N. 102 - Giugno 2016
(CXXXIII)
1529:
FIRENZE
SOTTO
ASSEDIO
LA
RESISTENZA
DELLA
REPUBBLICA
FIORENTINA
ALLE
TRUPPE
IMPERIALI
di
Giulio
Talini
Firenze
dopo
la
calata
dei
Lanzichenecchi
«Abbiamo
preso
d’assalto
Roma;
gli
uccisi
furono
più
di
seimila,
saccheggiata
l’intera
città,
nelle
chiese
e
dentro
la
terra
prendemmo
tutto
ciò
che
trovammo».
Così
scriveva
Sebastian
Scherthlin,
un
lanzichenecco
che
partecipò
al
sacco
di
Roma
del
1527.
Le
sue
brevi
parole
descrivono
con
rara
efficacia
la
foga
e la
furia
dell’esercito
imperiale
che
per
settimane
ebbe
tra
le
mani
la
preda
più
succosa
che
l’Europa
aveva
da
offrire,
la
Città
Eterna.
Bartolomeo
da
Gattinara
scrisse
che
i
Lanzichenecchi
si
erano
«governati
come
veri
luterani».
Era
questo
il
tragico
epilogo
della
guerra
accanita
contro
l’ingombrante
presenza
di
Carlo
V in
Italia.
La
Lega
di
Cognac,
formatasi
nel
1526
e
composta
dalla
Francia
di
Francesco
I,
dal
Papato,
dalla
Repubblica
di
Firenze,
dai
Veneziani,
dai
Milanesi,
dai
Genovesi,
subiva
lo
smacco
più
grave.
L’obiettivo
di
allentare
la
morsa
di
Carlo
V
sulla
penisola
si
era
rivelato,
in
definitiva,
troppo
ambizioso.
L’incontrastato
imperversare
delle
truppe
dell’imperatore
su
tutto
il
territorio
italiano
ne
era
la
prova
più
eloquente.
A
Firenze
la
notizia
dello
spaventoso
sacco
fu
in
un
primo
momento
tenuta
nascosta
dalle
autorità.
La
città
era
allora
retta
da
Ippolito
e
Alessandro
de’
Medici,
sotto
la
vigilanza
del
legato
pontificio
Silvio
Passerini
e
con
il
benestare
di
papa
Clemente
VII,
al
secolo
Giulio
de’
Medici
(in
quanto
figlio
illegittimo
di
quel
Giuliano
vittima
della
congiura
dei
Pazzi
del
1478).
Il
motivo
di
tanta
segretezza
risiedeva
nel
timore
che
i
repubblicani
in
città,
ostili
dalla
dominazione
medicea,
insorgessero
non
appena
saputo
di
Roma
saccheggiata
e di
Clemente
VII
rinchiuso
in
Castel
Sant’Angelo.
Le
paure
non
erano
infondate:
all’udire
la
notizia
del
sacco,
che
del
resto
era
fin
troppo
eclatante
per
poter
essere
tenuta
nascosta
a
lungo,
i
Fiorentini
colsero
al
volo
l’occasione
per
restaurare
le
libertà
repubblicane.
Filippo
Strozzi,
Niccolò
Capponi,
Francesco
Vettori
e
buona
parte
del
patriziato
fiorentino
costrinsero
il
cardinal
Passerini,
Ippolito
e
Alessandro
de’
Medici
a
lasciare
Firenze.
Rinacque
così
la
Repubblica
fiorentina,
nella
forma
di
un «regime
democratico-oligarchico,
di
tipo
veneziano»
(Alessandro
Monti).
Furono
perciò
ripristinati
organi
e
magistrature
tipicamente
repubblicani,
come
il
Consiglio
Maggiore
o i
Dieci
di
Libertà
e
Pace
e
alla
carica
di
gonfaloniere
venne
eletto
Niccolò
Capponi,
uomo
di
una
certa
età
noto
per
la
sua
moderazione
e la
sua
prudenza
nonostante
la
passata
vicinanza
al
Savonarola.
La
questione
centrale,
al
di
là
del
quadro
istituzionale,
era
tuttavia
una
e
una
soltanto:
come
e
con
chi
schierarsi
nella
complessa
trama
dei
conflitti
e
delle
relazioni
internazionali?
