N. 16 - Aprile 2009
(XLVII)
A proposito del
2012…
Uno sguardo storico
sulle origini
mesoamericane del
mito
di Lawrence M.F.
Sudbury
Se ne sente parlare
continuamente, a tratti con toni millenaristi: il 2012,
secondo molti, porterà la fine del mondo (almeno del
mondo come lo conosciamo oggi) con sconvolgimenti
cosmici epocali. Ma ne siamo così certi?
Forse, prima di farsi travolgere da una sorta di
preludio all’isteria collettiva, è il caso di analizzare
un po’ più in profondità i fondamenti
storico-sociologici che hanno portato sia alla
determinazione di tale data che al suo uso prettamente
politico all’interno delle culture che hanno sviluppato
tale concezione: i Maya e, in seguito, anche se con
minor precisione, gli Aztechi.
I Maya, pur avendo origini antichissime (i primi
insediamenti si possono attribuire al 1500 a.C.), solo
verso il 300 a.C. si cominciano a riunire in vere e
proprie città, per lo più localizzate negli attuali
territori del Veracruz, Yucatán, Campeche, Tabasco e
Chiapas in Messico, nella maggior parte del Guatemala e
alcune aree del Belize e dell'Honduras. Il loro periodo
classico, compreso tra il 300 ca. e il 900 d.C., è
caratterizzato dalla diffusione in tutti i territori
maya di una cultura pressoché uniforme, con un notevole
sviluppo nel campo dell’organizzazione culturale,
politica e tecnologica, che culmina in uno scenario dove
ogni città diventa un piccolo stato che ha contatti con
gli altri nuclei abitativi solo per scambi commerciali.
Intorno al 900, questi
centri vengono misteriosamente abbandonati (le ipotesi
spaziano da carestie ad eventi naturali) e parte della
popolazione si sposta nello Yucatàn, dove la civiltà
maya ha il suo centro del periodo seguente, fino a che,
intorno al 1000 d.C., problemi legati a catastrofi
naturali, pestilenze, uragani e, di conseguenza,
raccolti andati perduti che portarono carestie e guerre
fra le varie città, ne provocarono l’assoggettamento
agli Aztechi e la progressiva decadenza, che raggiunge
il culmine con la conquista spagnola all’inizio del XVI
secolo. Fin qui un accenno alla loro storia.
Lungo tutto il lungo arco di vita dei Maya, il potere
politico-esecutivo, rimase nelle mani di re che
ereditavano il titolo in linea maschile, assistiti da
capi locali che distribuivano le terre alle famiglie dei
villaggi, ma il vero potere risiedeva nelle mani della
casta sacerdotale, capace di influenzare profondamente
(e, più spesso, di determinare) le decisioni reali sulla
base di un sistema religioso omninglobante e permeato da
fortissimi tratti di superstizione.
Dal momento che quella dei Maya è l'unica civiltà
precolombiana che ha lasciato numerose ed estese
iscrizioni in una scrittura logosillabica e che la
conoscenza di tale scrittura era appannaggio unicamente
della casta sacerdotale e dei dignitari d'alto rango,
che, ovviamente, riflettevano i loro interessi nei loro
testi, abbiamo una conoscenza piuttosto estensiva della
religiosità di questo popolo.
Sostanzialmente, quelle che possiamo definire come le
divinità della religione maya sono rappresentazioni
plastiche di esseri sovrannaturali (transeunti, in
quanto unicamente figure mediatrici tra uomini e un
“Principio creatore” inconoscibile) composte da tratti
altamente stilizzati di svariati animali ed elementi
vegetali, talvolta combinati con forme umane.
Tali dei erano venerati
per ciò che rappresentavano secondo il significato loro
attribuito dai sacerdoti, ma erano visti, come già
probabilmente nelle culture olmeca e tolteca, come
entità imperfette che nascevano e morivano, quindi
bisognose d'essere alimentate per sopravvivere. Per i
Maya, dunque, non esistevano esseri immutabili, e gli
dei stessi erano costantemente soggetti a cambiamenti in
una iconografia vastissima.
