Nell’articolo pubblicato nello scorso numero di
InStoria, ho ribadito il ruolo della conoscenza
della storia, della cultura e dell’informazione
locali per il recupero dell’identità dei luoghi,
minacciata dalla sempre più pervasiva avanzata della
cosiddetta globalizzazione.
Quest’anno, il Maggio dei monumenti a Napoli
ha inteso soffermare l’attenzione su un aspetto
particolare della cultura napoletana e meridionale,
legato a credenze, rituali e culti che affondano la
loro origine nella notte dei tempi, precedendo le
stesse sovrapposizioni indotte dai sopraggiunti riti
paleocristiani.
In
una più ampia accezione di “beni culturali” è,
infatti, da comprendere tutto l’ampio patrimonio di
tradizioni, usanze, abilità, attività tipiche di una
località e testimonianze storiche che non devono
essere necessariamente materiali o monumentali
perché la loro conoscenza e salvaguardia possano
contribuire ad alimentare quelle radici dalle quali
dipende la sopravvivenza (di senso) del presente e
del futuro.
Così, per quanto riguarda i “monumenti”, non ci sono
solo i Decumani, Napoli museo aperto e l’eccellenza
delle grandi opere d’arte, ma c’è anche il piacere
della riscoperta di opere poco note, di capolavori
nascosti e di siti da rivalutare e da salvare.
Non ci sono solo quelli che abbiamo definito
“revival per grandi imprese”, ma anche la necessità
di interventi, magari meno faraonici e meno
costosi, da sollecitare a beneficio di strutture il
cui valore di testimonianza storico-culturale non è
da meno perché possano meritare l’attenzione di
amministratori e cittadini ed essere riscattate dal
loro stato di deplorevole abbandono.
Ed
è anche per tali motivi che riferiamo della visita
organizzata, nell’ambito delle attività previste per
il Maggio dei Monumenti 2007, al Cimitero delle
366 fosse dalla Società Cooperativa Medici “Medi.co”.
La società, che ha curato con differenziate
competenze la manifestazione in ogni suo aspetto, a
gratuito beneficio dei circa quattrocento
visitatori, tra l’altro, “ha lo scopo di valorizzare
le risorse artistico-culturali partenopee che hanno
contribuito all’evoluzione verso il benessere e la
salute della città moderna”.
Ben-essere, ripetiamo ancora una volta, che ha
quanto mai bisogno di essere recuperato e connotato
verso quelle componenti etico-sociali che
restituiscano ai quartieri e alla città quelle
caratteristiche identitarie e di convivialità che
solo il senso di un’appartenenza condivisa può
concorrere a recuperare.
I
partecipanti all’evento hanno avuto modo di
apprezzare l’articolato programma di interventi
finalizzati ad illustrare sotto i molteplici aspetti
la natura del sito e a contestualizzarne
l’istituzione nell’epoca storica di riferimento e in
quella che da alcuni studiosi è stata definita, non
a caso, la “politica sociale” ante litteram
perseguita dai Borbone nel ‘700 e oltre, sotto
l’influenza della cultura illuministica napoletana.
Tale politica dell’intervento pubblico per il buon
governo (dalla culla alla tomba, si direbbe oggi!)
fu avviata egregiamente con la costruzione
dell’Albergo dei Poveri (1751) e, appunto, del
Cimitero delle 366 fosse (1762) e vide nelle
Manifatture di San Leucio (1789) un’interessante
esperienza di organizzazione sociale ispirata alle
teorie più avanzate dell’epoca. Tra le altre opere
di pubblica utilità sono da ricordare anche i
Cantieri navali di Castellammare (1773), i Granili
(1799) e la prima Ferrovia d’Italia (1839).
Il Cimitero delle 366
fosse comuni - tante quanti potevano essere i
giorni dell'anno, bisestili compresi - è uno dei
primi siti di sepoltura extra moenia della città e
si trova a monte dell'attuale corso Malta, nei
pressi della vecchia Centrale comunale del latte, in
una zona di difficile accesso per chi non ne abbia
conoscenza, dove estremo è il degrado ambientale e
delle condizioni di sicurezza. Non a caso la Medi.co
ha curato anche il trasporto dei visitatori sul
posto.