La
Repubblica
contro
tutti
La
Repubblica
doveva
darsi
degli
obiettivi
in
politica
estera,
assicurandosi
al
contempo
la
stabilità
sul
versante
interno.
Un
compito,
quest’ultimo,
reso
particolarmente
difficile
dalla
diffidenza,
dal
sospetto
e
dalle
accuse
verso
tutti
coloro
che
in
qualche
modo
erano
stati
legati
al
passato
regime,
come
Francesco
Guicciardini
o
Jacopo
Salviati.
Il
Capponi
si
adoperò
al
massimo
delle
sue
possibilità
per
la
coesione
della
Repubblica,
ma
senza
successo.
La
pestilenza
scoppiata
nel
giugno
dello
stesso
1527
e il
protrarsi
della
lotta
contro
le
truppe
imperiali
certo
non
rendevano
il
quadro
migliore.
Forse
fu
proprio
la
gravità
della
situazione
a
spingere
il
Capponi
a
far
proclamare
Gesù
Cristo
Re
di
Firenze,
come
era
accaduto
ai
tempi
di
Savonarola.
La
mossa
se
non
altro
gli
valse
il
favore
dei
Piagnoni.
Ma
era
sul
fronte
della
politica
estera
che
la
Repubblica
di
Firenze,
quasi
senza
accorgersene,
stava
consumando
quello
che
autorevolmente
è
stato
definito
il
suo
“peccato
originale”.
L’inclinazione
naturale
del
nuovo
regime,
nato
dalla
totale
rottura
col
passato
mediceo
e di
conseguenza
con
Clemente
VII,
sarebbe
stata
quella
filoimperiale:
Carlo
V
avrebbe
certamente
accolto
con
favore
un
alleato
tanto
ostile
al
papa,
specialmente
se
quell’alleato
era
un
membro
della
lega
di
Cognac
che
mutava
schieramento.
E
invece,
contro
ogni
logica,
ma
in
ossequio
alla
linea
tradizionalmente
tenuta
dalla
Firenze
degli
anni
precedenti,
la
Repubblica
aveva
deciso
di
mantenere
la
sua
posizione
filofrancese,
con
il
risultato
di
aver
dato
ai
due
uomini
più
potenti
d’Europa,
Carlo
V e
Clemente
VII,
un
motivo
in
più
per
riavvicinarsi.
Il
Capponi,
da
uomo
avveduto
qual
era,
era
conscio
dei
rischi
di
una
guerra
contro
l’Impero
e il
Papato,
considerata
in
particolare
l’esiguità
delle
forze
fiorentine,
ormai
ridotte
ai
minimi
termini
dopo
i
conflitti
degli
ultimi
anni.
Proprio
tali
timori
lo
spinsero
a
riprendere
le
relazioni
diplomatiche
con
alcuni
emissari
del
papa,
nella
speranza
di
allontanare
il
pericolo
di
una
guerra
già
persa
in
partenza.
Questa
sua
iniziativa,
realista
e
saggia,
non
passò
tuttavia
inosservata
alle
fazioni
più
estremiste
della
Repubblica:
una
lettera
ritrovata
il
16
aprile
1529
dal
suo
avversario
Jacopo
Gherardi
rivelò
la
corrispondenza
del
gonfaloniere
con
l’odiato
Clemente
VII.
L’accusa
di
aver
tramato
contro
la
Repubblica,
certo
una
strumentalizzazione
politica,
costò
al
Capponi
la
carica.
Già
il
17
aprile
dovette
dimettersi.
Al
suo
posto
fu
eletto
Francesco
Carducci,
un
leader
degli
Arrabbiati
di
umili
natali.
Intransigente
verso
qualunque
compromesso
con
i
Medici
e
con
gli
esponenti
della
precedente
classe
dirigente,
fino
ad
allora
Carducci
non
aveva
mai
avuto
un
ruolo
di
primo
piano
nella
politica
fiorentina.