Al di là delle diverse forme rappresentative, possiamo
comunque ritenere che il Sole (Itzamná) fosse la
divinità suprema, asse intorno al quale si sviluppava la
vita, generatore del tempo, origine del divenire e,
quindi, delle quattro stagioni e della quadruplicità del
cosmo: è luce (ossia vita, giorno, ordine, bene) quando
sorge ed è giaguaro quando è il tramonto, ha grandi
occhi quadrangolari e strabici, dente limato, lingua
sporgente, zanne spiraliformi agli angoli della bocca e
presenta una forma a 8 sulla fronte rappresentante il
corpo di un serpente, è unione di tutti gli animali
sacri (giaguaro, cervo, colibrì, aquila, gazza, ara) e,
soprattutto, è la divinità protettrice dei sacerdoti e
degli astronomi.
Gli fanno da “spalla” il
dio Chaac (una variante del dio drago che presenta naso
cascante, pupille a forma di spirale, zanne ricurve e
serpentine e impugna un'ascia o una torcia), il dio più
citato nei documenti ufficiali, da cui dipendono la
pioggia e la siccità e il Dio del Mais (dai cui occhi
esce una serie di foglie della suddetta pianta ma che è
privo di tratti animali e attributi zoomorfi visto che è
l'uomo stesso nasce da un impasto di granoturco), più
alcune dee, tra le quali particolarmente importante è la
dea lunare della fertilità che, invecchiando, si
trasforma nella dea della pittura o quella della
tessitura.
è
particolarmente significativo che tutte queste divinità
legate al ciclo naturale agricolo e procreativo, in un
popolo che dell’agricoltura faceva il suo fondamentale
mezzo di sostentamento, fossero, comunque, subalterne
alla divinità legata alla casta sacerdotale e allo
studio del calendario astronomico.
Il fatto è che i Maya avevano ereditato dai Toltechi,
accentuandola, una vera ossessione per il tempo. Il loro
intero territorio, con le sue centinaia di città di
pietra può essere classificato come un enorme monumento
in stretta relazione con il tempo: sulle mura che
cingevano i campi per il gioco della palla, sui templi,
sugli architravi, sui pannelli scolpiti e addirittura
sulle conchiglie e sulla giada i Maya per un periodo di
circa 1000 anni incisero le relative date non appena
arrivavano alla conclusione dell'opera, o la incisero
per celebrare qualche avvenimento del passato.
La conseguenza di questa sorta di “mania” per il calcolo
del tempo è sotto gli occhi di tutti: il loro calendario
è estremamente preciso, con il suo calcolo della durata
dell'anno solare in 365,2420 giorni (con un errore per
difetto di soli 0,0002 giorni, mentre quello attualmente
utilizzato da noi erra di circa 0,0003 giorni...), e di
quello lunare in 29,528395 (di poco inferiore al valore
reale).
I Maya avevano altresì
sviluppato un perfetto metodo di previsione delle
eclissi, avendo nozione che esse possono avvenire
soltanto 18 giorni prima o dopo del nodo (cioè punto in
cui l'orbita lunare interseca quella apparente del sole)
e conoscevano anche il concetto di zero, inteso come
valore nullo, ma concreto allo stesso tempo.
Ma il calendario maya andava oltre, collegandosi ai
fenomeni celesti di un altro importante pianeta: Venere:
gli astronomi-sacerdoti di questo popolo sapevano che
Venere era sia l'astro del mattino e sia quello della
sera; sapevano che esso compie un giro intorno al sole
in 224,7 giorni, mentre la terra in 365,2420 giorni e
che il risultato combinato di questi due elementi è che
il pianeta Venere sorge esattamente nello stesso punto
del cielo visibile dalla Terra ogni 584 giorni (una
quantità che sapevano persino essere approssimata, visto
che stimarono i giorni della rivoluzione sinodica media
di Venere in 583,92, lo stesso numero che si è calcolato
ai giorni nostri).
I maestri Maya utilizzarono queste loro ampie conoscenze
creando un complesso sistema di calcolo calendaristico.
Ogni 61 anni venusiani praticavano un aggiustamento di 4
giorni per armonizzare il ciclo sinodico di Venere con
il loro anno sacro (composto da 260 divisi in 13 mesi da
20 giorni ciascuno).
