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filosofia, religione


N. 16 - Aprile 2009 (XLVII)

A proposito del 2012…
Uno sguardo storico sulle origini mesoamericane del mito

di Lawrence M.F. Sudbury

 

Se ne sente parlare continuamente, a tratti con toni millenaristi: il 2012, secondo molti, porterà la fine del mondo (almeno del mondo come lo conosciamo oggi) con sconvolgimenti cosmici epocali. Ma ne siamo così certi?

Forse, prima di farsi travolgere da una sorta di preludio all’isteria collettiva, è il caso di analizzare un po’ più in profondità i fondamenti storico-sociologici che hanno portato sia alla determinazione di tale data che al suo uso prettamente politico all’interno delle culture che hanno sviluppato tale concezione: i Maya e, in seguito, anche se con minor precisione, gli Aztechi.

I Maya, pur avendo origini antichissime (i primi insediamenti si possono attribuire al 1500 a.C.), solo verso il 300 a.C. si cominciano a riunire in vere e proprie città, per lo più localizzate negli attuali territori del Veracruz, Yucatán, Campeche, Tabasco e Chiapas in Messico, nella maggior parte del Guatemala e alcune aree del Belize e dell'Honduras. Il loro periodo classico, compreso tra il 300 ca. e il 900 d.C., è caratterizzato dalla diffusione in tutti i territori maya di una cultura pressoché uniforme, con un notevole sviluppo nel campo dell’organizzazione culturale, politica e tecnologica, che culmina in uno scenario dove ogni città diventa un piccolo stato che ha contatti con gli altri nuclei abitativi solo per scambi commerciali.

 

Intorno al 900, questi centri vengono misteriosamente abbandonati (le ipotesi spaziano da carestie ad eventi naturali) e parte della popolazione si sposta nello Yucatàn, dove la civiltà maya ha il suo centro del periodo seguente, fino a che, intorno al 1000 d.C., problemi legati a catastrofi naturali, pestilenze, uragani e, di conseguenza, raccolti andati perduti che portarono carestie e guerre fra le varie città, ne provocarono l’assoggettamento agli Aztechi e la progressiva decadenza, che raggiunge il culmine con la conquista spagnola all’inizio del XVI secolo. Fin qui un accenno alla loro storia.

Lungo tutto il lungo arco di vita dei Maya, il potere politico-esecutivo, rimase nelle mani di re che ereditavano il titolo in linea maschile, assistiti da capi locali che distribuivano le terre alle famiglie dei villaggi, ma il vero potere risiedeva nelle mani della casta sacerdotale, capace di influenzare profondamente (e, più spesso, di determinare) le decisioni reali sulla base di un sistema religioso omninglobante e permeato da fortissimi tratti di superstizione.

Dal momento che quella dei Maya è l'unica civiltà precolombiana che ha lasciato numerose ed estese iscrizioni in una scrittura logosillabica e che la conoscenza di tale scrittura era appannaggio unicamente della casta sacerdotale e dei dignitari d'alto rango, che, ovviamente, riflettevano i loro interessi nei loro testi, abbiamo una conoscenza piuttosto estensiva della religiosità di questo popolo.

Sostanzialmente, quelle che possiamo definire come le divinità della religione maya sono rappresentazioni plastiche di esseri sovrannaturali (transeunti, in quanto unicamente figure mediatrici tra uomini e un “Principio creatore” inconoscibile) composte da tratti altamente stilizzati di svariati animali ed elementi vegetali, talvolta combinati con forme umane.

 

Tali dei erano venerati per ciò che rappresentavano secondo il significato loro attribuito dai sacerdoti, ma erano visti, come già probabilmente nelle culture olmeca e tolteca, come entità imperfette che nascevano e morivano, quindi bisognose d'essere alimentate per sopravvivere. Per i Maya, dunque, non esistevano esseri immutabili, e gli dei stessi erano costantemente soggetti a cambiamenti in una iconografia vastissima.

