N. 92 - Agosto 2015
(CXXIII)
L’ANNO DEL DIVORZIO
il 1974 e IL LUNGO DIBATTITO TRA POLITICA E SOCIETÀ CIVILE
di Samantha Ferrari
Poco più di quarant’anni fa, il 12 maggio 1974, l’Italia si divise in due di fronte al referendum abrogativo del divorzio. La posta in gioco era il mantenimento o la cancellazione della legge Fortuna - Baslini che lo aveva introdotto nell’ordinamento giuridico, il 1 dicembre 1970.
L’elettorato,
tradendo
e
stupendo
le
parti
politiche
soprattutto
missine
e
democristiane,
era
ben
orientato
e
deciso
nel
voto:
il
fronte
divorzista,
sostenuto
da
PCI,
PSI,Partito
Radicale,
vinse
con
il
59,2%
dei
voti.
Per
poter
comprendere
nel
profondo
ciò
che
permise
l’introduzione
del
divorzio
e
ancor
più
il
suo
mantenimento,
nonostante
i
numerosi
tentativi
della
democrazia
cristiana,
della
Santa
Sede
e
della
Cei
(Conferenza
Episcopale
Italiana)
di
sabotarlo,
è
necessario
riflettere
sull’Italia
del
periodo
e
sui
cambiamenti
sociali
e
culturali
che
la
attraversavano.
Il
periodo
tra
gli
anni
cinquanta
e i
settanta,
è
stato
per
tutte
le
società
occidentali,
ricco
di
straordinari
mutamenti
in
tutti
gli
ambiti
della
vita
pubblica
e
privata.
La
crescita
economica
e lo
sviluppo,
ridefinirono
la
sfera
privata
dove
i
modelli
tradizionali
venivano
progressivamente
abbandonati
e
screditati.
I
movimenti
femministi,
sorti
negli
Stati
Uniti
e
poi
in
Europa
e
ancor
dopo
nel
nostro
paese,
misero
in
discussione
l’assetto
tradizionale
delle
relazioni
e
delle
identità
di
genere.
La
modernizzazione
dirompente
assestò
un
duro
colpo
alla
mascolinità
tradizionale
che
si
vedeva
nuovamente
minacciata.
I
tradizionalisti
e
diciamola
l’Italietta
bigotta
del
periodo,
dovette
assistere
alla
progressiva
femminilizzazione
della
società
ovvero
all’ascesa
delle
donne
nel
mondo
del
lavoro.
Nel
corso
degli
anni
sessanta,
mano
a
mano
che
si
delineava
una
cultura
industriale
e la
secolarizzazione
della
società
in
cui
tutto
veniva
ridefinito,
gli
uomini,
ma
soprattutto
il
mondo
femminile
accoglieva
di
buon
grado
la
definizione
delle
nuove
identità
di
genere.
Le
donne
ad
esempio,
iniziarono
a
desiderare
di
affermarsi
come
individui
autonomi
ed
indipendenti
e
non
più
chiuse
e
costrette
nei
tradizionali
ruoli
che
la
società
imponeva
loro:
mogli
,
madri.
Bisognerà
attendere
la
seconda
metà
degli
anni
sessanta
per
assistere
alla
diffusione
del
neofemminismo..
Mariella
Gramaglia,
studiosa
del
movimento
delle
donne
e
per
un
certo
periodo
della
rivista
“Noi
donne”
promossa
dall’UDI,
(Unione
Donne
Italiane),
parlando
del
femminismo
italiano
disse
“il
femminismo
in
Italia
venne
dopo
il
1968
ma
andò
oltre”.
Le
femministe
degli
anni
settanta
denunciavano
la
logica
maschile
che
governava
l’intero
sistema
di
rapporti
pubblici
e
privati
in
una
società
creata
ad
immagine
e
somiglianza
dell’uomo
dove
le
donne
avevano
poche
concrete
possibilità
di
realizzarsi.