Cionondimeno
il
suo
estremismo
compensò
quel
che
gli
mancava
in
termini
di
notorietà:
il
Carducci,
stando
a
quanto
riferito
da
una
relazione
inviata
a
Carlo
V, «havea
abbracciata
la
Repubblica
con
intention
di
doverla
governare
con
quelle
maniere,
che
più
piacevano
al
popolo
(…)
e d’havere
a
essere
asprissimo
nimico
de’
nobili,
e
della
famiglia
de’
Medici».
Inutile
dire
che
le
trattative
con
Clemente
VII
furono
interrotte
bruscamente.
Firenze
aveva
scelto
la
guerra.
Il
nemico
alle
porte
Nel
frattempo
gli
ultimi
sviluppi
nel
sistema
delle
alleanze
avevano
drasticamente
mutato
l’assetto
delle
relazioni
internazionali.
Nel
giugno
1529
Carlo
V e
Clemente
VII
siglarono
il
trattato
di
Barcellona,
con
cui
l’imperatore
prometteva
di
riconquistare
Firenze
per
i
Medici
in
cambio
della
riappacificazione
e
dell’incoronazione
papale
(che
sarebbe
avvenuta
a
Bologna
l’anno
successivo).
Inoltre
nello
stesso
anno
la
pace
di
Cambrai
pose
fine,
almeno
per
il
momento,
al
conflitto
tra
Carlo
V e
Francesco
I,
sancendo
la
rinuncia
di
quest’ultimo
a
Napoli
e a
Milano
in
cambio
della
restituzione
della
Borgogna.
Firenze
era
rimasta
sola,
come
previsto
dal
Capponi.
Alla
Repubblica
non
restò
che
preparare
le
sue
difese.
Dell’arduo
compito
si
occupò,
tra
gli
altri,
Michelangelo,
incaricato
di
potenziare
le
fortezze
del
dominio,
come
Livorno
e
Pisa,
e di
progettare
nuove
fortificazioni
per
la
città
attorno
alla
chiesa
di
San
Miniato,
luogo
ideale
per
l’artiglieria.
Il
risultato
fu
ottimo:
all’inizio
dell’assedio
Firenze
“era
ben
fortificata
e
pressoché
inespugnabile”
(Najemy).
L’esercito
fiorentino
era
composto
da
10.000
mercenari
e
dalla
milizia
cittadina,
rifondata
nel
novembre
del
1528.
Quest’ultima
arrivò
a
contare
diecimila
uomini
e
durante
l’assedio,
spinta
dall’ardore
repubblicano
e
dalla
retorica
che
si
ricollegava
alla
grandezza
di
Roma
e di
Sparta,
diede
prove
di
valore
e di
coesione
degne
di
nota.
Il
comando
della
difesa
fu
assegnato
a
Malatesta
Baglioni,
signore
di
Perugia,
figura
tra
le
più
controverse
dell’intera
vicenda.
Almeno
sulla
carta
era
un
soldato
di
professione
e la
guerra
la
conosceva
bene,
come
aveva
dimostrato
al
servizio
della
Repubblica
di
Venezia.
Ma
nei
fatti
si
sarebbe
rivelato
meno
affidabile
di
quel
che
sembrava.
La
Repubblica
sotto
assedio
Le
truppe
imperiali
si
presentarono
di
fronte
alla
città
già
sul
finire
del
1529.
Il
comando
degli
assedianti
fu
affidato
a
Filiberto
di
Chalons,
principe
d’Orange,
generale
molto
apprezzato
dall’imperatore
Carlo
V
per
la
prudenza
e le
doti
diplomatiche.
Fra
truppe
tedesche,
italiane
e
spagnole,
disponeva
inizialmente
di
circa
11.000
uomini,
ma
in
seguito
arrivò
forse
a
contare
su
30.000
unità.
L’esercito
imperiale
si
accampò
a
sud
dell’Arno.
Il
12
ottobre
il
fuoco
d’artiglieria
proveniente
dalle
postazioni
della
Repubblica
segnò
l’inizio
di
un
lungo,
estenuante
assedio.