Al di là delle diverse forme rappresentative, possiamo comunque ritenere che il Sole (Itzamná) fosse la divinità suprema, asse intorno al quale si sviluppava la vita, generatore del tempo, origine del divenire e, quindi, delle quattro stagioni e della quadruplicità del cosmo: è luce (ossia vita, giorno, ordine, bene) quando sorge ed è giaguaro quando è il tramonto, ha grandi occhi quadrangolari e strabici, dente limato, lingua sporgente, zanne spiraliformi agli angoli della bocca e presenta una forma a 8 sulla fronte rappresentante il corpo di un serpente, è unione di tutti gli animali sacri (giaguaro, cervo, colibrì, aquila, gazza, ara) e, soprattutto, è la divinità protettrice dei sacerdoti e degli astronomi.

 

Gli fanno da “spalla” il dio Chaac (una variante del dio drago che presenta naso cascante, pupille a forma di spirale, zanne ricurve e serpentine e impugna un'ascia o una torcia), il dio più citato nei documenti ufficiali, da cui dipendono la pioggia e la siccità e il Dio del Mais (dai cui occhi esce una serie di foglie della suddetta pianta ma che è privo di tratti animali e attributi zoomorfi visto che è l'uomo stesso nasce da un impasto di granoturco), più alcune dee, tra le quali particolarmente importante è la dea lunare della fertilità che, invecchiando, si trasforma nella dea della pittura o quella della tessitura.

è particolarmente significativo che tutte queste divinità legate al ciclo naturale agricolo e procreativo, in un popolo che dell’agricoltura faceva il suo fondamentale mezzo di sostentamento, fossero, comunque, subalterne alla divinità legata alla casta sacerdotale e allo studio del calendario astronomico.

Il fatto è che i Maya avevano ereditato dai Toltechi, accentuandola, una vera ossessione per il tempo. Il loro intero territorio, con le sue centinaia di città di pietra può essere classificato come un enorme monumento in stretta relazione con il tempo: sulle mura che cingevano i campi per il gioco della palla, sui templi, sugli architravi, sui pannelli scolpiti e addirittura sulle conchiglie e sulla giada i Maya per un periodo di circa 1000 anni incisero le relative date non appena arrivavano alla conclusione dell'opera, o la incisero per celebrare qualche avvenimento del passato.

La conseguenza di questa sorta di “mania” per il calcolo del tempo è sotto gli occhi di tutti: il loro calendario è estremamente preciso, con il suo calcolo della durata dell'anno solare in 365,2420 giorni (con un errore per difetto di soli 0,0002 giorni, mentre quello attualmente utilizzato da noi erra di circa 0,0003 giorni...), e di quello lunare in 29,528395 (di poco inferiore al valore reale).

 

I Maya avevano altresì sviluppato un perfetto metodo di previsione delle eclissi, avendo nozione che esse possono avvenire soltanto 18 giorni prima o dopo del nodo (cioè punto in cui l'orbita lunare interseca quella apparente del sole) e conoscevano anche il concetto di zero, inteso come valore nullo, ma concreto allo stesso tempo.

Ma il calendario maya andava oltre, collegandosi ai fenomeni celesti di un altro importante pianeta: Venere: gli astronomi-sacerdoti di questo popolo sapevano che Venere era sia l'astro del mattino e sia quello della sera; sapevano che esso compie un giro intorno al sole in 224,7 giorni, mentre la terra in 365,2420 giorni e che il risultato combinato di questi due elementi è che il pianeta Venere sorge esattamente nello stesso punto del cielo visibile dalla Terra ogni 584 giorni (una quantità che sapevano persino essere approssimata, visto che stimarono i giorni della rivoluzione sinodica media di Venere in 583,92, lo stesso numero che si è calcolato ai giorni nostri).

 


I maestri Maya utilizzarono queste loro ampie conoscenze creando un complesso sistema di calcolo calendaristico. Ogni 61 anni venusiani praticavano un aggiustamento di 4 giorni per armonizzare il ciclo sinodico di Venere con il loro anno sacro (composto da 260 divisi in 13 mesi da 20 giorni ciascuno).