La
critica
femminista
alla
società
tradizionale
moralista,
influenzò
l’opinione
pubblica
sia
maschile
che
femminile
riguardo
alle
identità
e
relazioni
di
genere.
La
loro
influenza
sulla
vita
politica
e
sociale
era
indiscussa:
la
costante
pressione
sulle
forze
di
governo
e
sulle
istituzioni
pubbliche,
portò
alla
legge
sul
divorzio,
alla
riforma
del
diritto
di
famiglia
nel
1975.
I
gruppi
di
donne
più
importanti
erano
l’UDI
di
stampo
comunista
e il
MLD,
movimento
di
liberazione
delle
donne
italiane,
di
stampo
radicale
che
alle
richieste
di
eguaglianza
univano
quelle
che
avrebbero
potuto
rafforzare
l’autonomia
delle
donne:
il
divorzio
e la
liberalizzazione
dell’aborto,
erano
gli
obiettivi
principali.
Perché
tanto
rumore
per
il
divorzio?
L’introduzione
del
divorzio
nell’ordinamento
italiano
nel
1970,
nonostante
le
innumerevoli
difficoltà,
i
rimbalzi
da
un
partito
all’altro,
fu
il
primo
fallimento
per
la
Chiesa
che
non
riuscì
a
impedirne
l’approvazione;
il
suo
mantenimento
sarebbe
stata
la
definitiva
sconfitta
politica.
Nella
bagarre
referendaria,
la
lotta
tra
il
fronte
divorzista
capeggiato
da
Enrico
Berlinguer
leader
comunista
e
quello
antidivorzista,
guidato
da
Amintore
Fanfani,
punta
di
diamante
della
DC,
era
senza
esclusione
di
colpi.
Se i
cattolici
e
l’MSI
di
Almirante
durante
la
battaglia
puntarono
sulla
difesa
dell’ordine
morale,
del
buon
costume
e
della
società
minacciata
dalla
nefandezza
del
divorzio
considerato
un
morbo
velenoso
capace
di
distruggere
la
famiglia
e
colpire
i
più
deboli,
i
figli,
il
fronte
divorzista,
scese
in
campo
combattendo
in
nome
della
civiltà,
della
libertà
e
del
progresso.
Berlinguer
infatti
commentando
il
risultato
elettorale,
parlerà
di
“prima
vittoria
laica
della
libertà”.
L’errore
della
democrazia
cristiana
è
l’aver
condotto
una
campagna
con
toni
da
crociata:
in
gioco
non
c’era
solo
un
rinnovamento
sociale,
culturale,
politico,
ma
soprattutto
la
sopravvivenza
stessa
della
chiesa
e
della
cristianità.
Il
fronte
cattolico
si
presentò
alla
prova
del
referendum
fortemente
diviso
al
suo
interno
tra
i
favorevoli
e
coloro
che
pur
essendo
contrari
alla
battaglia,
accettarono
la
linea
imposta
dal
segretario
Fanfani
:combattere
a
fianco
della
Chiesa
contro
il
divorzio.
Forse
la
mancata
coesione
interna
ha
pesato
sulle
decisioni
politiche
e
sul
modo
di
condurre
la
campagna
portando
alla
sconfitta.
All’interno
del
mondo
cattolico
però,
è
necessario
distinguere
il
ruolo
del
Papa,
della
Curia
e
dei
fedeli.
Se
inizialmente
Papa
Paolo
Vi
nel
1970
accolse
con
rammarico
l’approvazione
della
legge,
quattro
anni
dopo,in
piena
bagarre,
il
pontefice
si
distaccò
dal
dibattito
provocando
molto
spesso
l’irritazione
e il
disappunto
dei
movimenti
più
radicali
ed
intransigenti
del
clero.
Il
Santo
padre
era
indeciso
ed
influenzato
dalle
varie
posizioni
del
mondo
cattolico
e
sentiva
su
di
sé
il
peso
dello
scontro
che
poteva
dividere
ancor
più
la
Chiesa.
