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N. 53 - Maggio 2012 (LXXXIV)

Ricordando Sarajevo...
... vent’anni dopo

di Alessandro Ortis

 

5 aprile 1992: alcuni cecchini, appostati sul tetto dell’Holiday Inn, dopo che la sera prima le truppe del generale Mladić erano entrate in città, aprirono il fuoco su una folla di 2.000 persone che manifestavano in nome della pace e contro le ostilità promosse dai serbi.

 

Iniziò così l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna, durato 1.425 interminabili giorni e che provocò 11.541 mila vittime e più di centomila feriti.

 

La guerra nella ex - Jugoslavia, e in particolare in Bosnia-Erzegovina, sin da subito non è mai apparsa chiara. Per di più, tenere sotto scacco una città per più di quattro anni, oggi come allora, suscita perplessità e sconforto.

 

In pochi, negli anni Novanta, si sono chiesti perché le truppe di Mladić, schierate sulle alture che cingono Sarajevo, non abbiano puntato da subito i loro cannoni sulle postazioni strategiche dei musulmani bosniaci, quali caserme, ponti o strade. Nessuno si è domandato perché Karadžić, a quel tempo ancora controllato e supportato dal vozd serbo Slobodan Milošević, avesse la sola intenzione di bombardare ospedali, scuole e case, non occupandosi minimamente di tagliare fuori la città dal resto del paese.

 

La barbarie degli spari dei cecchini sulla gente che fa la coda al mercato per un po’ di pane, dei bambini uccisi per strada è andata avanti per mesi, prima che l’Occidente, alle soglie del 1995, decidesse di intervenire attivamente con i bombardamenti della NATO. Solo un maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti riuscì a sbloccare la situazione, impanatasi a causa della reticenza dell’Europa, in preda ad una forte confusione ed alla paura di agire.

 

In quei quattro lunghi anni, la città si svuotò completamente, con la popolazione che in tutta fretta abbandonò le proprie case per trovare rifugio altrove, fuori da Sarajevo. Sì, per assurdo, la città divenne un posto meno sicuro della campagna bosniaca, perché là gli interessi del governo di Pale, la capitale della neonata Republika Srpska, erano minori.

 

Nel breve tempo di qualche mese, la capitale bosniaca divenne una città ghetto, con il centro storico e i quartieri residenziali di Dobrinja e Butmir, nei pressi dell’aeroporto, nelle mani dei musulmani, e il sobborgo di Ilidža controllato dai serbi. Assieme a queste, alla fine della guerra ci saranno altre zone e sobborghi in cui le etnie che le abitavano prima della guerra, convivendo pacificamente, dopo l’assedio non hanno fatto più ritorno.

 

L’assurdità di quei giorni si ritrovava nella stessa dislocazione delle truppe, disposte lungo il corso del fiume Miljacka, dentro il quartiere di Grbavica, nel cuore della città.

 

Da una parte i musulmani, dall’altra i serbi. Con un ingente numero di mezzi e uomini sulle colline, con un discreto dispiegamento di forze in città, questi ultimi avrebbero potuto sconfiggere i musulmani nel giro di qualche settimane. Bastava volerlo. Invece, le intenzioni, come i libri ed i resoconti storici ci raccontano, erano altre: e come già visto in passato, da “guerra lampo” si passò alla “guerra di trincea”, con i rispettivi fronti che, nei 1425 giorni, non si sono mai spostati per più di due terzi.

 

Vent’anni dopo, il 6 aprile scorso, nella centralissima via Maršala Tita, sono state poste, in memoria di altrettante vittime, 11.541 sedie rosse. Un lunga scia rossa nel cuore di Sarajevo, che si chiudeva davanti ad un palco su cui si sono alternati per 45 minuti cantanti, scrittori ed ex-politici, mescolati a tanta gente comune e alla nuova generazione di giovani bosniaci.

 

Dalla moschea di Ali-Pascià fino al monumento della Fiamma Eterna, una platea vuota ha ascoltato le parole di chi è rimasto, di chi è scampato al massacro, per non dimenticare le migliaia di donne, uomini e bambini sepolte nei bianchi cimiteri che colorano le colline intorno a Sarajevo.

 

Come ha scritto la giornalista bosniaca Azra Nuhefendić in un suo recente libro, sotto quelle lapidi bianche è sepolta un’intera generazione di ventenni, a cui è stata tolta la possibilità di crescere e vivere una vita piena e serena.

 

Oggi la Bosnia-Erzegovina è, certamente, un paese diverso da quel lontano 1992, anche se permangono le divisioni degli accordi di Dayton – due entità politiche, la Federazione croato-musulmana e la Republika Srpska. Non mancano neanche le tensioni a livello politico, visto che tra le due capitali, Sarajevo e Banja Luka, non corre proprio buon sangue.

 

Il rischi, oggi, di un nuovo focolaio di violenze è meno concreto, ma non per questo impossibile. Perché questo non accada, la Bosnia-Erzegovina ha bisogno del supporto della Comunità Internazionale, in primis del’Unione Europea, che deve riscattarsi dalle inadempienze durante la guerra degli anni Novanta.

 

Non è giusto dire, come ha ribadito Tim Judah su Bloomberg, che il 2012 sia il 1992, ma non è neanche corretto affermare che tutto sia tranquillo. A quel tempo, Belgrado e Zagabria volevano spartirsi la Bosnia-Erzegovina, mentre oggi spingono perché la stessa si avvicini di più all’Europa.

 

Quel che bisogna fare è non abbassare l’attenzione, altrimenti si corre il rischio di commettere lo stesso errore del passato, quando ci si accorse della gravità della situazione quando, ormai, era troppo tardi.
 

Con la manifestazione delle 11.541 sedie rosse vuote, Sarajevo ha voluto ricordare ed onorare i suoi morti, e allo stesso tempo impartire una lezione di civiltà al mondo. La memoria è di tutti, e non conosce divisioni.



 

 

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