 

Nel corso di ogni V ciclo, alla fine della cinquantasettesima rivoluzione veniva effettuato un aggiustamento di 8 giorni, che interrelava così strettamente l'anno sacro Maya con la rivoluzione sinodica di Venere da produrre semplicemente l'errore di un giorno ogni 6000 anni. Tutta un'altra serie di aggiustamenti facevano sì che risultasse interrelato anche il normale calendario solare, che venne reso in grado di funzionare senza errori su archi di tempo eccezionalmente lunghi.

La domanda a questo punto è ovvia: che motivo avevano i Maya di adottare un così preciso calendario? Il motivo era uno solo: l'ossessione del tempo nasceva dal fatto che essi ritenevano di sapere esattamente quanto il mondo fosse destinato a durare. Il segreto di ciò sta nel cosiddetto “lungo computo”.

 

Esso è un sistema per calcolare le date, fortemente impregnato da credenze del passato ma anche sostanzialmente precisissimo, costituito da 9 elementi fondamentali. Il primo elemento era il Giorno che si chiama Kin, che nominava anche il Sole e il sacerdote solare, quindi qualcosa di vicino, di caldo e vitale. Ogni giorno aveva un proprio nome e quindi vi erano diversi Kin. Di seguito vi erano i Uinal, i mesi: sono di 20 giorni più un mese aggiuntivo di 5 giorni per arrivare a 365.

 

I Maya non aggiungevano un giorno ad un mese ogni 4 anni come facciamo noi, non c'era l'anno bisestile, tutti gli anni c'era un mese di 5 giorni, quindi arrivavano sempre a 365. Il passaggio successivo era il Tun che equivale all'anno di 365 giorni a cui seguiva il Katun che sono 20 anni, cioè 20 Tun, poi il Baktun, il Karaktun, che moltiplicano sempre per 20, il Kinciltun fino ad arrivare all'Autun.

Alla base di tutto stava la concezione che il tempo fosse ciclico e che la stessa influenza e le stesse conseguenze si ripetessero in ogni determinato periodo nella storia. Diego de Landa, il primo occidentale a venire a contatto e a studiare approfonditamente la cultura maya scrisse nei suoi diari: “[i Maya] Riuscivano a calcolare meravigliosamente le loro epoche, e così era facile per un vecchio con il quale mi capitò di parlare, di ricordare tradizioni che risalivano a trecento anni prima. Chiunque abbia messo ordine al loro calcolo dei katun, fosse stato anche il diavolo, lo ha fatto con una esattezza mai nel passato eguagliata.”

Il senso ultimo della ciclicità temporale ci viene svelato da quello che è universalmente conosciuto come Codice di Dresda, uno dei tre codici Maya sopravvissuti per puro miracolo alla furia della conquista spagnola, che fece purtroppo terra bruciata dell'intera cultura Maya.

 

Il Codice di Dresda (o Codex Dresdensis) è il più bello e il più complesso dei tre, risale probabilmente all'XI o XII secolo e ricopia quasi sicuramente un originale del periodo classico: parla delle eclissi, della rivoluzione sinodica di Venere, di riti religiosi e di pratiche divinatorie, per ben 70 pagine.

 

Scoperto a Vienna nel 1739, e in seguito acquistato dalla biblioteca di Sassonia, è proprio questo testo che ha permesso a Ernst Forstermann, impiegato di quella biblioteca, di decifrare una parte del calendario Maya.

Ciò che possiamo desumere da esso è che alla base di tutta la cultura “cronometrica” maya vi è un intensissimo sentimento escatologico. Secondo i Maya ci erano cinque “Ere Cosmiche”, corrispondenti ad altrettante civiltà. Le precedenti quattro Ere (dell’Acqua, Aria, Fuoco e Terra) sarebbero tutte terminate con degli immani sconvolgimenti ambientali. Ogni ciclo durava 1 milione e 872 000 giorni. Il ciclo che ora stiamo vivendo, l’“Età dell’Oro” ha avuto inizio il 13 agosto dell'anno 3114 prima di Cristo e finirà in una data di cui oggi si sente molto parlare, spesso anche a sproposito, il 21 dicembre 2012.

