N. 22 - Marzo 2007
2 FEBBRAIO 2007
Malessere giovanile urla, Ispettore
Raciti muore
di Luigi
Buonanno
Ciò che è accaduto il 2
febbraio del 2007 penso sia noto a tutti, e sarebbe
superfluo raccontarlo di nuovo. Siccome in questo
paese la memoria sembra essere abbastanza poca e
peggio ancora lo è la coscienza, faccio però un breve
riepilogo.
Venerdì 2 febbraio del
2007. Allo stadio “Angelo Massimino” di Catania, si
gioca in serata il derby siciliano Catania-Palermo,
incontro valido per il campionato di calcio italiano
di “Serie A”.
Prima, durante e dopo la
partita, avviene lo scontro ormai solito tra tifosi e
forze dell’ordine. Niente di importante per i servizi
di comunicazione italiani, se non fosse per la morte
dell’ispettore Filippo Raciti, colpito da un oggetto
contundente e dalla decisione forte, fondamentale e
purtroppo esclusiva per il paese italiano, di bloccare
tutti i campionati di calcio in Italia, presa dal
commissario straordinario della Federcalcio: Luca
Pancalli.
A mio avviso, è stata
proprio la decisione del commissario Pancalli, ad
attivare i mezzi di comunicazione ed il governo
italiano, affinché venissero presi provvedimenti
“generali”.
Do pieno merito anche
alla stampa, alle televisioni ecc. nel aver attivato
l’ovvio e necessario moralismo nelle persone.
Lo stesso moralismo che
forse anche a causa degli stessi mezzi comunicativi
che prima ho elencato, raramente è venuto fuori negli
scontri, nei feriti, nei disordini e nei lutti,
avvenuti negli ultimi anni negli stadi italiani e
fuori. Soprattutto sulla morte del dirigente della
Sammartinese, Ermanno Licursi, scomparso a causa di
una rissa durante una partita di calcio, una settimana
prima dei fatti di Catania.
Ancora peggiore è stato
il menefreghismo delle Stato negli ultimi anni (più di
dieci), nel prendere provvedimenti seri, nel prevenire
questi disordini. Attualmente il Governo sembra
essersi movimentato, ma a mio avviso in maniera
“scadente.”
Nelle televisioni e nei
giornali, non si fa altro che accusare, dar vita a
perbenismi, anche insultare... e sento politici
parlare di prevenire questi scontri.
Quello che ancora non ho
sentito purtroppo, è la ricerca di capire qual è il
problema fondamentale. Ossia il motivo di questi
continui tumulti di gruppi di ragazzi (assolutamente
estranei a tifosi e al mondo dello sport), nei
confronti delle forze dell’ordine. Sinceramente, non
credo nella maniera più assoluta che un virus di
follia improvvisa si introduca nei cervelli di
centinaia di ragazzi, ad ogni partita e in quasi tutti
gli stadi.
Prevenire non significa
applicare nuovi obblighi, nuovi decreti o reprime
soltanto. Prevenire significa capire il motivo di
queste rivolte e cercare di evitarle. Vale a dire,
venire a conoscenza dell’odio di questi gruppi di
ragazzi nei confronti delle forze dell’ordine.
Finora, si è soltanto
parlato della demenza di questi ragazzi, della gravità
dell’accaduto, dei provvedimenti da prendere, ma
nessuno cerca di capire il motivo essenziale dei
disordini, che potrebbe davvero aprire la strada alla
prevenzione.
Non è difficile capire
che queste persone non hanno niente in comune con i
tifosi veri e con lo sport. Provate a ragionare un
attimo. In questo momento, in Italia, in quale
avvenimento c’è il maggior schieramento di forze
dell’ordine? Nelle partite di calcio se non sbaglio.
Provate ad individuare
uno stesso luogo, in cui c’è la maggior presenza di
forze dell’ordine e la possibilità che ragazzi di poca
intelligenza si uniscano ai fautori di disordini
contro le forze dell’ordine. L’unico luogo sembra
essere proprio lo stadio. Quindi eliminare quasi del
tutto la polizia dagli stadi sembra essere una
decisione felice che lo Stato ha messo in atto. Ma
questa non è prevenzione. Cercare di non far
incontrare due persone che si odiano, per evitare un
litigio non è prevenire, significa non volere
ulteriori fastidi. Prevenire significa far in modo che
le due persone non debbano più odiarsi.
Se ricordate, qualche
mese fa c’è stata una rivolta dei ragazzi delle
banlieu francesi, contro le forze dell’ordine e
non solo, diciamo contro lo stato francese. Qui il
motivo dell’odio c’è, anzi, è stato preso in
considerazione. Ovvero il maltrattamento della polizia
nei confronti dei ragazzi delle banlieu che si
unisce al disagio generale in cui vivono.
Perché in Italia non c’è
nessuna volontà di capire il motivo dell’odio? Perché
si rileva soltanto la gara tra chi dice più perbenismi
o chi crede di avere più soluzioni? Perché dopo appena
due settimane già sembra aver dimenticato tutto?
Perché lo Stato permetterà che alla fine del mese di
febbraio ritorni tutto com’era prima dell’accaduto?
Perché in questo paese non si ha mai la volontà, il
coraggio, la forza di prendere decisioni davvero
risolutive e importanti? Di perché ce ne sono tanti,
troppi, potrei farne a migliaia. Purtroppo penso che
la risposta stia nei troppi interessi economici e nel
troppo potere in mano alle persone sbagliate. Peggio
ancora è la scarsa volontà nel volere queste persone
fuori dalle capacità di prendere decisioni “vitali”
per i cittadini, per il popolo e cioè per noi.
Accusare un
diciassettenne di aver ucciso l’ispettore Raciti, con
prove ridicole, tanto per giustificare il lavoro che
va avanti da giorni, nel trovare il colpevole, che
purtroppo è quasi impossibile, innalzando un
fantomatico capo espiatorio… mi sembra l’ennesimo
errore. Un ulteriore motivo di non fiducia.
In Italia esistono delle
persone che vivono con un malessere. Che sono figlie
di disagi provocati da tanti fattori. I provvedimenti
presi non serviranno a niente.
Il malessere giovanile
che spinge i ragazzi a rivoltarsi contro lo Stato non
cesserà di esistere, perché non c’è la volontà da
parte dell’organo che dovrebbe garantire il benessere
dei cittadini. Una volontà che potrebbe avere un
prezzo. La diminuzione del potere e soprattutto la
diminuzione “economica” nella tasche di tante persone,
che di soldi ne hanno già troppi.
I disordini
continueranno ad esistere. I colpevoli non saranno i
ragazzi. I colpevoli siamo noi tutti. Tutti quanti:
Stato, Chiesa, cittadini. Noi stessi siamo stati i
giudici e noi stessi ci siamo condannati.
La nostra condanna è già
in atto: vivere in un crescente malessere popolare. |