Nel corso di ogni V ciclo,
alla fine della cinquantasettesima rivoluzione veniva
effettuato un aggiustamento di 8 giorni, che interrelava
così strettamente l'anno sacro Maya con la rivoluzione
sinodica di Venere da produrre semplicemente l'errore di
un giorno ogni 6000 anni. Tutta un'altra serie di
aggiustamenti facevano sì che risultasse interrelato
anche il normale calendario solare, che venne reso in
grado di funzionare senza errori su archi di tempo
eccezionalmente lunghi.
La domanda a questo punto è ovvia: che motivo avevano i
Maya di adottare un così preciso calendario? Il motivo
era uno solo: l'ossessione del tempo nasceva dal fatto
che essi ritenevano di sapere esattamente quanto il
mondo fosse destinato a durare. Il segreto di ciò sta
nel cosiddetto “lungo computo”.
Esso è un sistema per
calcolare le date, fortemente impregnato da credenze del
passato ma anche sostanzialmente precisissimo,
costituito da 9 elementi fondamentali. Il primo elemento
era il Giorno che si chiama Kin, che nominava anche il
Sole e il sacerdote solare, quindi qualcosa di vicino,
di caldo e vitale. Ogni giorno aveva un proprio nome e
quindi vi erano diversi Kin. Di seguito vi erano i Uinal,
i mesi: sono di 20 giorni più un mese aggiuntivo di 5
giorni per arrivare a 365.
I Maya non aggiungevano un
giorno ad un mese ogni 4 anni come facciamo noi, non
c'era l'anno bisestile, tutti gli anni c'era un mese di
5 giorni, quindi arrivavano sempre a 365. Il passaggio
successivo era il Tun che equivale all'anno di 365
giorni a cui seguiva il Katun che sono 20 anni, cioè 20
Tun, poi il Baktun, il Karaktun, che moltiplicano sempre
per 20, il Kinciltun fino ad arrivare all'Autun.
Alla base di tutto stava la concezione che il tempo
fosse ciclico e che la stessa influenza e le stesse
conseguenze si ripetessero in ogni determinato periodo
nella storia. Diego de Landa, il primo occidentale a
venire a contatto e a studiare approfonditamente la
cultura maya scrisse nei suoi diari: “[i Maya]
Riuscivano a calcolare meravigliosamente le loro epoche,
e così era facile per un vecchio con il quale mi capitò
di parlare, di ricordare tradizioni che risalivano a
trecento anni prima. Chiunque abbia messo ordine al loro
calcolo dei katun, fosse stato anche il diavolo, lo ha
fatto con una esattezza mai nel passato eguagliata.”
Il senso ultimo della ciclicità temporale ci viene
svelato da quello che è universalmente conosciuto come
Codice di Dresda, uno dei tre codici Maya sopravvissuti
per puro miracolo alla furia della conquista spagnola,
che fece purtroppo terra bruciata dell'intera cultura
Maya.
Il Codice di Dresda (o
Codex Dresdensis) è il più bello e il più complesso dei
tre, risale probabilmente all'XI o XII secolo e ricopia
quasi sicuramente un originale del periodo classico:
parla delle eclissi, della rivoluzione sinodica di
Venere, di riti religiosi e di pratiche divinatorie, per
ben 70 pagine.
Scoperto a Vienna nel
1739, e in seguito acquistato dalla biblioteca di
Sassonia, è proprio questo testo che ha permesso a Ernst
Forstermann, impiegato di quella biblioteca, di
decifrare una parte del calendario Maya.
Ciò che possiamo desumere da esso è che alla base di
tutta la cultura “cronometrica” maya vi è un
intensissimo sentimento escatologico. Secondo i Maya ci
erano cinque “Ere Cosmiche”, corrispondenti ad
altrettante civiltà. Le precedenti quattro Ere
(dell’Acqua, Aria, Fuoco e Terra) sarebbero tutte
terminate con degli immani sconvolgimenti ambientali.