I sacerdoti erano del tutto sicuri dell'attuale ciclo ed erano altrettanto convinti che fosse l'ultimo: quando il mondo avrà completato questo ciclo, dicevano, finirà fra disastrose inondazioni che porteranno terremoti e incendi. In effetti, però, sappiamo poco su come i Maya immaginassero la fine del mondo: l'unica immagine possiamo averla osservando l'ultima pagina del Codice di Dresda, in cui si vede l'acqua che distrugge il mondo fuoriuscendo dai vulcani, dal Sole e dalla Luna e generando oscurità che prevale sulla luce.

Come spiegare tutto ciò?
In realtà, possiamo parlare di almeno due ordini di spiegazioni possibili, uno più prettamente astronomico-scientifico e uno più direttamente politico-psicologico.

Riguardo al primo, secondo i ricercatori Maurice Cotterell e Adrian Gilbert, i cataclismi che caratterizzarono la fine delle Ere Maya furono causati da una inversione del campo magnetico terrestre, dovuto ad uno spostamento dell’asse del pianeta. La Terra infatti subirebbe periodicamente una variazione dell’inclinazione assiale rispetto al piano dell’ellittica del sistema solare. Ciò provocherebbe scenari apocalittici, ben descritti dallo storico Immanuel Velikvosky nel suo libro Earth in Upheaval: “... Un terremoto farebbe tremare il globo intero. Aria e acqua si muoverebbero di continuo per inerzia, la Terra sarebbe spazzata da uragani e i mari investirebbero i continenti... La temperatura diverrebbe torrida e le rocce verrebbero liquefatte, i vulcani erutterebbero, la lava scorrerebbe dalle fratture nel terreno squarciato, ricoprendo vaste zone. Dalle pianure spunterebbero come funghi le montagne, che continuerebbero a salire sovrapponendosi alle pendici di altre montagne e causando faglie e spaccature immani. I laghi sarebbero inclinati e svuotati, i fiumi cambierebbero il loro corso, grandi estensioni di terreno verrebbero sommerse dal mare con tutti i loro abitanti. Le foreste sarebbero divorate dalle fiamme e gli uragani e i venti impetuosi le strapperebbero dal terreno... Il mare, abbandonato dalle acque, si tramuterebbe in un deserto. E se lo spostamento dell’asse fosse accompagnato da un cambiamento nella velocità di rotazione, le acque degli oceani equatoriali si ritirerebbero verso i poli e alte maree e uragani spazzerebbero la Terra da un polo all’altro... Lo spostamento dell’asse cambierebbe il clima in ogni luogo... Nel caso di un rapido spostamento dell’asse terrestre, molte specie di animali sulla Terra e nel mare sarebbero distrutte e la civiltà, se ancora esistesse, sarebbe ridotta in rovine”.

Ovviamente, si tratta solo di una teoria possibile, per quanto almeno parzialmente suffragata da dati scientifici. Di fatto, comunque si voglia interpretare questo dato, anche secondo le predizioni dell’astronomo babilonese Berosso il 23 dicembre 2012 dovrebbe corrispondere alla “fine dei tempi”, e certamente quel giorno vedrà una disposizione planetaria così singolare ed unica da verificarsi soltanto una volta ogni 45.000 anni, il che, per altro, potrebbe anche spiegare la ragione per cui numerosi astronomi di varie civiltà abbiano appuntato la loro attenzione proprio su quel momento.

Venendo, comunque, a scenari meno inquietanti, la visione escatologica maya potrebbe, come detto, essere spiegabile anche in termini molto più legati al pensiero umano.