L’atteggiamento
dell’ala
integralista
della
Curia
era
ben
diverso:
il
cardinale
genovese
Giuseppe
Siri
attaccò
a
più
riprese
il
pontefice
sostenendo
che
la
sua
neutralità
sul
divorzio
aveva
determinato
un
vero
e
proprio
vuoto
di
potere
ma
soprattutto
che
l’accorato
appello
agli
elettori
doveva
essere
più
mirato
ed
esplicito.
Come
muoversi
in
questo
turbine
di
polemiche
che
divise
l’opinione
pubblica
nazionale
tra
uomini
e
donne,
abitanti
delle
città
e
delle
campagne,mondo
laico
e
mondo
cattolico?
è
qui
che
entra
in
gioco
la
“società
civile”.
Nel
caldo
clima
politico
culturale,
nella
sensibilizzazione
dell’opinione
pubblica
e
nel
dibattito,
hanno
avuto
un
ruolo
molto
importante
associazioni
che
lontane
dalla
politica
e
dai
giochi
di
palazzo
promossero
centri
di
discussione
costruttivi
sulla
scottante
questione
del
divorzio
abbandonando
ogni
retorica;
una
tra
queste
era
l’’associazione
di
cultura
e
politica
il
Mulino
nata
nel
febbraio
1965
per
volontà
di
un
gruppo
di
redattori
della
rivista
“ Il
Mulino”.
L’associazione,
attraverso
l’organizzazione
di
convegni,
la
pubblicazione
e la
promozione
di
forum
di
dibattito,
intendeva
contribuire
allo
sviluppo
culturale,
sociale
e
politico
dell’opinione
pubblica
orientandola
verso
una
scelta
ragionata
e
sempre
in
difesa
della
democrazia.
L’Associazione
era
formata
da
studiosi
ed
intellettuali
di
differente
formazione
uniti
da
un
comune
impegno
civile
e
democratico
fornendo
spunti
di
riflessione
ragionati
e
coesi
che
molto
spesso
mancavano
alla
classe
dirigente.
Nonostante
l’apparente
distacco
dalla
politica,
era
inevitabile
riferirsene
e
adottarne
spesso
forme
e
linguaggi.
Dibattito
politico
e
dibattito
civile
andavano
pari
passi
formando
un
tutt’uno.
Giorgio
Galli,
politologo
e
storico
italiano,
nel
suo
intervento
di
apertura
del
dibattito
promosso
dall’Associazione,
tenutosi
a
Milano
il
26
febbraio
1972,
chiarì
che
il
dibattito
sul
divorzio,
sulla
riforma
del
diritto
di
famiglia
era
di
fondamentale
importanza
in
quanto
interessava
uomini
e
donne
e
ancor
più
in
generale
l’intera
società
destinata
ad
un
inevitabile
cambiamento
culturale.
Parlando
del
divorzio
Galli
disse:"Il
divorzio
è
venuto
alla
ribalta
nella
società
italiana,
proposto
da
una
minoranza
intensa
,
anzi
direi
quasi
imposto
a
una
classe
politica
e
votato
nel
modo
che
tutti
conosciamo:
è
diventato
uno
dei
tanti
pezzi
di
scambio
nei
vari
compromessi
che
la
classe
politica
compie
[…]
è
stato
fatto
proprio
dalla
classe
politica;
arrivato
in
parlamento
nel
1965
ci
sono
voluti
cinque
anni".
Giorgio
Galli
sosteneva
che
il
referendum
introdotto
poco
prima
dell’abrogazione
dell’approvazione
della
Legge
Fortuna-Baslini
,
come
mezzo
per
contrastarla
in
seguito,
non
era
democratico
perché
metteva
in
gioco
i
diritti
personali
dell’individuo,
ma
soprattutto
perché
non
se
ne
comprendeva
la
natura;
spesso
infatti,
veniva
confuso
con
la
stessa
legge
Fortuna-Baslini.