Ogni ciclo durava 1 milione e 872 000 giorni. Il ciclo
che ora stiamo vivendo, l’“Età dell’Oro” ha avuto inizio
il 13 agosto dell'anno 3114 prima di Cristo e finirà in
una data di cui oggi si sente molto parlare, spesso
anche a sproposito, il 21 dicembre 2012.
I sacerdoti erano del tutto sicuri dell'attuale ciclo ed
erano altrettanto convinti che fosse l'ultimo: quando il
mondo avrà completato questo ciclo, dicevano, finirà fra
disastrose inondazioni che porteranno terremoti e
incendi. In effetti, però, sappiamo poco su come i Maya
immaginassero la fine del mondo: l'unica immagine
possiamo averla osservando l'ultima pagina del Codice di
Dresda, in cui si vede l'acqua che distrugge il mondo
fuoriuscendo dai vulcani, dal Sole e dalla Luna e
generando oscurità che prevale sulla luce.
Come spiegare tutto ciò?
In realtà, possiamo parlare di almeno due ordini di
spiegazioni possibili, uno più prettamente
astronomico-scientifico e uno più direttamente
politico-psicologico.
Riguardo al primo, secondo i ricercatori Maurice
Cotterell e Adrian Gilbert, i cataclismi che
caratterizzarono la fine delle Ere Maya furono causati
da una inversione del campo magnetico terrestre, dovuto
ad uno spostamento dell’asse del pianeta. La Terra
infatti subirebbe periodicamente una variazione
dell’inclinazione assiale rispetto al piano
dell’ellittica del sistema solare. Ciò provocherebbe
scenari apocalittici, ben descritti dallo storico
Immanuel Velikvosky nel suo libro Earth in Upheaval:
“... Un terremoto farebbe tremare il globo intero. Aria
e acqua si muoverebbero di continuo per inerzia, la
Terra sarebbe spazzata da uragani e i mari
investirebbero i continenti... La temperatura diverrebbe
torrida e le rocce verrebbero liquefatte, i vulcani
erutterebbero, la lava scorrerebbe dalle fratture nel
terreno squarciato, ricoprendo vaste zone. Dalle pianure
spunterebbero come funghi le montagne, che
continuerebbero a salire sovrapponendosi alle pendici di
altre montagne e causando faglie e spaccature immani. I
laghi sarebbero inclinati e svuotati, i fiumi
cambierebbero il loro corso, grandi estensioni di
terreno verrebbero sommerse dal mare con tutti i loro
abitanti. Le foreste sarebbero divorate dalle fiamme e
gli uragani e i venti impetuosi le strapperebbero dal
terreno... Il mare, abbandonato dalle acque, si
tramuterebbe in un deserto. E se lo spostamento
dell’asse fosse accompagnato da un cambiamento nella
velocità di rotazione, le acque degli oceani equatoriali
si ritirerebbero verso i poli e alte maree e uragani
spazzerebbero la Terra da un polo all’altro... Lo
spostamento dell’asse cambierebbe il clima in ogni
luogo... Nel caso di un rapido spostamento dell’asse
terrestre, molte specie di animali sulla Terra e nel
mare sarebbero distrutte e la civiltà, se ancora
esistesse, sarebbe ridotta in rovine”.
Ovviamente, si tratta solo di una teoria possibile, per
quanto almeno parzialmente suffragata da dati
scientifici. Di fatto, comunque si voglia interpretare
questo dato, anche secondo le predizioni dell’astronomo
babilonese Berosso il 23 dicembre 2012 dovrebbe
corrispondere alla “fine dei tempi”, e certamente quel
giorno vedrà una disposizione planetaria così singolare
ed unica da verificarsi soltanto una volta ogni 45.000
anni, il che, per altro, potrebbe anche spiegare la
ragione per cui numerosi astronomi di varie civiltà
abbiano appuntato la loro attenzione proprio su quel
momento.
Venendo, comunque, a scenari meno inquietanti, la
visione escatologica maya potrebbe, come detto, essere
spiegabile anche in termini molto più legati al pensiero
umano.
Si è visto che la società maya, fortemente gerarchizzata,
aveva alla sua sommità la classe sacerdotale.