Si è visto che la società maya, fortemente gerarchizzata, aveva alla sua sommità la classe sacerdotale. Ipotizziamo per un momento che i Maya conservassero memoria, o, forse più probabilmente, avessero ereditato dalle precedenti civiltà la nozione di uno o più cataclismi cosmici (ad esempio qualcosa di analogo al “diluvio universale”, legato alla fine delle grandi glaciazioni). Ebbene, la concezione di un tempo ciclico avrebbe rappresentato una tremenda “arma di ricatto” o meglio, un’enorme leva per la conservazione, cosciente o no che fosse, del potere in mano alla classe sacerdotale, rappresentanti del “volere divino” in terra.

In questo senso, non apparirebbe così strano che gran parte della religiosità maya (come, pare, le precedenti olmeche e tolteche) si basasse sul sentimento della paura, a partire dalla “mostruosità” delle raffigurazioni divine. Così, l’universo maya era travagliato dalla perenne lotta fra le potenze del male e del bene: il bene portava la pioggia, la fertilità e l'abbondanza, mentre il male portava la siccità, gli uragani e le guerre. Sopra la terra esistevano 13 cieli di beatitudine e dietro di essi 9 d'inferno: nel paradiso finale non esistevano più né dolore né povertà, né pesanti carichi da sopportare, ma nell'inferno finale c'erano fame, freddo e miseria e per esservi condotto era sufficiente non obbedire al comando degli dei (cioè dei sacerdoti).

L’eschaton, in questo quadro, si strutturava come conoscenza ultimativa della casta di potere: solo i sacerdoti, con le conoscenze astronomiche di cui erano soli possessori, potevano predire il momento finale, computarne i termini di avvicinamento e stabilire, sulla base del calendario costruito e calcolato in vista di tale avvicinamento, il corretto comportamento verso il divino da parte del popolo. Dal momento, poi, che, secondo le credenze maya, solo con il dolore ed il sacrificio si potevano espiare i peccati commessi contro gli dei, tale conoscenza diveniva anche fonte di potere di vita e di morte e di riaffermazione della superiorità sacerdotale persino sulle figure nobiliari e regali: tutta la città partecipava attivamente ai riti sacrificali e anche il re era soggetto di riti propiziatori attraverso salassi di sangue, durante i quali egli si procurava volontariamente delle ferite, raccoglieva il suo sangue e lo bruciava in nome degli dei.

La “presa” di tale sistema è comprensibile anche solo focalizzandosi sulla questione sacrificale: la continua necessità di vittime sacrificali portava spesso all’utilizzo dei prigionieri di guerra ed è ormai ampiamente accettato il fatto che, in una società prettamente agricola e fondamentalmente pacifica come quella dei Maya, spesso gli scontri tra due città avvenissero solamente per procurarsi schiavi e future vittime sacrificali.

In seguito, come già avevano fatto i Maya con le culture che li avevano preceduti, dagli Olmechi ai Toltechi, così gli Aztechi inglobarono gran parte dei tratti religiosi ereditati dalle civiltà sottomesse (in primo luogo proprio i Maya) radicalizzandone alcuni tratti peculiari.

Di per sé, la storia degli Aztechi presenta, per gli studiosi odierni ancora numerosi tratti oscuri. La leggenda più diffusa all’interno del corpus mitologico azteco vuole che i Mexicas (come gli Aztechi si definivano) fossero partiti da una zona detta Azecti per giungere dopo una lunga peregrinazione nell’area vulcanica intorno al lago Texcoco, ultimi di un certo numero di tribù in migrazione dalle zone desertiche.

 

Poveri e non bene accetti da parte delle popolazioni che li circondavano, riuscirono comunque a stabilirsi, accettando ed assimilando la cultura tolteca, a fondare, nel 1325, Tenochtitlàn, che divenne la loro capitale, e a formare il nerbo di un esercito mercenario durante una serie di guerre civili tolteche. Proprio attraverso tale esercito e l’impronta militare che da subito assunse la loro civiltà, gli Aztechi sottomisero progressivamente diverse tribù, in un crescendo che, tra l’ultimo quarto del XIV secolo e il 1519 (anno di arrivo degli spagnoli), vide la nascita del più grande impero che fosse mai esistito nel Centroamerica, sebbene oggi più che di impero parleremmo di “protettorato”, dal momento che il territorio sottoposto alla sovranità azteca era composto da molte etnie e si caratterizzava più come un sistema di tributi che come un vero e proprio sistema di amministrazione.

