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N. 25 - Gennaio 2010
(LVI)
1204: La caduta di Costantinopoli
fine dell'impero d'Oriente
di Christian Vannozzi
La
caduta
di
Costantinopoli
nella
primavera
del
1204
si
inserisce
nel
quadro
dei
rapporti
secolari
tra
Oriente
ed
Occidente
dominati
dall’attrazione
reciproca
delle
due
partes
dell’universo
cristiano
che
vagheggiano
per
tutto
il
Medioevo
il
ricordo
della
pace
romana.
Durante
i
secoli,
le
due
partes
della
cristianità
europea,
nate
dallo
stesso
impero
e da
una
cultura
comune,
si
sono
scisse
fino
a
formare
due
mondi
divergenti,
impermeabili
a
generose
reciproche
penetrazioni.
Gli
eventi
del
1204
hanno
rappresentato
essenzialmente
l’espressione
politica
e
militare
di
uno
scisma
da
lungo
tempo
consumato:
scisma
sociale,
psicologico
ed
economico.
Mentre
in
Occidente
si
sviluppava
la
società
e
l’organizzazione
feudale,
caratterizzata
da
un
sistema
economico
principalmente
agricolo
e
scambi
limitati
da
feudo
a
feudo
limitrofi,
in
Oriente,
l’impero
aveva
ancora
una
grande
flotta
mercantile
in
grado
di
scambiare
e
vendere
merci
nei
porti
dell’Africa
e
dell’Europa
mediterranea.
Da
un
punto
di
vista
politico,
in
Occidente
esisteva,
seppur
solo
nominalmente,
un
impero,
ma
questo
non
aveva
potestà
di
imperio
sull’intero
territorio
che
nominalmente
gli
era
sottomesso.
In
realtà
il
potere
era
decentrato
e
delegato
dallo
stesso
imperatore
ai
vari
signori
e
principi
regionali,
che
avevano,
grazie
alle
loro
forze
militari,
l’effettivo
controllo
della
regione.
Li
dove
l’impero
non
aveva
neanche
potestà
nominale,
vi
erano
le
grandi
monarchie
di
Francia
ed
Inghilterra,
ma
la
situazione
non
era
diversa,
anche
li
il
reggente
non
aveva
un
effettivo
potere
sull’intero
territorio
nazionale,
lo
Stato
era
infatti
diviso
in
signorie
e
principati
che
avevano
un
proprio
reggente,
che
solo
nominalmente
era
soggetto
al
re.
In
Oriente,
le
strutture
romane
invece
persistevano,
anche
se
ormai
in
decadenza,
e
l’imperatore
aveva
ancora
il
potere
assoluto
su
tutto
l’impero,
e
nominava
generali
(Strategos),
ammiragli
(Megadoux)
e
governatori
(Arconti).
Esisteva
in
oriente
un
senato,
costituito
dagli
aristocratici
della
capitale
e
delle
province
dell’impero,
ed
esisteva
una
chiesa
che
al
contrario
di
quella
occidentale
che
si
avviava
ad
instaurare
un
vero
e
proprio
potere
teocratico
in
terra
nella
persona
del
Sommo
Pontefice
Romano,
la
chiesa
d’Oriente
era
totalmente
sottomessa
all’imperatore,
che
nominava
il
patriarca,
e
cooperava
con
lo
Stato.
Un'altra
distinzione
era
nella
lingua
e
nella
cultura.
I
Latini
parlavano
ormai
le
lingue
romanze,
la
loro
cultura
era
ad
un
livello
molto
basso
e
non
avevano
quasi
più
sentore
dei
grandi
filosofi
e
studiosi
del
passato.
In
Oriente
la
vita
culturale
era
senza
dubbio
più
florida.
Si
parlava
il
greco,
si
conservavano
i
testi
medici
di
Ippocrate,
di
Esculapio,
i
testi
dei
filosofi
Platone
ed
Aristotele,
ed i
manoscritti
dei
padri
della
chiesa,
Tertulliano,
Origene,
ed
Eusebio.