Ipotizziamo per un momento che i Maya conservassero
memoria, o, forse più probabilmente, avessero ereditato
dalle precedenti civiltà la nozione di uno o più
cataclismi cosmici (ad esempio qualcosa di analogo al
“diluvio universale”, legato alla fine delle grandi
glaciazioni). Ebbene, la concezione di un tempo ciclico
avrebbe rappresentato una tremenda “arma di ricatto” o
meglio, un’enorme leva per la conservazione, cosciente o
no che fosse, del potere in mano alla classe
sacerdotale, rappresentanti del “volere divino” in
terra.
In questo senso, non apparirebbe così strano che gran
parte della religiosità maya (come, pare, le precedenti
olmeche e tolteche) si basasse sul sentimento della
paura, a partire dalla “mostruosità” delle
raffigurazioni divine. Così, l’universo maya era
travagliato dalla perenne lotta fra le potenze del male
e del bene: il bene portava la pioggia, la fertilità e
l'abbondanza, mentre il male portava la siccità, gli
uragani e le guerre. Sopra la terra esistevano 13 cieli
di beatitudine e dietro di essi 9 d'inferno: nel
paradiso finale non esistevano più né dolore né povertà,
né pesanti carichi da sopportare, ma nell'inferno finale
c'erano fame, freddo e miseria e per esservi condotto
era sufficiente non obbedire al comando degli dei (cioè
dei sacerdoti).
L’eschaton, in questo quadro, si strutturava come
conoscenza ultimativa della casta di potere: solo i
sacerdoti, con le conoscenze astronomiche di cui erano
soli possessori, potevano predire il momento finale,
computarne i termini di avvicinamento e stabilire, sulla
base del calendario costruito e calcolato in vista di
tale avvicinamento, il corretto comportamento verso il
divino da parte del popolo. Dal momento, poi, che,
secondo le credenze maya, solo con il dolore ed il
sacrificio si potevano espiare i peccati commessi contro
gli dei, tale conoscenza diveniva anche fonte di potere
di vita e di morte e di riaffermazione della superiorità
sacerdotale persino sulle figure nobiliari e regali:
tutta la città partecipava attivamente ai riti
sacrificali e anche il re era soggetto di riti
propiziatori attraverso salassi di sangue, durante i
quali egli si procurava volontariamente delle ferite,
raccoglieva il suo sangue e lo bruciava in nome degli
dei.
La “presa” di tale sistema è comprensibile anche solo
focalizzandosi sulla questione sacrificale: la continua
necessità di vittime sacrificali portava spesso
all’utilizzo dei prigionieri di guerra ed è ormai
ampiamente accettato il fatto che, in una società
prettamente agricola e fondamentalmente pacifica come
quella dei Maya, spesso gli scontri tra due città
avvenissero solamente per procurarsi schiavi e future
vittime sacrificali.
In seguito, come già avevano fatto i Maya con le culture
che li avevano preceduti, dagli Olmechi ai Toltechi,
così gli Aztechi inglobarono gran parte dei tratti
religiosi ereditati dalle civiltà sottomesse (in primo
luogo proprio i Maya) radicalizzandone alcuni tratti
peculiari.
Di per sé, la storia degli Aztechi presenta, per gli
studiosi odierni ancora numerosi tratti oscuri. La
leggenda più diffusa all’interno del corpus mitologico
azteco vuole che i Mexicas (come gli Aztechi si
definivano) fossero partiti da una zona detta Azecti per
giungere dopo una lunga peregrinazione nell’area
vulcanica intorno al lago Texcoco, ultimi di un certo
numero di tribù in migrazione dalle zone desertiche.
Poveri e non bene accetti
da parte delle popolazioni che li circondavano,
riuscirono comunque a stabilirsi, accettando ed
assimilando la cultura tolteca, a fondare, nel 1325,
Tenochtitlàn, che divenne la loro capitale, e a formare
il nerbo di un esercito mercenario durante una serie di
guerre civili tolteche. Proprio attraverso tale esercito
e l’impronta militare che da subito assunse la loro
civiltà, gli Aztechi sottomisero progressivamente
diverse tribù, in un crescendo che, tra l’ultimo quarto
del XIV secolo e il 1519 (anno di arrivo degli
spagnoli), vide la nascita del più grande impero che
fosse mai esistito nel Centroamerica, sebbene oggi più
che di impero parleremmo di “protettorato”, dal momento
che il territorio sottoposto alla sovranità azteca era
composto da molte etnie e si caratterizzava più come un
sistema di tributi che come un vero e proprio sistema di
amministrazione.