Nonostante
i
propositi
del
principe
d’Orange
di
far
breccia
rapidamente
nelle
mura
fiorentine,
i
combattimenti
precipitarono
in
una
fase
di
sconfortante
stallo:
gli
assedianti,
da
un
lato,
si
cimentavano
in
infruttuosi
assalti
alle
fortificazioni
di
Firenze;
gli
assediati,
dall’altro,
tentavano
disperate
sortite
per
scompigliare
lo
schieramento
imperiale.
Furono
mesi
orribili
per
i
Fiorentini,
terrorizzati
dal
martellamento
dei
bombardamenti
avversari
e
decimati
dalla
peste
e
dalle
cruente
scaramucce.
Persa
fiducia
nell’immobilismo
del
Baglioni,
sempre
più
speranze
erano
riposte
in
un
altro
condottiero
della
Repubblica,
Francesco
Ferrucci.
Allora
quarantenne,
il
Ferrucci
sarebbe
divenuto
l’eroe
dell’assedio
di
Firenze,
un
onore
che
ben
pochi
di
quelli
che
lo
conoscevano
gli
avrebbero
attribuito.
Il
filomediceo
Francesco
Baldovinetti
ha
scritto
infatti
che
era
un «uomo
levato
ad
alterarsi,
bestiale,
bestemmiatore,
crudelissimo,
volenteroso,
animoso
e
senza
ragione».
Divenuto
commissario
a
Empoli
per
conto
della
Repubblica
fiorentina
nel
1528,
seppe
tuttavia
dimostrare
la
sua
tenacia
e il
suo
valore
sul
campo,
dando
un
importante
contributo
nella
predisposizione
delle
difese
di
Firenze
e
dell’area
circostante.
Divenne
famoso
per
la
repressione
della
rivolta
della
ribelle
Volterra
nell’aprile
del
1530
e
per
il
modo
in
cui
riuscì
a
respingere
i
successivi
attacchi
di
Fabrizio
Maramaldo,
capitano
di
ventura
al
servizio
delle
truppe
imperiali.
Malgrado
le
stravaganze,
il
Ferrucci
era
l’unica
di
speranza
di
mantenere
in
vita
la
libertà
del
popolo
fiorentino.
Frattanto
a
Firenze
le
cose
non
si
mettevano
bene.
Dal
gennaio
del
1530
l’esercito
imperiale,
grazie
all’apporto
di
forze
fresche,
era
riuscito
a
chiudere
l’accerchiamento
della
città,
ormai
circondata
da
tutti
i
lati.
A
causa
del
blocco
delle
principali
arterie
di
rifornimento,
il
prezzo
delle
derrate
era
salito
alle
stelle
e il
governo
aveva
dovuto
stabilire
il
razionamento
del
cibo.
Alla
fame
si
era
aggiunta
anche
una
maggiore
pressione
fiscale,
imposta
dalle
autorità
per
far
fronte
alle
spese
militari.
E
tuttavia,
contrariamente
a
quanto
ci
si
potrebbe
aspettare,
i
Fiorentini,
pervicaci
come
non
mai,
non
persero
neanche
allora
la
loro
compattezza;
anzi
dichiaravano
con
fierezza
di
essere
“poveri,
e
liberi”.
Testimonianza
preziosa
della
profonda
convinzione
del
popolo
fiorentino
è
senza
dubbio
l’orazione
alla
milizia
pronunciata
il 3
febbraio
1530
da
Bartolomeo
Cavalcanti,
nobile
fiorentino
sostenitore
della
Repubblica.
Questi
parlò
ai
concittadini
utilizzando
ogni
espediente
retorico
per
rafforzarne
lo
zelo,
perfino
quello
dell’indipendenza
della
penisola
italiana:
«Difendesi
la
gloria
del
nome
italiano
da
barbare
e di
quello
inimicissime
nazioni».
«VILE,
TU
UCCIDI
UN
UOMO
MORTO!»:
disfatta
a
Gavinana
Il
governo
fiorentino,
consapevole
della
sempre
maggiore
scarsità
di
uomini
da
arruolare
nonché
dell’esiguità
delle
scorte,
ordinò
al
Ferrucci
di
far
convergere
le
sue
forze
(3000
fanti
e
300
cavalleggeri)
verso
Firenze
per
spezzare
l’assedio
dall’esterno.
