
lo
mette
la
capacità
di
motivare
i
suoi
ragazzi
e di
renderli
un
gruppo.
A
questo
contribuisce
il
suo
modo
di
comunicare
originale
e
ricco
di
metafore,
con
frasi
semplici
che
restano
impresse
nella
memoria
dei
suoi
giocatori:
“Non
avete
abbastanza
talento
per
pensare
di
vincere
basandovi
solo
sul
talento”;
“ognuno
è
importante,
ma
non
così
importante”;
“giocate
ogni
giorno
peggio
e
oggi
state
giocando
come
la
prossima
settimana”;
“qui
importa
quello
che
c’è
scritto
sul
davanti
della
maglia
(USA,
ndr)
e
non
sulla
schiena
(il
proprio
nome,
ndr)”.
In
pratica
Brooks
tiene
sulla
graticola
i
suoi
giocatori,
pretendendo
sempre
il
massimo.
Il
modo
per
rivaleggiare
alla
pari
con
i
più
blasonati
team
europei
(Svezia,
Finlandia,
Cecoslovacchia,
Urss)
è
semplice:
avere
più
fiato
degli
avversari,
essere
più
forti
mentalmente
e
ripetere
a
memoria
gli
schemi
provati
in
allenamento.
Per
questo
i
selezionati
per
le
olimpiadi
passeranno
sette
mesi
allenandosi
come
marines
sotto
la
sua
guida
e ne
usciranno
trasformati
come
uomini
e
come
giocatori.
Il
capitano
della
squadra
è
anche
il
più
“anziano”:
il
venticinquenne
Mike
Eruzione,
dalle
chiare
origini
italiane.
Nato
a
Winthrop,
Massachusetts,
al
liceo
praticava
ad
alto
livello
un
vario
numero
di
discipline
tra
cui
basket
e
baseball.
Gioca
nella
Boston
University,
come
anche
il
portiere
titolare
Jim
Craig
e un
altro
paio
di
giocatori
(Dave
Silk
e
Jack
O’Callahan).
Mark
Johnson
è il
centro
più
talentuoso
e
proviene
dai
Wisconsin
Badgers,
Dave
Christian
dai
Fighting
Sioux
del
North
Dakota
mentre
Mark
Wells
e il
difensore
Ken
Morrow
sono
dei
Green
Falcons
di
Bowling
Green.
Tutti
gli
altri
giocatori
provengono
dal
Minnesota:
due
da
Duluth
(Hohn
Harrington
e
Mark
Pavelich)
e
ben
nove
dai
Golden
Gophers
della
University
of
Minnesota,
la
squadra
di
coach
Brooks.
Mike
Ramsey,
Bill
Baker,
Neal
Broten,
Steve
Christoff,
Steve
Janaszak,
Rob
McClanahan,
Buzz
Schneider,
Eric
Strobel
e
Phil
Verchota
i
loro
nomi.
Questi
sono
I
diciotto
giocatori
che
scendono
sul
ghiaccio
olimpico
di
Lake
Placid
il
22
febbraio
1980
contro
l'Urss.
Prima
di
quella
partita,
nel
girone
eliminatorio,
gli
americani
sorprendono
e a
tratti
impressionano
per
la
loro
solidità
mentale
che
li
porta
a
rimontare
o
vincere
in
ben
quattro
incontri
su
cinque.
L’unico
pareggio
arriva
nel
match
d’esordio
con
la
Svezia,
grazie
al
gol
del
2-2
realizzato
dal
difensore
Bill
Baker
a 27
secondi
dal
termine,
ma
la
classifica
li
vedrà
comunque
dietro
gli
scandinavi
a
causa
di
una
peggiore
differenza
reti.
Per
il
resto
i
ragazzini
terribili
ottengono
solo
vittorie,
anche
molto
nette,
come
quella
sorprendente
e
prestigiosa
contro
la
fortissima
Cecoslovacchia
per
7-3
o
contro
l’ostica
Germania
Ovest
per
4-2.
Il
7-2
contro
la
Romania
e il
5-1
contro
la
Norvegia
sono
gli
altri
punteggi
che
assicurano
il
passaggio
del
turno
alla
formazione
di
casa.
Già
qui
si
potrebbe
parlare
di
miracolo:
una
formazione
costruita
in
sette
mesi
con
studenti
e
dilettanti
che
sbaraglia
la
concorrenza
della
vecchia
scuola
europea
e va
a
sfidare
l’Unione
Sovietica
nel
girone
finale.