E’ probabile che Graham Hancock abbia ragione quando definisce gli Aztechi un popolo scarsamente dotato dal punto di vista scientifico (non arrivò mai a sviluppare tecnologie piuttosto elementari come quelle dell’arco e della ruota), ma certamente si trattava di un popolo con una impressionante capacità osmotica dal punto di vista culturale e con una propensione a innestare elementi nuovi su rami di pensiero già sviluppati.

Cosi, ad esempio, gran parte delle divinità del loro pantheon provenivano da altri popoli: la dea della fertilità, Xipe Totec, ad esempio, era in origine una dea degli Yopi, altre divinità, tra cui Tezcatlipoca e Quetzalcoatl, avevano radici nelle civiltà olmeche, tolteche e maya, altre ancora provenivano da popoli assoggettati ma venivano identificati con un dio preesistente.

 

Tutti, però, vennero “sottomessi” ad una sorta di “spirito creatore”, detto “Teotl”, che appare se non autoctono (qualcosa di simile era presente come “Dio Supremo Inconoscibile” tra i Maya) almeno specificato nelle sue funzioni di continuo rinnovamento dell’esistente come mai prima nelle culture centroamericane.

Un altro chiarissimo esempio di ripresa da culture precedenti riguarda il calendario. Ereditando l’incredibile cultura astronomica maya, gli Aztechi elaborarono una sorta di doppio calendario, che conosciamo soprattutto grazie all’analisi della cosiddetta “Pietra del Sole”, un disco di pietra dal diametro di 3 metri e mezzo e del peso di piú di 24 tonnellate, sfuggito miracolosamente alla distruzione degli idoli da parte dei conquistadores e rinvenuto sotto la cattedrale di Città del Messico, che raffigura il calendario e la cosmogonia degli Aztechi.


Il tempo era scandito secondo il cosiddetto “Tonalpohualli”, un calendario rituale di 260 giorni con in piú 5 giorni nefasti, e il calendario solare maya di 365 giorni. I cicli “secolari” degli Aztechi coprivano un arco di tempo di 52 anni e ogni cambio di secolo era preceduto da giorni di angoscia e di terrore per la fine del mondo.

 

Ogni anno veniva celebrata la cerimonia del Fuoco Nuovo che iniziava con l’osservazione degli astri nel santuario di Quetzalcóatl a Xochicalco, a sud di Città del Messico, per calcolare il giorno propizio: in tutto il regno venivano spenti i fuochi, gli attrezzi e il vasellame vecchio venivano distrutti e la gente rimaneva chiusa in casa. Il rito si concludeva con l’accensione di una nuova torcia nel grembo di una vittima sacrificale e il Fuoco Nuovo era portato in processione verso i bracieri sui templi.

Tutto ciò, soprattutto per quanto riguarda la prospettiva escatologica, rappresenta per alcuni versi una ripresa e per altri un’innovazione rispetto alla cultura maya, con una certezza dell’eschaton futuro ma, allo stesso tempo, una perdita della certezza riguardante la sua data finale.

 

Questo meccanismo di riproposizione culturale e di “variazione tematica” si ripresenta costantemente in questo campo. Ad esempio, la concezione cosmogonica del mondo azteco, per quanto piuttosto complessa, è fondamentalmente riconducibile alla ciclicità maya e, conseguentemente, riducibile in cinque età, ciascuna dominata da alcuni fattori determinati: con l’“Età dei Quattro Giaguari”, la terra nacque e venne subito popolata da Giganti, i quali in seguito furono divorati dai giaguari stessi; l’“Età dei Quattro Venti” vide gli uomini mutati in scimmie e la terra sconvolta da uragani sotto il Dio Quetzalcoatl; la terza “Età delle Piogge”, dominata dal Dio Tlaloc, fu contraddistinta da piogge di fuoco; la successiva “Età delle Acque” ebbe enormi inondazioni che trasformarono gli uomini in pesci sotto il segno della Dea Chalchihuitlicue; l’ultima Età, quella dei Terremoti era ancora in corso al tempo della conquista spagnola e prevedeva la fine della terra causata da grandi sismi, con il dominio del Dio Tonatiuh, l’“Aquila che vola in alto”.