Quattro relazioni, brevi ed essenziali, hanno
illustrato ai visitatori il sito nei suoi aspetti
architettonici-ambientali e nella sua rilevanza
socio-urbanistica.
Il
prof. Vito Cappiello, ordinario di Architettura del
Paesaggio ed Infrastrutture territoriali presso
l’Università di Napoli “Federico II”, dopo aver
sottolineato il ruolo svolto dalla dinastia
borbonica nel farsi promotrice dello sviluppo della
città, ha evidenziato l’importanza paesaggistica
della collina di Poggioreale e le connotazioni
architettoniche e simboliche del recinto delle 366
fosse: una zona – ha detto Cappiello – ricca di
testimonianze storico-ambientali non
sufficientemente conosciute e degna di una maggiore
cura non solo da parte delle autorità competenti, ma
anche degli stessi napoletani.
La
dott. Claudia Pizzi, direttore scientifico della srl
Medi.co, si è soffermata poi sugli aspetti
innovativi nel campo medico tra la meta del ‘600 e
la fine del ‘700 e sulla funzione degli ospedali in
quanto luoghi pubblici di cura e di assistenza per
le classi più bisognose. Ha ricordato l’emergenza
verificatasi a Napoli in seguito all’epidemia di
peste del 1656, emergenza che pose il problema della
necessità di un intervento pubblico per la cura
degli ammalati e la predisposizione di strutture
idonee ad accoglierli, non solo per l’assistenza
medica, ma anche per limitare la diffusione del
contagio.
Il
dott. Antonio Spinoso, presidente della Medi.co, ha
illustrato l’influenza della cultura illuministica
sugli studi e sull’attività medica dell’epoca,
evidenziando la crescente importanza del ruolo
assunto dalla medicina anche attraverso i suoi
nuovi strumenti di conoscenza e di indagine. Ha
rievocato le figure di due luminari, Domenico
Cotugno e Domenico Cirillo, che diedero un
contributo determinante per la lotta contro il
vaiolo, la tisi e la tubercolosi e dalla cui pratica
professionale scaturì l’istituzione di reparti di
isolamento nell’Ospedale degli Incurabili per
cercare di contenere le epidemie più contagiose.
L’architetto Pierluigi Pizzi ha tratteggiato le
condizioni ambientali del sito nella metà del ‘700,
dove l’unico manufatto edilizio nella allora verde
collinare di Poggioreale era la Chiesa di Santa
Maria del Pianto, costruita nel 1657 in prossimità
della Grotta degli Sportiglioni che, per far fronte
alle necessità conseguenti all’epidemia, fu adibita
a fossa collettiva di sepoltura. Pizzi ha ricordato
la struttura originaria del Cimitero delle 366
fosse, voluto dai Borbone e progettato da Ferdinando
Fuga con le sue caratteristiche di architettura
semplice e funzionale, soffermandosi anche sulle
strutture sottostanti.
Le
quattro relazioni erano state precedute dalla
presentazione del monumento in lingua inglese e
spagnola, svolte rispettivamente dalle dott.
Giustina De Blasio e Gabriella Maggio. L’evento si è
concluso con uno spettacolo teatrale in tre quadri,
nel corso del quale figure di cantastorie dell’epoca
hanno rievocato le vicende legate alle epidemie di
peste e di colera, anche attraverso la suggestiva
messa in scena delle “anime pezzentelle” delle
vittime narranti. La compagnia di Ino Fragna ha
offerto ai presenti ulteriori e divertiti spunti di
riflessione sulla Napoli popolare del ‘700, grazie
all’efficacia della rappresentazione, animata, oltre
che dallo stesso Fragna, da Giorgio Borrelli,
Antonio Mariniello, Pino Pinto e Stefania Zinno.
Al
termine, i visitatori-spettatori sono stati
riaccompagnati ai rispettivi pullman, grazie anche
all’assistenza della dott. Giuseppina Parisi,
manifestando, oltre i già tributati applausi, il
loro apprezzamento per un’esperienza che va
ripetuta, per il piacere di altri visitatori e per
quanti dovrebbero rivolgere la loro attenzione alla
Napoli da salvare
e alla
riqualificazione urbana delle zone circostanti.