Infatti
sostenne:
"Se
si
vuole
rivedere
la
legge
su
referendum
,
benissimo,
sarei
dalla
parte
di
coloro
che
sostengono
che
i
diritti
personali
non
possono
essere
materia
di
referendum
[…]
ritengo
che
sotto
questo
profilo
sia
altrettanto
legittima
l’iniziativa
della
minoranza
dinamica
che
ne
promuove
l’abrogazione
quanto
era
stata
legittima
l’iniziativa
della
minoranza
dinamica
che
attraverso
la
Lid
aveva
imposto
il
divorzio".
In
conclusione
al
suo
intervento
Giorgio
Galli,
sostenne
la
necessità
di
distinguere
la
questione
del
divorzio
dal
progetto
referendario
in
quanto
potevano
influenzare
il
giudizio
e
l’analisi
dell’opinione
pubblica.
A
pronunciarsi
in
favore
del
divorzio
era
Paolo
Ungari
che
nel
suo
intervento
sostenne:
"Io
sono
per
il
divorzio,
mi
sono
sposato
in
municipio
in
un
paese
a
regime
divorzista;
ma
in
questo
credo
perché
so
di
dover
molto
al
credo
laico
di
mio
padre
anche
se a
diciotto
anni
lasciavo
casa.
Di
fatto
noi
divorzisti
ci
siamo
trovati
a
condurre
lungo
tutti
questi
anni
una
vera
e
propria
lotta
su
due
punti:
contro
gli
indissolubilisti
da
una
parte,
contro
coloro
che
dichiarano
superato
l’istituto
famiglia
e
quindi
il
problema
stesso
del
matrimonio,
dall’altro.
Tanto
i
divorzisti
che
gli
antidivorzisti
hanno
in
comune
questo:
che
sono
fortemente
interessati
al
tema
della
famiglia
e se
vogliamo,
possono
apparire
gli
uni
agli
altri
dei
conservatori
con
diverse
strategie
dell’istituto
familiare".
In
aperta
difesa
della
famiglia,
dell’indissolubilità
del
vincolo
matrimoniale,
Gabrio
Lombardi
(importante
giurista
italiano
e
direttore
del
comitato
promotore
del
referendum)
riprese
le
problematiche
esposte
da
Galli
sostenendo
che
il
divorzio
e la
lotta
in
difesa
della
famiglia
non
poteva
essere
banalizzata.
L’introduzione
del
tanto
temuto
divorzio
avrebbe
portato
ad
una
progressiva
deresponsabilizzazione
da
parte
degli
individui
dei
propri
impegni.
L’indissolubilità
del
matrimonio
veniva
ribadita
a
gran
voce
sostenendo
che
la
famiglia
doveva
essere
difesa
perché
unico
punto
fermo
e
sicuro
nella
vita
dell’uomo.
L’idea
del
focolare
domestico
come
luogo
d’affetto,
di
cura,
sicurezza
e
protezione,
in
difesa
della
deludente
e
svilente
società,
è
stata
il
fulcro
della
propaganda
antidivorzista
che
trovava
il
proprio
target
nelle
famiglie
italiane
spesso
ingenue,
impaurite
e
ancora
ancorate
ad
un
moralismo
perbenista.
L’appuntamento
con
il
referendum
si
avvicinava
sempre
più
e
mise
in
luce
le
difficoltà,
il
disagio
non
soltanto
dei
politici
ma
soprattutto
dell’opinione
pubblica,
di
fronte
alla
legge
Fortuna-Baslini
perché
spesso
dubbiosi
sulla
posizione
da
assumere.
Nonostante
le
numerose
perplessità
e
critiche
mosse
dalla
società,
da
parte
dell’opinione
pubblica
, da
parte
delle
forze
politiche
alla
proposta
referendaria,
lo
scontro
frontale
tra
divorzisti
e
antidivorzisti,
era
inequivocabile.
Il
popolo
avrebbe
scelto
tradendo
ogni
aspettativa
ed
illusione
dei
fronte
scudocrociato.