Ciò che, però, viene a mancare, è l’ultimo elemento di certezza: la possibilità di una fine della “Quinta Età” ancora lontana.


Così, convinti che l’universo fosse minacciato da forze ostili, gli Aztechi erano assillati dall’esigenza di prorogare l’incombente catastrofe con incessanti atti di purificazione. Di qui il ricorso ai sacrifici umani, tributati al Dio Huitzilopochtlì e un’etica di astinenza che facevano della società azteca un mondo cupo ed austero, riconoscibile nella rigida stratificazione delle gerarchie sociali che venivano a formare una rigidissima piramide sociale formata da: I - Nobili (sacerdoti e militari); II - Artigiani; III - Mercanti; IV - Coltivatori; V - Servi; VI - Schiavi.

E’ proprio tale piramide sociale a fornirci la chiave di lettura dell’escatologia azteca, che estremizza, con la sua perpetua incombenza dell’eschaton, quei tratti consci o inconsci di perpetuazione del potere che abbiamo già incontrato in riferimento alla classe sacerdotale della precedente cultura maya.

Non a caso la religione era parte di tutti i livelli della società azteca: a livello statale veniva controllata dall’imperatore e dagli alti sacerdoti che governavano i templi e veniva espressa attraverso grandi feste mensili e numerosi altri rituali accentrati sulla dinastia regnante, nel tentativo di stabilizzare i sistemi cosmico e politico.

 

In tutta la società, ogni livello aveva i propri rituali e divinità, svolgendo il loro compito nei grandi rituali comunitari. Così, di fatto, il governo era ordinato quasi per caste, prevedeva una sorta di diarchia tra funzioni civili e religiose, con una netta prevalenza delle seconde sulle prime, che, praticamente, proprio dagli atti religiosi dipendevano.

E’ in questo quadro di dipendenza diretta di ogni aspetto della vita quotidiana dalla casta sacerdotale, dai “tlamacazqui” (sacerdoti) il cui compito era assicurare che agli dei venisse dato il necessario sotto forma di offerte, cerimonie e sacrifici, che dobbiamo inserire numerosissimi aspetti della religione azteca, dalla credenza, per lo meno peculiare in un sistema di pensiero che prevedeva la metempsicosi, in un “Mictlan” una sorta di limbo popolato da orrendi mostri mitologici, in cui sarebbero transitate (a tempo indefinito) le anime di coloro che non eseguivano il volere divino (di cui i tlamacazqui erano portavoci), alla esistenza di una specie di confessione pubblica dei peccati (una persona poteva confessare un peccato ed essere immediatamente perdonato, come se non fosse mai successo, ma, una volta confessato un peccato, non si poteva più reiterarlo, pena la morte), al continuo ricorso a sacrifici umani, che divennero uno dei tratti più noti della spiritualità di questo popolo.

Alla base di questi ultimi vi era l’idea che anche gli Dei dovevano cibarsi dell’essenza stessa della vita, cioè del sangue offerto dal patrono Huitzilopochtli, personificazione del Sole e Dio della Guerra, il quale giornalmente combatteva per il popolo azteco allo scopo di garantire la continuità della vita contro l’ineluttabilità dell’eschaton. Così la morte era strumentale alla perpetuazione della creazione e gli uomini avevano il dovere di autosacrificarsi su comando dei sacerdoti proprio a tale scopo.

Inutile ricordare quanto tutto ciò potesse risultare uno strumento potentissimo di dominio e di “ibernazione” dello status quo…

 

 

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