Ma
accadde
qualcosa
di
inatteso:
il
principe
d’Orange
lasciò
improvvisamente
Firenze
con
un
robusto
distaccamento
di
3000
uomini
e di
1000
cavalieri
e
marciò
a
nord
in
cerca
del
Ferrucci,
affidando
il
comando
dell’assedio
a
Ferrante
Gonzaga.
Come
poteva
il
comandante
in
capo
delle
truppe
imperiali
essere
sicuro
che,
portando
con
sé
tanta
parte
del
suo
esercito,
il
Baglioni
non
ne
avrebbe
approfittato
per
tentare
una
sortita
con
buone
probabilità
di
vittoria?
Stando
alla
tradizione
storiografica,
Benedetto
Varchi
(1503-1565)
in
testa,
la
spiegazione
va
ricercata
nel
tradimento:
il
comandante
delle
truppe
fiorentine,
certo
dell’inevitabilità
della
disfatta
e
desideroso
di
mantenere
le
concessioni
papali
su
Perugia
e
altre
località,
avrebbe
promesso
al
principe
d’Orange
di
non
attaccare
il
campo
degli
assedianti
durante
l’assenza
di
quest’ultimo.
Tralasciando
il
dibattito
sul
ruolo
e
sulle
reali
intenzioni
del
Baglioni,
da
questa
complessa
fase
di
manovre
e,
forse,
di
sotterfugi
emerse
con
chiarezza
che
sarebbe
stata
una
battaglia
a
decidere
le
sorti
dell’assedio.
E fu
il 3
agosto
1530
che
lo
scontro
tanto
atteso
ebbe
luogo
nelle
vicinanze
di
Pistoia,
presso
l’oscuro
borgo
fortificato
di
Gavinana.
La
giornata,
occorre
dirlo,
fu
decisa
già
dalle
manovre
preliminari
delle
truppe
imperiali.
Il
Ferrucci
infatti,
indugiando
eccessivamente
nel
saccheggio
del
borgo
di
San
Marcello,
situato
poco
a
ovest
di
Gavinana,
aveva
perso
di
vista
i
movimenti
delle
forze
imperiali,
al
punto
da
lasciarsi
circondare:
alle
spalle
aveva
la
fanteria
italiana
e
spagnola
guidata
da
Alessando
Vitelli
e le
bande
panciatiche
di
Niccolò
Bracciolini,
a
nord
gli
uomini
di
Fabrizio
Maramaldo
e di
fronte
le
truppe
imperiali
del
principe
d’Orange
provenienti
da
Firenze.
Ben
poco
era
lo
spazio
riservato
alla
strategia:
l’obiettivo
era
aprirsi
un
varco
in
quel
cerchio
mortale.
I
primi
combattimenti
videro
prevalere
la
cavalleria
fiorentina
su
quella
del
principe
d’Orange.
Gli
uomini
del
Ferrucci,
a
suon
di
cariche
furibonde,
si
guadagnarono
l’ingresso
nel
borgo
di
Gavinana,
proprio
mentre
Maramaldo
vi
entrava
indisturbato
con
i
suoi
dall’altro
lato
del
paese.
Il
principe
d’Orange
nel
frattempo,
ricompattate
le
sue
forze,
si
lanciò
in
una
carica
vigorosa,
spingendosi
più
in
là
di
quanto
sia
concesso
a un
generale
in
battaglia.
Quasi
come
punizione
per
aver
svolto
«offizio
più
di
uomo
d’armi
che
non
di
capitano»
(Francesco
Guicciardini),
l’Orange
fu
colpito
in
pieno
da
due
palle
di
archibugio
sul
petto
e
sul
collo.
La
morte
del
loro
comandante
rese
per
un
momento
titubanti
le
truppe
imperiali
e
diede
un
barlume
di
speranza
al
Ferrucci
di
poter
spezzare
la
morsa
dell’avversario.
Ma
la
pressione
di
Maramaldo
all’interno
del
borgo
unita
a
quella
dei
nemici
che
aveva
di
fronte
non
permettevano
di
illudersi
troppo.