La
famiglia
italiana
seppur
gradualmente
stava
cambiando:
la
maggior
consapevolezza,
un
miglior
livello
culturale
e
anche
un
impegno
sociale
e
civile
di
associazioni,
avevano
maturato
una
maggior
coscienza
e
occhio
critico
sulla
società.
Era
necessario
rinnovarsi
e
progredire.
Forse
è
stato
proprio
il
cambiamento
socio-culturale
italiano,
sull’onda
del
sessantotto,
a
permettere
la
ribalta
di
movimenti,
associazioni
non
politiche,
che
durante
la
campagna
svolsero
un
ruolo
cruciale.
L’Italia
stava
cambiando
e la
società
ma
soprattutto
la
politica,
dovevano
accettare
l’avvento
del
progresso
e
stare
al
passo
con
i
tempi.
La
campagna
del
1974
è
stata
la
prima
lotta
politica
di
vero
impatto
mediatico:
i
leader
politici
seppero
usare
con
intelligenza
il
mezzo
televisivo
che
permetteva
di
proiettare
video
propagandistici
di
impatto
sulla
popolazione
da
convertire
e
indirizzare.
Se
si
analizza
il
referendum
abrogativo
del
1974
e si
focalizza
l’attenzione
sull’uso
della
propaganda,
appare
ben
evidente
che
il
dibattito
sul
divorzio
è
stata
una
lotta
condotta
con
strumenti
mediatici
moderni.
Gli
spot
pubblicitari
e
promozionali
pro
o
contro
divorzio
tesi
ad
orientare
l’elettorato,
erano
numerosi.
Se
il
fronte
antidivorzista
era
più
tradizionalista
e
quindi
si
limitava
ad
interviste
per
la
città
in
cui
si
testava
la
conoscenza
degli
italiani
sul
divorzio,
a
comizi
di
un
agguerrito
Fanfani
e a
qualche
video
in
cui
si
demonizzava
il
divorzio,
la
vera
ventata
di
novità
proveniva
dal
fronte
divorzista.
E
qui
entra
in
gioco
la
società
civile.
Il
fronte
divorzista
ingaggiò
numerosi
testimonial
del
mondo
del
cinema
e
della
musica
inaugurando
quel
connubio
tra
politica
e
spettacolo.
Il
PCI
ad
esempio,
finanziò
la
produzione
di
filmati
pro
divorzio
diretti
da
Ugo
Gregoretti.
I
protagonisti
erano
gli
idoli
del
momento
come
Gianni
Morandi
e
Nino
Manfredi.
Gianni
Morandi
e la
moglie
Laura
intervistati
nell’intimità
della
vita
domestica
sostenevano
a
gran
voce
il
divorzio.
Per
avere
una
famiglia
solida,
felice,
collaborativa
basata
sull’affetto,
non
bisogna
costringere
una
famiglia
alla
sofferenza
chiudendo
gli
occhi
ma
dare
a
tutti
la
possibilità
di
formarsi
una
nuova
famiglia
per
diventare
finalmente
felici.
Per
far
imparare
ai
bambini
il
rispetto,
il
sentimento,
la
collaborazione,
è
giusto
farli
vivere
in
modo
felice
dove
i
genitori
si
vogliono
bene
e
dove
l’ambiente
non
è
dilaniato
da
rancori
.
La
legge
doveva
essere
mantenuta
perché
tutelava
il
diritto
di
ogni
individuo
a
porre
fine
ad
una
vita
triste
ed
infelice.
Difendere
il
diritto
alla
felicità
è il
nodo
cruciale
del
loro
appello.
L’intervento
si
concludeva
così:
chi
è
contrario
al
divorzio
impedisce
alle
famiglie
dilaniate
di
vivere
felici
e
sereni
Noi
siamo
felici
ma
voteremo
no
perché
crediamo
nella
serenità
della
famiglia.
Immagini
di
una
casa
accogliente
dove
regnava
l’armonia
erano
di
grande
impatto.