I
media
si
erano
interessati
alla
squadra
soltanto
dopo
la
vittoria
contro
i
cecoslovacchi.
Prima,
complice
anche
la
sonora
sconfitta
in
amichevole
a
cinque
giorni
dalla
cerimonia
d’apertura
rimediata
dai
sovietici,
l’interesse
era
scemato
e i
pronostici
davano
la
formazione
a
stelle
e
strisce
come
eliminata
al
primo
turno.
Poi
arriva
il
22
febbraio.
Herb
Brooks
e i
suoi
ragazzi
sembrano
essere
i
soli
a
credere
nell’impresa
contro
l’Urss,
anche
quando,
dopo
nove
minuti
di
gioco,
i
sovietici
passano
in
vantaggio
con
gol
di
Krutov.
Poco
male:
gli
americani
sono
avvezzi
alle
rimonte
e
sono
ben
motivati.
Coach
Brooks
era
un
grande
estimatore
della
scuola
sovietica,
verso
la
quale
nutriva
rispetto
e da
cui
traeva
ispirazione
per
i
suoi
schemi.
Era
convinto
che
l’unico
modo
per
batterli
fosse
quello
di
attaccarli
per
tutti
e
sessanta
i
minuti
dell’incontro,
senza
mai
sentirsi
inferiori.
Per
spronare
i
suoi
ragazzi
aveva
dunque
sdrammatizzato
la
situazione
con
una
delle
sue
trovate
ad
effetto.
Si
era
presentato
durante
gli
allenamenti
con
una
foto
del
fuoriclasse
Boris
Mikhailov,
caratterizzata
da
un'evidente
somiglianza
con
l'attore
comico
Stanlio,
e si
era
rivolto
alla
sua
squadra
chiedendo:
“Voi
siete
capaci
di
battere
Stan
Laurel,
vero?”.
Così,
grazie
alle
parate
a
volte
incredibili
di
Jim
Craig,
gli
Stati
Uniti
tengono
botta
e
raggiungono
il
pareggio
appena
cinque
minuti
più
tardi
con
Schneider.
Tre
minuti
dopo
è
ancora
lo
squadrone
rosso
ad
andare
in
vantaggio
con
Makarov,
ma
ad
un
secondo
dallo
scadere
del
primo
tempo
Mark
Johnson
trova
il
guizzo
che
riporta
in
parità
i
suoi.
Irritato
dalle
due
marcature
subite,
il
tecnico
sovietico
Viktor
Tikhonov
scelse
sorprendentemente
di
sostituire
Tretiak,
il
miglior
portiere
del
mondo,
facendo
entrare
al
suo
posto
il
sostituto
Vladimir
Myshkin.
La
scelta
sembra
dargli
ragione,
visto
che
dopo
due
minuti
Maltsev
riporta
in
vantaggio
i
sovietici
e
che
per
tutto
il
secondo
tempo
nessuno
violerà
la
porta
russa.
Neanche
la
squadra
di
Tikhonov
riuscirà
però
a
segnare
ancora
nella
porta
americana,
difesa
da
un
Jim
Craig
in
giornata
di
grazia.
A
metà
del
terzo
tempo,
sorpresi
dalla
preparazione
fisica
degli
americani,
i
russi,
stremati,
allargano
le
maglie
difensive
e
Mark
Johnson
riesce
a
riportare
per
la
terza
volta
in
parità
la
partita.
E’
il
momento
di
affondare
il
colpo
del
ko.
Due
minuti
dopo,
il
capitano
Mike
Eruzione
esce
dalla
panchina,
si
inserisce
nell’azione
in
corso
e
coglie
l’assist
di
Pavelich
spedendo
il
dischetto
alle
spalle
di
Myshkin:
è il
gol
del
4-3.
Vengono
in
mente
a
questo
punto
le
parole
dell’editorialista
del
New
York
Times,
Dave
Anderson,
che
aveva
scritto
il
giorno
prima
della
gara:
“A
meno
che
il
ghiaccio
non
si
sciolga,
o a
meno
che
la
squadra
americana
non
compia
un
miracolo
(…)
ci
si
attende
che
i
russi
vincano
la
medaglia
d’oro
per
la
sesta
volta
negli
ultimi
sette
tornei”.
E’
forse
per
questo
motivo
che
durante
gli
ultimi
emozionanti
secondi
della
partita,
lo
storico
telecronista
della
ABC,
Al
Michaels,
si
scatena
in
un
concitato
conto
alla
rovescia
concluso
con
la
celebre
frase:
“Do
you
believe
in
miracles?