E’ probabile che Graham Hancock abbia ragione quando
definisce gli Aztechi un popolo scarsamente dotato dal
punto di vista scientifico (non arrivò mai a sviluppare
tecnologie piuttosto elementari come quelle dell’arco e
della ruota), ma certamente si trattava di un popolo con
una impressionante capacità osmotica dal punto di vista
culturale e con una propensione a innestare elementi
nuovi su rami di pensiero già sviluppati.
Cosi, ad esempio, gran parte delle divinità del loro
pantheon provenivano da altri popoli: la dea della
fertilità, Xipe Totec, ad esempio, era in origine una
dea degli Yopi, altre divinità, tra cui Tezcatlipoca e
Quetzalcoatl, avevano radici nelle civiltà olmeche,
tolteche e maya, altre ancora provenivano da popoli
assoggettati ma venivano identificati con un dio
preesistente.
Tutti, però, vennero
“sottomessi” ad una sorta di “spirito creatore”, detto “Teotl”,
che appare se non autoctono (qualcosa di simile era
presente come “Dio Supremo Inconoscibile” tra i Maya)
almeno specificato nelle sue funzioni di continuo
rinnovamento dell’esistente come mai prima nelle culture
centroamericane.
Un altro chiarissimo esempio di ripresa da culture
precedenti riguarda il calendario. Ereditando
l’incredibile cultura astronomica maya, gli Aztechi
elaborarono una sorta di doppio calendario, che
conosciamo soprattutto grazie all’analisi della
cosiddetta “Pietra del Sole”, un disco di pietra dal
diametro di 3 metri e mezzo e del peso di piú di 24
tonnellate, sfuggito miracolosamente alla distruzione
degli idoli da parte dei conquistadores e rinvenuto
sotto la cattedrale di Città del Messico, che raffigura
il calendario e la cosmogonia degli Aztechi.
Il tempo era scandito secondo il cosiddetto “Tonalpohualli”,
un calendario rituale di 260 giorni con in piú 5 giorni
nefasti, e il calendario solare maya di 365 giorni. I
cicli “secolari” degli Aztechi coprivano un arco di
tempo di 52 anni e ogni cambio di secolo era preceduto
da giorni di angoscia e di terrore per la fine del
mondo.
Ogni anno veniva celebrata
la cerimonia del Fuoco Nuovo che iniziava con
l’osservazione degli astri nel santuario di Quetzalcóatl
a Xochicalco, a sud di Città del Messico, per calcolare
il giorno propizio: in tutto il regno venivano spenti i
fuochi, gli attrezzi e il vasellame vecchio venivano
distrutti e la gente rimaneva chiusa in casa. Il rito si
concludeva con l’accensione di una nuova torcia nel
grembo di una vittima sacrificale e il Fuoco Nuovo era
portato in processione verso i bracieri sui templi.
Tutto ciò, soprattutto per quanto riguarda la
prospettiva escatologica, rappresenta per alcuni versi
una ripresa e per altri un’innovazione rispetto alla
cultura maya, con una certezza dell’eschaton futuro ma,
allo stesso tempo, una perdita della certezza
riguardante la sua data finale.
Questo meccanismo di
riproposizione culturale e di “variazione tematica” si
ripresenta costantemente in questo campo. Ad esempio, la
concezione cosmogonica del mondo azteco, per quanto
piuttosto complessa, è fondamentalmente riconducibile
alla ciclicità maya e, conseguentemente, riducibile in
cinque età, ciascuna dominata da alcuni fattori
determinati: con l’“Età dei Quattro Giaguari”, la terra
nacque e venne subito popolata da Giganti, i quali in
seguito furono divorati dai giaguari stessi; l’“Età dei
Quattro Venti” vide gli uomini mutati in scimmie e la
terra sconvolta da uragani sotto il Dio Quetzalcoatl; la
terza “Età delle Piogge”, dominata dal Dio Tlaloc, fu
contraddistinta da piogge di fuoco; la successiva “Età
delle Acque” ebbe enormi inondazioni che trasformarono
gli uomini in pesci sotto il segno della Dea
Chalchihuitlicue; l’ultima Età, quella dei Terremoti era
ancora in corso al tempo della conquista spagnola e
prevedeva la fine della terra causata da grandi sismi,
con il dominio del Dio Tonatiuh, l’“Aquila che vola in
alto”.