Il
divorzio
non
causava
la
rovina
delle
famiglie
,
non
dilaniava
gli
affetti
e la
stabilità
ma
anzi
era
un
modo
per
uscire
dall’infelicità.
Nino
Manfredi,
in
uno
spot
propagandistico
realizzato
dal
“Comitato
elettorale
per
il
no”,
riconosceva
l’importanza
del
vincolo
matrimoniale
indissolubile
“solo
se
giusto
e
non
se
era
fallito”,
se
la
convivenza
diventava
impossibile,
doveva
essere
interrotta:
è
meglio
il
divorzio
degli
screzi,
delle
corna
e
delle
botte”.
Interrompere
un
‘unione
infelice
infatti
era
un
vero
atto
di
responsabilità
verso
i
figli
e
verso
se
stessi.
L’obiettivo
della
propaganda
politica
era
attirare
l’attenzione
dei
telespettatori,
catalizzare
il
loro
interesse
ma
soprattutto
essere
d’impatto.
La
comunicazione
video
permetteva
di
entrare
direttamente
nelle
case
degli
italiani
che
venivano
così
informati
e
orientati
al
voto
senza
doversi
documentare
leggendo
articoli
di
giornale
e
seguire
documentari.
La
propaganda
televisiva
diciamo
che
“bucava
lo
schermo”.
Si
può
ancora
parlare
in
questo
caso
di
società
civile?
Se è
la
politica
a
servirsi
di
persone
distanti
dal
governo,
dunque
gente
comune,
la
società
civile
perde
la
sua
peculiarità
e
diventa
politica?
La
sua
identità
esiste
ancora?
Ciò
che
colpisce
è la
stretta
commistione
tra
politica
e
non
, lo
stretto
rapporto
,
l’alleanza
per
una
battaglia
comune
che
al
giorno
d’oggi
si è
persa.
Società
civile
e
politica
percorrono
due
rette
parallele.
Se
riflettiamo
sul
1974,
sull’intelligente
uso
della
propaganda
e
sull’impegno
della
società
civile,
appare
chiaro
che
tutto
ciò
è
stato
possibile
perché
sull’onda
del
’68,
sull’onda
dei
movimenti
femministi,
la
società
italiana
era
diversa
e
permise
il
cambiamento
ma
soprattutto
una
visione
critica
della
società
prima
soltanto
immaginata.
Concluderei
con
la
riflessione
antropologica
che
Pasolini
fa
immediatamente
dopo
il
12
maggio.
Ecco
lo
stralci
di
interviste
rilasciate
e
ora
raccolte
negli
Scritti
corsari.
Se
leggiamo
attentamente
le
parole
di
Pasolini,
appare
chiaro
che
la
sua
posizione
neghi
,
sia
contraria
la
socializzazione
, la
diffusione
dell’informazione
a
livello
popolare.
Pasolini
infatti,
partendo
dall’idea
di
una
“mutazione
antropologica”
degli
italiani,sosteneva
che
il
voto
non
fu
per
tutti
un
voto
ragionato,
coscienzioso
e
soprattutto
voluto,
ma
imposto
e
voluto
dalla
cultura
sociale
del
periodo.
L’informazione
e il
mezzo
televisivo,
proponevo
modelli
da
seguire
e
emulare.
Votare
al
referendum
è
stata
una
scelta
orientata,
guidata.
è
indubbio
che
il
risultato
finale
è
stato
favorito
di
un
abbandono
dei
valori
precedenti
sanfedisti,
perbenisti,
religiosi
o
semi
religiosi
in
cambio
dell’edonè
e
del
consumo.
Per
Pasolini
il
connubio
tra
referendum,
consumismo
e
sapiente
e
allo
stesso
tempo
diabolico
uso
della
macchina
televisiva,
era
inequivocabile.
A
questo
punto
che
dire?
Leggete
gli
scritti
del
marzo,
giugno
e
luglio
1974
raccolti
ne
Gli
scritti
corsari.