Yes!”.
Da
quel
momento
in
poi
quella
partita
diventa
“La”
partita,
diventa
il
miracolo
americano,
diventa
per
tutti
“Miracle
on
Ice”.
Pochi
ricordano
che
la
vera
sfida
decisiva
fu
giocata
due
giorni
dopo
contro
la
Finlandia
e
che
se
gli
americani
l’avessero
persa
non
sarebbero
finiti
neanche
sul
podio.
In
ogni
caso,
nonostante
la
percezione
comune
degli
statunitensi
che
già
festeggiavano
come
se
quella
con
l'Urss
fosse
stata
la
partita
determinante,
i
ragazzi
di
Herb
Brooks
batteranno
anche
i
finnici
per
4-2,
dopo
essere
stati
in
svantaggio
due
volte,
regalando
la
medaglia
d’oro
e la
vittoria
della
"guerra
ghiacciata”
agli
Stati
Uniti.
Alcuni
di
quei
ragazzi
passeranno
al
professionismo
o
continueranno
a
giocare
nelle
loro
squadre.
Il
capitano
Mike
Eruzione
deciderà
di
smettere,
convinto
che
nessun
altro
titolo
o
torneo
potesse
dargli
una
gioia
lontanamente
paragonabile
a
quella
provata
quella
sera
a
Lake
Placid.
Durante
la
cerimonia
di
apertura
delle
Olimpiadi
invernali
di
Salt
Lake
City
2002
tutti
i
ragazzi
di
quella
formazione
si
ritroveranno
per
accendere,
in
un
emozionante
momento
rievocativo,
il
tripode
olimpico.
Un
anno
dopo
Herb
Brooks
morirà
in
un
incidente
stradale
e
verrà
inserito
postumo
nella
Hall
of
Fame
dell’Hockey.
I
due
eventi,
sebbene
partoriscano
emozioni
opposte,
sono
serviti
a
molti
per
ricordare
e
far
conoscere
alle
nuove
generazioni
cosa
accadde
quel
giorno
di
febbraio.
La
morte
dello
storico
allenatore
della
nazionale
statunitense
avvenne
durante
il
periodo
in
cui
il
regista
Gavin
O'Connor
stava
girando
il
film
"Miracle",
incentrato
proprio
sull'impresa
del
1980,
in
cui
un
magistrale
Kurt
Russell
interpreta
il
ruolo
dell'allenatore.
Quindi
il
vero
Herbert
Paul
Brooks
non
vide
mai
quell'intensa
pellicola,
che
a
lui
è
stata
immediatamente
dedicata.
E al
termine
dei
titoli
di
coda
del
film,
compare
la
suggestiva
frase
"He
never
saw
it,
he
lived
it"
(non
lo
ha
mai
visto,
lo
ha
vissuto).
Un
altro
film
sull'argomento,
intitolato
"Miracle
on
ice"
ma
di
minore
successo,
era
uscito
nel
1981.
Ben
due
realizzazioni
cinematografiche
su
una
partita
olimpica
di
hockey
su
ghiaccio
stanno
a
significare
l'importanza,
per
una
nazione
intera
e
per
lo
sport,
di
ciò
che
accadde
quel
22
febbraio
di
quasi
trenta
anni
fa,
ben
riassunto
dalla
frase
di
Dave
Ogrean,
ex
presidente
della
lega
hockeistica
americana:
“Tutti
noi
sappiamo
benissimo
dove
ci
trovavamo
quando
fu
ucciso
John
Kennedy,
quando
l’uomo
mise
piede
sulla
Luna
e
quando
gli
USA
batterono
l’Unione
Sovietica
a
Lake
Placid”.
Ma
l'impresa
dei
ragazzi
di
Herb
Brooks
è
portatrice
di
un
insegnamento
ancor
più
importante:
non
esistono
imprese
e
risultati
impossibili
da
raggiungere,
nello
sport
come
nella
vita.
Basta
impegnarsi,
lavorare,
comportarsi
bene.
Basta
crederci.
|
|
|
GBe
edita e pubblica:
.
-
Archeologia e Storia
.
-
Architettura
.
-
Edizioni d’Arte
.
- Libri
fotografici
.
- Poesia
.
-
Ristampe Anastatiche
.
-
Saggi inediti
.
.
InStoria.it
|