La
situazione
si
aggravò
quando
le
truppe
imperiali,
sbaragliati
i
nemici
che
erano
rimasti
fuori
da
Gavinana,
ebbero
mani
libere
per
condurre
l’offensiva
finale.
Iniziò
così
l’estrema
difesa
del
Ferrucci
e
dei
suoi
uomini
contro
forze
schiaccianti
che
attaccavano
da
ogni
lato
e
senza
sosta.
La
battaglia
raggiunse
il
suo
momento
più
epico,
ma
il
destino
di
quel
che
rimaneva
dell’esercito
fiorentino
era
segnato.
Dopo
una
disperata
resistenza,
il
Ferrucci
e le
sue
truppe
furono
presi
prigionieri.
Il
capitano
fiorentino,
che
a
detta
di
tutte
le
fonti
coeve
si
era
battuto
come
un
leone,
era
gravemente
ferito.
Nonostante
questo,
Maramaldo,
suo
nemico
di
sempre,
lo
volle
finire
con
le
sue
mani.
La
leggenda
racconta
che
il
Ferrucci
prima
di
essere
ucciso
avrebbe
detto:
«Vile,
tu
uccidi
un
uomo
morto!».
Un
duca
per
Firenze
La
disfatta
di
Gavinana
segnò
la
fine
delle
speranze
della
Repubblica.
Il
12
agosto
1530,
presso
la
chiesa
di
Santa
Margherita
a
Montici,
fu
siglata
la
resa.
Per
volere
di
Carlo
V
Alessandro
dei
Medici
fu
posto
a
capo
della
Repubblica
fiorentina,
per
poi
divenirne
duca
dal
1532.
Il
suo
governo
non
sarebbe
tuttavia
durato
a
lungo:
già
nel
1537
fu
brutalmente
assassinato,
lasciando
il
posto
a
un
membro
dei
Medici
del
ramo
“popolare”,
Cosimo
(1519-1574),
figlio
del
celebre
Giovanni
dalle
Bande
Nere.
Il
suo
governo,
fortemente
accentrato,
inaugurò
la
lunga
esperienza
del
Granducato
di
Toscana,
passata
attraverso
l’estinzione
della
dinastia
medicea
con
la
morte
di
Gian
Gastone
(1737),
la
dominazione
lorenese
e,
dopo
la
parentesi
napoleonica,
le
travagliate
vicende
risorgimentali.
Di
questa
vicenda
plurisecolare
l’assedio
di
Firenze
fu
il
preludio.
Il
fallimento
della
Repubblica
mostrò
infatti
l’impossibilità
per
uno
Stato
italiano
di
sfidare
apertamente
i
giganti
d’Europa
e
mise
a
nudo
il
drastico
ridimensionamento
dell’Italia
e
delle
sue
realtà
politiche
nel
panorama
internazionale.
L’unica
via
per
sopravvivere
era
dotarsi
di
una
costituzione
monarchica,
allineandosi
alle
tendenze
politiche
dell’epoca,
e
magari
trovare
la
protezione
di
una
potenza
straniera.
Soltanto
la
Repubblica
di
Venezia,
in
ambito
italiano,
mantenne
saldamente
la
sua
indipendenza
e il
suo
assetto
istituzionale.
Nonostante
questa
fine
apparentemente
irreversibile
di
tutto
ciò
che
la
resistenza
della
Repubblica
fiorentina
aveva
rappresentato,
la
cultura
del
Risorgimento
studiò
con
sommo
interesse
l’assedio
di
Firenze
del
1529,
elevato
a
simbolo
dell’opposizione
“italiana”
allo
straniero.
Basti
pensare
a
Francesco
Domenico
Guerrazzi,
il
quale
pubblicò
sulla
vicenda
un
fortunato
romanzo
storico
nel
1836,
e ai
molti
che
lo
imitarono.
Perfino
Giuseppe
Verdi
pensò
di
realizzare
un’opera
in
musica
sul
Ferrucci
e si
potrebbe
andare
avanti
a
lungo
con
le
citazioni.
In
fondo
è
soprattutto
questo
che
stupisce
della
Storia:
i
suoi
fili
non
smettono
mai
di
intrecciarsi.
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