La
conquista
di
Tessalonica
da
parte
dei
normanni
nel
1185
aveva
creato
un
baratro
di
divergenze
fra
Greci
e
Latini.
I
Normanni,
all’apice
della
loro
potenza,
tentarono
la
penetrazione
nel
cuore
dell’impero
bizantino
come
avevano
fatto
nell’Italia
meridionale.
La
caduta
dell’ultima
roccaforte
bizantina
in
Italia,
Bari,
segna
la
conquista
dell’intera
Italia
meridionale
da
parte
dei
Normanni,
che
conquistando
anche
l’altra
sponda
del
canale
di
Otranto,
sarebbero
divenuti
la
più
grande
potenza
regionale
del
mare
Adriatico.
Tale
ambizione
trovò
però
l’opposizione
della
repubblica
di
Venezia,
gelosa
dei
suoi
traffici
adriatici
ed
interessata
a
mantenere
lo
status
quo
nel
Mediterraneo.
L’esistenza
dell’impero
greco,
anche
se
ormai
decadente,
era
una
soluzione
migliore
che
la
nascita
di
un
potentissimo
impero
normanno
che
avrebbe
dominato
dall’Italia
meridionale
a
Costantinopoli.
Un
simile
impero
avrebbe
detenuto
il
monopolio
dei
traffici
marittimi
e
relegato
la
repubblica
di
Venezia
al
ruolo
di
vassallo.
L’esito
negativo
della
Seconda
Crociata
influenzò
notevolmente
in
Occidente
gli
orientamenti
politici
ed
ideologici.
Avanzava
l’idea
di
mettere
fine
alla
rivalità
bizantina.
Dopo
la
metà
del
secolo
scorso,
sorse
attorno
a
questo
evento
fondamentale
nella
storia
europea
il
problema
della
“deviazione”.
Problema
che
rischia
di
essere
un
falso
problema
poiché
non
esistono
prove
concrete
che
possano
appoggiare
la
tesi
della
premeditazione.
Rimane
quindi
molto
difficile
pronunciarsi
sulla
casualità
o
meno
dell’avvenimento.
Gli
autori
contemporanei
non
aiutano
a
chiarire
questo
punto.
I
cronisti
occidentali
che
narrano
queste
vicende
sono
talvolta
testimoni
oculari
come
Roberto
di
Clari,
semplice
cavaliere
della
Piccardia,
o
Goffredo
di
Villehardouin,
maresciallo
di
Champagne
ed
uno
dei
capi
della
spedizione.
Tuttavia
le
loro
cronache
non
forniscono
notizie
utili
su
ciò
che
avrebbe
potuto
nascondersi
dietro
l’impresa.
I
loro
resoconti
risultano
utilissimi
in
quanto
fonti
dirette
ma
criticabili
in
molti
punti
perché
scritti
da
storici
improvvisati.
È
inoltre
comune
a
queste
due
opere
il
“romanzare”
le
vicende
narrate
ed
attribuire
alla
conquista
di
Costantinopoli
un
carattere
provvidenziale.
La
cronaca
del
Villehardouin,
senza
dubbio
più
raffinata
nello
stile
e
più
precisa
nel
racconto
degli
avvenimenti,
è
considerata
dagli
storici
della
Quarta
Crociata
la
fonte
principale
per
il
racconto
dell’evento.
Questa
si
presenta
però
come
una
vera
è
propria
“apoteosi”
dei
comandanti
crociati,
che
“costretti”
dalla
perfidia
e
dall’ingratitudine
dei
Greci,
per
volere
di
Dio,
tolgono
l’impero
e le
sacre
reliquie
dalle
mani
dei
corrotti
e
scismatici
imperatori,
per
restituirli
alla
Santa
Romana
Chiesa.