Ciò che, però, viene a mancare, è l’ultimo elemento di
certezza: la possibilità di una fine della “Quinta Età”
ancora lontana.
Così, convinti che l’universo fosse minacciato da forze
ostili, gli Aztechi erano assillati dall’esigenza di
prorogare l’incombente catastrofe con incessanti atti di
purificazione. Di qui il ricorso ai sacrifici umani,
tributati al Dio Huitzilopochtlì e un’etica di astinenza
che facevano della società azteca un mondo cupo ed
austero, riconoscibile nella rigida stratificazione
delle gerarchie sociali che venivano a formare una
rigidissima piramide sociale formata da: I - Nobili
(sacerdoti e militari); II - Artigiani; III - Mercanti;
IV - Coltivatori; V - Servi; VI - Schiavi.
E’ proprio tale piramide sociale a fornirci la chiave di
lettura dell’escatologia azteca, che estremizza, con la
sua perpetua incombenza dell’eschaton, quei tratti
consci o inconsci di perpetuazione del potere che
abbiamo già incontrato in riferimento alla classe
sacerdotale della precedente cultura maya.
Non a caso la religione era parte di tutti i livelli
della società azteca: a livello statale veniva
controllata dall’imperatore e dagli alti sacerdoti che
governavano i templi e veniva espressa attraverso grandi
feste mensili e numerosi altri rituali accentrati sulla
dinastia regnante, nel tentativo di stabilizzare i
sistemi cosmico e politico.
In tutta la società, ogni
livello aveva i propri rituali e divinità, svolgendo il
loro compito nei grandi rituali comunitari. Così, di
fatto, il governo era ordinato quasi per caste,
prevedeva una sorta di diarchia tra funzioni civili e
religiose, con una netta prevalenza delle seconde sulle
prime, che, praticamente, proprio dagli atti religiosi
dipendevano.
E’ in questo quadro di dipendenza diretta di ogni
aspetto della vita quotidiana dalla casta sacerdotale,
dai “tlamacazqui” (sacerdoti) il cui compito era
assicurare che agli dei venisse dato il necessario sotto
forma di offerte, cerimonie e sacrifici, che dobbiamo
inserire numerosissimi aspetti della religione azteca,
dalla credenza, per lo meno peculiare in un sistema di
pensiero che prevedeva la metempsicosi, in un “Mictlan”
una sorta di limbo popolato da orrendi mostri
mitologici, in cui sarebbero transitate (a tempo
indefinito) le anime di coloro che non eseguivano il
volere divino (di cui i tlamacazqui erano portavoci),
alla esistenza di una specie di confessione pubblica dei
peccati (una persona poteva confessare un peccato ed
essere immediatamente perdonato, come se non fosse mai
successo, ma, una volta confessato un peccato, non si
poteva più reiterarlo, pena la morte), al continuo
ricorso a sacrifici umani, che divennero uno dei tratti
più noti della spiritualità di questo popolo.
Alla base di questi ultimi vi era l’idea che anche gli
Dei dovevano cibarsi dell’essenza stessa della vita,
cioè del sangue offerto dal patrono Huitzilopochtli,
personificazione del Sole e Dio della Guerra, il quale
giornalmente combatteva per il popolo azteco allo scopo
di garantire la continuità della vita contro
l’ineluttabilità dell’eschaton. Così la morte era
strumentale alla perpetuazione della creazione e gli
uomini avevano il dovere di autosacrificarsi su comando
dei sacerdoti proprio a tale scopo.
Inutile ricordare quanto tutto ciò potesse risultare uno
strumento potentissimo di dominio e di “ibernazione”
dello status quo…
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