Il
racconto
del
Maresciallo
di
Champagne
evidenzia
infatti
la
buona
condotta
ed i
giusti
propositi
dei
comandanti
crociati
e di
Enrico
Dandolo,
mostrando
come
la
Provvidenza
guidasse
il
loro
operato
e
come
fosse
giusto
che
una
delle
città
sacre
dell’antichità,
Costantinopoli,
non
fosse
più
a
lungo
governata
da
scismatici
traditori
sia
di
Dio
che
dei
crociati
che
li
avevano
aiutati.
La
figura
di
Alessio
V
Murzuflo,
viene
infatti
identificata
come
quella
di
usurpatore
e di
un
“fellone”,
caratteristiche
tipiche
dei
Greci.
Il
cavaliere
Roberto
di
Clari,
piccolo
possidente
della
Piccardia,
precisamente
del
paesino
di
Clari,
scrive
invece
una
cronaca
che
è
ben
lungi
dall’essere
un’apoteosi
dei
comandanti
crociati,
anzi
ne
evidenzia
la
malafede
ed i
vizi.
Fra
le
due
cronache
infatti
quella
del
Clari,
anche
se
scritta
in
uno
stile
nettamente
inferiore
rispetto
a
quello
del
Villehardouin,
riesce
a
focalizzare
l’attenzione
su
aspetti
determinanti
della
vicenda.
Il
cavaliere
piccardo
infatti
pone
l’attenzione
sulla
truppa,
e su
quello
che
questa
vedeva
e
sentiva
durante
le
marce
o
nel
campo.
Le
aspirazioni
e
gli
atti
eroici
dei
piccoli
cavalieri
francesi,
partiti
con
il
desiderio
di
liberare
la
Terra
Santa
per
rendere
onore
a
Gesù
Cristo
il
redentore,
e
per
ottenere
ricchezze
e
feudi
che
gli
avrebbero
permesso
di
ottenere
un’ascesa
sociale
e
una
prospettiva
di
vita
migliore
che
in
Francia
non
potevano
ottenere.
Questi
cavalieri
e
soldati,
tra
cui
Robert,
si
trovarono
però
ad
essere
“pilotati”
come
marionette
dalle
abili
mani
di
personaggi
come
Bonifacio
di
Monferrato
ed
il
doge
Enrico
Dandolo,
i
quali
pensando
più
al
loro
tornaconto
personale,
imbrogliarono
i
cavalieri
francesi,
che
si
trovarono
prima
in
guerra
contro
la
città
cristiana
di
Zara
e
poi
contro
Costantinopoli.
Questi
cavalieri
non
raggiunsero
mai
la
Terra
Santa,
e
non
riuscirono
nemmeno
ad
ottenere
ricchezze
e
terre
con
cui
migliorare
la
propria
condizione
economica,
in
quanto
l’avidità
e
gli
abili
intrighi
politici
dei
comandanti
crociati
gli
levarono
ogni
sogno
ed
ogni
aspirazione.
I
“poveri”
cavalieri
tornarono
infatti
dopo
un
anno
dalla
conquista
di
Costantinopoli
nei
loro
miseri
feudi
francesi,
con
un
bottino
irrisorio
e
con
la
consapevolezza
che
i
grandi
signori
li
avevano
“truffati”.
Gli
ultimi
capitoli
della
cronaca
del
Clari
narrano
infatti
come
grazie
alla
punizione
divina,
rappresentata
dalle
orde
dei
cumani
guidate
dallo
Zar
di
Bulgaria,
i
grandi
feudatari
crociati,
tra
cui
l’imperatore
latino
d’Oriente,
Baldovino
di
Fiandra
che
fu
catturato
nella
battaglia
di
Adrianopoli,
persero
gran
parte
dei
loro
territori
e
dei
loro
tesori.
Lo
storico
greco
Niceta
Coniata,
anch’egli
testimone
oculare
della
vicenda,
fa
un
resoconto
molto
dettagliato
e
ben
curato
sulla
caduta
della
capitale
imperiale.
Egli
attribuiva
la
responsabilità
dell’avvenimento
al
Doge
Enrico
Dandolo,
scriveva
infatti:
“Tutte
le
volte
che
egli
si
soffermava
a
riflettere,
e
considerava
quante
offese
avessero
dovuto
sopportare
i
veneziani
durante
il
regno
dei
fratelli
Angeli
e al
tempo
in
cui,
prima
di
loro,
Andronico
e,
ancora
prima,
Manuele
governavano
l’impero
romano,
riconosceva
di
meritare
la
morte,
per
non
aver
ancora
punito
i
romani
dell’oltraggioso
comportamento
verso
la
sua
gente.
Tuttavia
consapevole
come
era
che
avrebbe
solo
nuociuto
a se
stesso,
se
avesse
tentato
di
vendicarsi
dei
romani
con
l’aiuto
dei
suoi
soli
concittadini,
considerò
l’opportunità
di
procurarsi
altri
alleati
e di
informare
dei
suoi
segreti
progetti
coloro
che,
a
quanto
sapeva,
nutrivano
un
implacabile
odio
verso
i
romani,
alla
cui
prosperità
guardavano
con
occhi
invidiosi
ed
avidi”.
Martin
da
Canal,
un
altro
cronista
occidentale,
ci
presenta
una
visione
della
conquista
di
Costantinopoli
nettamente
opposta
a
quella
presentata
dal
Coniata.
Da
Canal
scrive
attorno
al
1270
una
storia
di
Venezia
in
francese.
Questo
storico
era
probabilmente
nato
a
Venezia
ma
aveva
vissuto
a
lungo
lontano
dalla
sua
città.
La
sua
cronaca
rispecchia
l’opinione
pubblica
veneziana
dei
primi
decenni
del
secolo
XIII.
Da
Canal
sostiene
che
la
diversione
fu
voluta
dal
papa
e
non
accenna
alle
incomprensioni
tra
il
doge
e il
papa.
Rivela
uno
spirito
antifrancese
quando,
ad
esempio,
attribuisce
ai
cavalieri
francesi
la
proposta
di
saccheggio
e
spartizione
di
Costantinopoli.
Alcuni
rappresentanti
della
vita
intellettuale,
Bernardo
di
Chiaravalle,
Pietro
di
Cluny,
Suger
de
Saint
Denis
si
schierarono
a
favore
di
un’alleanza
franco-normanna
rivolta
contro
l’impero
greco.
Conquistare
Costantinopoli
apparirà
come
il
mezzo
essenziale
per
difendere
il
Santo
Sepolcro
e
ricostruire
l’unità
della
Cristianità.
L’idea
di
crociata
aveva
dunque
seguito
fin
dalle
origini
uno
sviluppo
parallelo
all’idea
di
porre
fine
allo
scisma
e
all’avere
più
salde
roccaforti
al
confine
con
l’impero
islamico.
Riferimenti
bibliografici:
NICETA
CONIATA,
L’impero
latino,
in
Bisanzio
nella
sua
letteratura,
a
cura
di
U.
Albini,
E.
Maltese,
Milano
1984,
p.
641.
G.
DE
VILLEHARDOUIN,
La
conquista
di
Costantinopoli,
trad.
F.
Garavini,
Tornino
1962.
R.
DI
CLARI,
La
Conquista
di
Costantinopoli,
cur.
A.M.
Nada
Patrone,
Genova
1972.
A.
PERTUSI,
Maistre
Martin
da
Canal
interprete
cortese
delle
crociate
e
dell’ambiente
veneziano
del
secolo
XIII,
in
Venezia
dalla
prima
crociata
alla
conquista
di
Costantinopoli
del
1204,
Firenze
1965,
p.
103.
|
|
|
GBe
edita e pubblica:
.
-
Archeologia e Storia
.
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Architettura
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